Di Aldo A. Mola
Per ultima viene la storia militare?
Il Premio speciale Antonio Semeria del Casinò di Sanremo 2024 per la saggistica storica è conferito al Generale di Corpo d’Armata Oreste Bovio. La decisione della Giuria merita il plauso per molti motivi. In primo luogo richiama l’attenzione sulla storia delle Forze Armate mentre ferve il dibattito sul loro ruolo presente e futuro sia in e per l’Italia, sia nell’ambito delle alleanze difensive, a cominciare dalla NATO, che ne hanno assicurato e ne garantiscono la sicurezza, e sia, infine, nella prospettiva per anni vigorosamente indicata, fra altri, dal sempre rimpianto generale Claudio Graziano (“sacerdote di Marte”, lo direbbe il gen. Bovio), già comandante della Brigata multinazionale a Kabul, Force Commander e capo della Missione Unifil in Libano, Capo di Stato maggiore dell’Esercito e della Difesa e presidente del Comitato militare dell’Unione Europea. Del futuro delle Forze Armate il generale Graziano scrisse con Marco Valerio Lo Prete in “Missione. Dalla Guerra fredda alla Difesa europea” (ed. Luiss). Vi additò il percorso già immaginato da Altiero Spinelli, tra i grandi profeti di un’Europa «che sia in grado di parlare con una voce singola, autorevole, credibile». Parole sagge. Mai come oggi se ne avverte l’urgenza, mentre guerre da tempo aperte in molti continenti rimangono senza soluzioni e la competizione di “cartelli partitici” rischiano di impantanare per tenzoni irrilevanti le poche certezze faticosamente promesse dalla recente elezione diretta del Parlamento europeo, che sembrava dovesse esprimere la sovranità dei cittadini, spesso invece raggirati.
Del pari si avverte la necessità di collocare la riflessione sull’Italia odierna e ventura nell’ambito del lungo processo che tra fine Settecento e metà Ottocento condusse dall’annuncio del Risorgimento alla costruzione del Regno d’Italia proclamato dal Parlamento il 14 marzo 1861: nelle uniche dimensioni territoriali possibili, dopo due guerre contro la preponderanza dell’Impero d’Austria sull’Italia. Il suo centenario, celebrato con iniziative culturali di vasto respiro e di ampio successo, quali la Mostra a Palazzo Carignano in Torino, visitata da scolaresche giuntevi da tutta Italia, ebbe suggello nella “Storia militare del Risorgimento” di Piero Pieri, ristampata nel 2010 con beneaugurante premessa del sottosegretario alla Difesa, Giuseppe Cossiga, in vista dell’imminente 150° dell’unità nazionale.
Studioso insigne, Pieri ricostruì passo passo la via verso l’unità d’Italia: gli ideali patriottici che avevano animato società segrete, incluse logge massoniche, cospirazioni, moti, insurrezioni, imprese impavide ma destinate alla sconfitta (dai fratelli Bandiera a Pisacane) avevano infine preso nel regno di Sardegna, forte degli strumenti precipui dello Stato: la diplomazia e la spada. Le trame diplomatiche intessute da Camillo Cavour e dai suoi stretti collaboratori erano state perlustrate da storici autorevoli molti decenni prima dell’opera di Piero Pieri. Meno indagata era rimasta, invece, la macchina militare che aveva consentito al “Piemonte” di Vittorio Emanuele II di uscire dai confini geografici dell’Italia e di proporsi quale compartecipe dei nuovi assetti dettati dal Quarantotto, dalla seconda impetuosa industrializzazione (ferrovie e trafori, telegrafia e navigazione a vapore e, aggiungiamo, riviste e quotidiani a prezzi popolari) e dalle prospettive spalancate dall’apertura del Canale di Suez: impresa ciclopica che condizionò non solo i commerci ma anche l’espansione coloniale, divenuta spasmodica e affollata da Stati (fu il caso dell’Italia) che, rinunciato alla via dell’Atlantico, senza Suez non avrebbe mai potuto imboccare imboccato quella del Mar Rosso, verso l’agognato Oceano Indiano.
