Prospettive demografiche e sistema capitalistico
È di questi giorni la notizia che, pure quest’anno, quasi sicuramente si verificherà un calo delle nascite. Infatti, se durante il 2023 in Italia sono venuti al mondo 379 mila bambini, con una decrescita del 3,6% rispetto al 2022, nei primi 6 mesi del 2024 siamo solamente a 178 mila nuovi nati, con un ulteriore decremento dell’1,4%.
Inutile dirlo, ci troviamo abissalmente distanti dal baby boom del 1964 che vide oltre un 1.000.000 di nati, o anche dai 569.000 ad esempio del 1990. Negli ultimi decenni, poi, l’età media delle donne italiane al primo figlio si è innalzata, raggiungendo il non invidiabile primato di quasi 32 anni, mentre il numero medio di figli per donna è sceso ad appena 1,20.
Neppure molto meglio va il resto dell’Unione Europea. Come certificato dall’Eurostat, nel 2022 i nati sono stati 3,88 milioni con un calo che prosegue dal 2008 quando si raggiunsero i 4,68 milioni. Inoltre, pure nei 27 stati membri, il tasso di fertilità non risulta assolutamente idoneo a garantire un equilibrato cambio generazionale, fermandosi ad appena 1,46 nascite per donna: il che (al netto di nuovi ingressi provenienti da altri paesi del mondo) equivale a perdere oltre 100.000 milioni di abitanti nel giro di un secolo circa.
Approfondendo ulteriormente le statistiche si nota come il problema sussista in tutti i paesi a economia capitalista industrializzata, o sarebbe meglio dire post-industrializzata. Negli Stati Uniti, il tasso di fertilità ha raggiunto nel 2023 il suo minimo storico, con un declino delle nascite che ha portato il tasso complessivo al livello più basso degli ultimi cent’anni, sceso al di sotto di 1,7 figli per donna; dato che in Canada si attesta a 1,43 bimbi per donna, a 1,30 bambini in Giappone, per crollare addirittura a 0,78 figli per donna nella Corea del Sud.
All’opposto, tra i paesi a più alta natalità, troviamo il Niger, la Somalia, il Ciad, il Mali, l’Angola, il Congo, il Burundi, il Gambia, la Nigeria, il Mozambico, il Burkina Faso, l’Uganda, la Tanzania, lo Zambia, la Guinea, la Costa d’Avorio, il Camerum e tutta un’altra serie di paesi africani, asiatici e sudamericani.
Naturalmente esperti e politici si sono arrovellati a comprendere le cause del problema e a offrire plausibili soluzioni. In Italia Giorgia Meloni, sin dai primi giorni del suo mandato, ha definito il problema della natalità una “priorità assoluta” del governo, tanto che, un paio di settimane fa, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha ipotizzato una tassazione più leggera per chi ha figli da attuarsi per il tramite della prossima manovra finanziaria.
Ma nel corso del tempo non sono mancate ulteriori proposte. C’è chi ha ipotizzato d’incrementare l’importo dell’assegno unico, chi ha evidenziato l’esigenza di potenziare le strutture nido e il tempo pieno nelle scuole (priorità queste peraltro già inserite tra le finalità del PNRR) o chi ha proposto un ampliamento delle tempistiche dei congedi parentali retribuiti per i genitori.
Qualcuno – giustamente – ha puntato il dito sulle incertezze che frenano le nuove generazioni: da un diffuso precariato a salari mediamente bassi, da un costo della vita sproporzionatamente alto alle difficoltà di un mondo del lavoro che cambia con schizofrenica velocità. Vi è poi chi si è scagliato contro una mentalità eccessivamente protettiva dei genitori italiani e di ragazzi “bamboccioni” che, in una sindrome definibile da “Peter Pan”, si ostinano a far finta di essere eternamente giovani e non intendono assumersi responsabilità.
Tutto corretto, ci mancherebbe. Eppure, a ben osservare, il nocciolo della questione appare più ampio, anche se non è così facile da ammettere perché pone in discussione ciò che siamo e i valori sui quali abbiamo fondato le nostre società a partire dagli anni Sessanta del Novecento.
La verità è che, pur con alcune peculiarità nazionali, il crollo demografico accomuna le nazioni a economia capitalista avanzata. Proviamo a coglierne il perché. Sintetizzando rispetto a un problema di così ampia portata, si possono individuare due ordini di motivazioni: l’uno di tipo produttivo, l’altro comportamentale-culturale.
Iniziando dal primo, è chiaro che, mentre le società agricolo-manuali non necessitavano di lavoratrici particolarmente istruite, quelle moderne richiedono personale specializzato, il che comporta un lungo periodo di studi che, il più delle volte, porta le donne a inserirsi nel mondo del lavoro sulla soglia dei trent’anni, inevitabilmente procrastinando la nascita del primo figlio e, di conseguenza, diminuendone il numero.
Inoltre, mentre le donne che lavoravano in campagna, o comunque prevalentemente in casa, erano nella possibilità di accudire la loro prole, oggi, senza il prezioso ausilio dei nonni o la disponibilità di un buon tenore economico che permetta di assumere una baby-sitter o di sostenere i costi di un asilo nido (molte delle volte privato), per una donna rendere compatibili lavoro e famiglia appare impresa alquanto ardua. Pure in questo caso, a farne le spese è la maternità.
A ciò, talvolta, si aggiungono le pressioni esercitate da taluni datori di lavoro o, per le libere professioni, il timore di perdere la clientela durante i mesi di astensione obbligatoria dovuti alla gravidanza.
Il secondo aspetto – come si è accennato – è culturale. A riflettere sui valori che imperniano la nostra civiltà, a vederne i film e le pubblicità, a osservarne i costumi e i simboli, l’icona mediatica che va per la maggiore è quella di una donna in carriera, emancipata (anche da un punto di vista sessuale), consumistica, quasi sempre single. Di mamme che accudiscono amorevolmente 3 o 4 figli nelle serie televisive se ne vedono ben poche. E questo immaginario gioca innegabilmente i suoi riflessi sui comportamenti collettivi.
Viceversa, dove la mentalità e il sistema di produzione è ancora sostanzialmente quello pre-capitalistico, o comunque dove l’edonismo individualistico non ha ancora impregnato nel profondo la mentalità di un popolo – come, ad esempio, in tanti paesi africani – la famiglia e la procreazione rimangono un fattore centrale e propulsivo.
Molte sono le conclusioni che si potrebbero trarre, visto che il tasso di natalità ha rilevanti ripercussioni economiche, sociale e culturali. Ma proprio perché ampio, questo capitolo merita un altro approfondimento.
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