Il sessantottismo, l’eclissi dello Stato e la salvifica riscoperta di Giuseppe Garibaldi
Il lungo “Sessantotto”, durato dal primo governo presieduto da Mariano Rumor al quinto ministero di Giulio Andreotti, fu segnato da agitazioni, proteste, scontri di piazza ed efferati delitti politici che disorientarono l’opinione pubblica avvilita dall’inflazione e dalle ripercussioni della crisi dell’istruzione, in ogni ordine e grado, con ripercussioni sulle Università, sull’orientamento degli studi e, scendendo per li rami, nel dibattito quotidiano. Taluni “intellettuali”, titolari di laute prebende pubbliche, si proclamarono “né con le BR, né con lo Stato”. Mentre fioriva una manualistica di orientamento antimilitaristico, veniva rivendicato l’avvento del “Proletariato senza rivoluzione” e si prometteva di rispondere al “potere” (o, come si diceva, al “sistema”) “mai più senza fucile”, come scrisse minacciosamente un ex comandante partigiano del Cuneese. Il Risorgimento e l’età postunitaria, inclusa quella giolittiana, divennero bersaglio di critiche pregiudiziali e faziose. La svolta venne nel quinquennio corso dal primo governo presieduto da Francesco Cossiga all’avvento di Bettino Craxi: quegli esecutivi contarono a lungo sui democristiani Emilio Colombo agli Esteri e Virginio Rognoni all’Interno e sul socialista Lelio Lagorio alla Difesa.
Punto di convergenza per la ripresa della memoria storica fu, nel 1982, il ritorno a una figura centrale del Risorgimento: Giuseppe Garibaldi. Nel centenario della morte, l’Eroe dei due mondi venne proposto quale perno dell’unità nazionale. Era il Generale della libertà. Popolano, ispirato dai socialisti utopisti francesi ancor prima che da Giuseppe Mazzini (ne scrisse Romano Ugolini, curatore de suo Epistolario, finalmente avviato alla conclusione), cospiratore, forzatamente esule, generale dell’Armata sarda di Vittorio Emanuele II nel 1859, pacifista ma all’occorrenza corsaro, guerriero, condottiero, deputato alla Camera dal 1848 alla morte, sognatore e pragmatico, Garibaldi era la figura capace di rilanciare l’idea di un’Italia aperta all’Europa e ai popoli d’ogni continente. Egli era stato anche massone, anzi il “primo massone d’Italia”: ciò bastava per mettere tra parentesi le polemiche all’epoca imperversanti su una loggia assai discussa e a far riscoprire l’Italia “laica”, con venature anticlericali ma al tempo stesso imbevuta di “cristianesimo delle origini”. In quel 1982 il ministro Lagorio, che scrisse la prefazione al volume “Garibaldi vivo” (ed. Mazzotta), ebbe nel colonnello Oreste Bovio, capo dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, il collaboratore più fattivo. Su suo impulso fu organizzato il sontuoso convegno internazionale aperto a Villa Barberini, in Roma, e concluso a Caprera, ove, sotto il sole cocente, parlò il presidente del Consiglio, Giovanni Spadolini, in nobile gara con Craxi nella raccolta di cimeli garibaldini.
Sull’onda di quel successo, il colonnello Bovio varò il comitato “Forze Armate e Guerra di Liberazione” che nel 1983-1985 celebrò i convegni internazionali di Milano (sull’Otto settembre e sulla Cobelligeranza italiana nella lotta di Liberazione dell’Europa), Firenze (“L’immagine delle Forze Armate nella scuola italiana” che, nel 1984, ebbe per insegna “Forza Italia”) e Torino L Forze Armate dalla Liberazione all’adesione dell’Italia alla Nato). Merito del colonnello Bovio, imitato dal suo successore, Pier Luigi Bertinaria, fu di stringere a coorte storici in divisa e senza divisa, accomunati nella ricerca e impegnati a confrontarsi documenti alla mano. Tra i molti spiccò il giurista Paolo Ungari.
Bovio, innovatore della storiografia militare
Nato a Vercelli nel 1932, Bovio frequentò a Napoli la Scuola Militare “Nunziatella”, l’Accademia di Modena, la Scuola di Applicazione di Torino, la Scuola di Guerra e prestò servizio negli uffici dello Stato Maggiore dell’Esercito (Ordinamento e Regolamenti). Autore di saggi in riviste specializzate e relatore in convegni in Italia e all’estero, agli impegni di istituto sin da giovane Bovio ha accompagnato studi su campi prima quasi inesplorati, proponendone i frutti in volumi corredati da ricco apparato iconografico e accolti con largo favore, quali “Le Bandiere dell’Esercito” (1982) e “L’araldica militare” (1984).
Il Premio Antonio Semeria conferitogli dal Casinò di Sanremo va dunque alle sue opere personali ma anche alla sua straordinaria capacità di organizzatore degli studi. Su suo impulso, infatti, l’Ufficio Storico dello SME moltiplicò le collane e curò volumi di prestigio, studiati all’estero forse più che in Italia. Nel 1987 pubblicò il saggio “L’Ufficio Storico dell’Esercito”. La presentazione del libro corresse l’affermazione di Piero Pieri, secondo il quale la storiografia militare era stata a lungo languente, sicché sarebbe spettato alle nuove generazioni non lasciar appassire i primi cenni di rifioritura. In realtà, come documenta Bovio attraverso i profili di quanti dall’Ottocento si susseguirono alla guida dell’Ufficio Storico, i militari avevano prodotto una mole ingente di opere, che però erano rimasti ai margini della storiografia cosiddetta accademica. Occorreva pertanto avvicinare i “profani” alle opere pubblicate dai militari e al tempo stesso infondere in questi ultimi la percezione della storia militare come contributo alla “formazione morale dei futuri comandanti”. Bisognava chiamare a raccolta “chierici e laici”, ovvero tutti i cultori di storia militare, sia ufficiali sia “professori”, anche senza cattedre ma attivi nella ricerca.
Lasciata Roma per incarichi sulla frontiera orientale, da comandante di battaglione a comandante di brigata, Bovio andò infine in congedo col grado di generale in ausiliaria. Cessato dal servizio ma non dagli studi, egli ha continuato a indossare le stellette peregrinando tra biblioteche, archivi, convegni e sale affollate dai suoi discepoli.
In “Sacerdoti di Marte” nel 1993 Bovio raccolse i profili di grandi condottieri (Raimondo Montecuccoli, il Principe Eugenio di Savoia e Giuseppe Garibaldi), ottimi professionisti (generali insigni, molti dei quali ministri della Guerra: Manfredo Fanti, lo sfortunato Giuseppe Govone, Enrico Cosenz), e presidenti del Consiglio (come Luigi Pelloux: lo erano già stati i generali Alfonso La Marmora e Luigi Menabrea, ingegnere di vasta preparazione) e “validi ausiliari”. Tra questi ultimi ricordò Edmondo De Amicis (dei cui scritti militari curò una edizione), il pittore Quinto Cenni, il cappellano militare Reginaldo Giuliani, lo storico Alberto Maria Ghisalberti e lo scrittore-memorialista Paolo Caccia Dominioni.
Lo stesso anno di “Due secoli di Tricolore” (uscito nel bicentenario del tricolore di Reggio Emilia), Bovio pubblicò il suo Opus Magnum: la “Storia dell’Esercito Italiano, 1861-1990”, successivamente aggiornata sino al 2000. Opera di riferimento per qualsiasi studio sulla vita politica, economica, sociale e culturale dell’Italia dopo l’unità, la sua Storia ha il pregio di fondere le vicende dello “strumento militare” con quelle della società in ogni suo aspetto. Sin dai Congressi degli Scienziati Italiani degli Anni Quaranta dell’Ottocento e poi negli studi statistici, negli “Annuari” e nelle Opere giubilari di maggior respiro era balzata evidente la connessione tra le scienze “esatte” (matematica, fisica, chimica…) e quelle “morali”. D’altronde, va rimarcato, i militari di spicco erano anche architetti, ingegneri, scienziati temprati in lunghe missioni all’estero: personalità del tutto diverse dal “ritratto” che degli uomini in divisa dava certa narrazione polemica, travasata nei film alla cui proiezione in ore di lezione venivano condotte scolaresche disposte sempre a tutto pur di non stare nelle aule.
In un libro di più ridotte dimensioni (“In alto la bandiera. Storia del Regio Esercito”, Foggia, Bastogi, 1999), pubblicato con la presentazione del generale Bonifazio Incisa di Camerana, suo sodale in un cenacolo di cultori delle discipline storiche, un quarto di secolo addietro Bovio avviò alla lettura con parole di singolare attualità: «Con la fine della guerra fredda, determinata dal collasso dell’impero sovietico, lo scenario internazionale è profondamente mutato. All’“ordine di Yalta” è subentrato il disordine delle nazioni. Il rischio di distruzione totale aveva posto l’Occidente al riparo della violenza delle armi, ora il mondo intero è sotto l’incubo di molte piccole guerre, provocate dall’instabilità politico-strategica di molti Stati a causa del contemporaneo sorgere di rivendicazioni identitarie, localistiche e secessionistiche. L’Occidente non ha ancora elaborato un metodo sicuro per affrontare la nuova conflittualità; i meccanismi di sicurezza e di difesa collettiva, faticosamente creati durante il lungo periodo della guerra fredda, si sono dimostrati incapaci di contrastare situazioni mutevoli e complesse.» Oggi il quadro lumeggiato da Bovio nel 1999 non è affatto mutato: anzi, è peggiorato. La mancanza di certezze diviene angoscia e spinge a rifugiarsi in un vacuo “presente”, vissuto giorno per giorno, attimo per attimo. Un precipizio dal quale ci si può tener lontani solo con la leopardiana contemplazione della storia.
La moralità della meditazione storiografica
Nel tempo il generale Bovio, riconosciuto decano degli storici militari, ha continuato a produrre saggi, libri e volumi, anche su istituzioni che gli sono care per memoria di famiglia. È il caso dei saggi raccolti in “Dal Piemonte all’Italia. Tre secoli di storia militare” (BastogiLibri, 2016), del volume “Quando il Piave mormorava”, di “Soldati e politici dal Risorgimento alla Repubblica” e, infine, di “Pagine di storia” (ed. Roberto Chiaramonte, 2023). In quest’ultimo volume l’Autore ripropone passi esemplari su “La milizia paesana nel Ducato di Savoia e nel Regno di Sardegna” e nella nota bibliografica finale addita a modello i cinque volumi di Virgilio Ilari sulla storia del servizio militare in Italia (ed. Centro militare di studi strategici), i quattro tomi di Mario Montanari su “Politica e strategia in cento anni di guerre italiane” (US-SME) e i tre volumi di “Storia della dottrina e degli ordinamenti dell’Esercito Italiano” di Filippo Stefani: opere corpose ed esemplari, come le sue.
Il titolo dell’ultima raccolta del generale Bovio, “Pagine di storia”, senza l’aggettivo “militare”, invece presente direttamente o indirettamente nelle sue opere precedenti, ha una motivazione profonda. Vi sono “fatti” propriamente militari, figure di comandanti e battaglie che hanno impresso svolte storiche profonde. Non sono solo “fatti d’arme”, ma “politici” e di civiltà. Per essere compresi in tutta la loro portata chiedono pertanto conoscenze che vanno al di là della cognizione tecnica specifica degli studi militari e richiedono la percezione di quello che Riccardo Bacchelli definì “il flusso della storia”: la visione di lungo periodo e la comprensione della vastità dei “problemi” che si addensano in ogni singolo momento della storia. L’“avvenimento” è un istante della “lunga durata”, di un processo dalle componenti molteplici e talora insondabili: somma di volontà e fatalità. È quanto rende affascinante e appagante lo studio della storia. Mentre com-patisce, esso conforta in vista del distacco. Concilia solitudine e partecipazione al cammino lungo i secoli e infonde il senso della disciplina, della responsabilità, del fare la parte che si sente propria nel tempo che ci è dato. Questa è la lezione impartita dal generale Oreste Bovio attraverso le decine di opere che vagheggiò sin dagli anni trascorsi nel Rosso Maniero della Nunziatella e continua a proporci con infaticabile lena.
Aldo A. Mola
Le Bandiere dell’Esercito di Oreste Bovio.
La consegna del Premio Antonio Semeria al Generale Bovio ha luogo al Casinò di Sanremo alle ore 16 di sabato 23 novembre 2024: una cerimonia orchestrata dalla dottoressa Marzia Taruffi (Ufficio Cultura del Casinò) e dal conduttore e scrittore Mauro Mazza. Una giuria di “lettori” presenti nel Teatro del Casinò sarà chiamata a scegliere il vincitore fra le tre opere finaliste selezionate dalla giuria della sezione scientifica: “Mussolini e l’Oriente” di Enrica Garzilli, “La marcia turca. Istanbul crocevia del mondo” di Marco Ansaldo e “Putistan. Come la Russia è diventata uno stato canaglia” di Giorgio Fornoni: autori che sintetizzeranno in pubblico le loro opere.
L’ambìto “Premio Semeria alla carriera 2024” viene conferito al magistrato Gian Carlo Caselli.
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