Assonanze e divergenze.
È un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza.
Il conformista s’allena a scivolare dentro il mare della maggioranza.
Giorgio Gaber, Il conformista
Negli Stati Uniti, quando un uomo o un partito soffre un’ingiustizia, a chi volete che si appelli?
All’opinione pubblica? È essa che forma la maggioranza.
Al corpo legislativo? Rappresenta la maggioranza e le obbedisce ciecamente. Al potere esecutivo? Esso è nominato dalla maggioranza e le serve da strumento passivo. Alla forza pubblica? La forza pubblica non è altro che la maggioranza sotto le armi. Alla giuria? La giuria è la maggioranza investita del diritto di decretare gli arresti.
- Tocqueville, La democrazia in America
Prendo spunto da alcuni articoli del Prof. Elio Ambrogio, erudito redattore di Civico20News, che in numerose occasioni, sulla testata che qui ci ospita, si è scagliato contro il “conformismo intellettuale” che, soprattutto negli ultimi decenni, permea un dibattito che, anziché essere effettivo e sincero confronto fra tesi differenti, vede contrapposta una versione, spacciata alla stregua di dogma da considerarsi giusto e da accettarsi sostanzialmente a priori, a una contro-versione, viceversa etichettata come sbagliata, negazionista, complottista, o tutte queste accuse mosse insieme.
Per il vero, la tendenza a un pensiero unico non è una caratterista della sola attuale contemporaneità, basti pensare all’Indice dei libri proibiti (elenco di pubblicazioni vietate dalla Chiesa cattolica, creato nel 1559 da papa Paolo IV, aggiornato fino alla metà del XX° secolo, quindi soppresso unicamente nel 1966) che aveva l’evidente intento di evitare la circolazione di “versioni differenti” rispetto a quelle che si voleva fossero.
Di norma, da un punto di vista politologico, l’uniformità di pensiero rappresenta uno dei cardini delle dittature, le quali, attraverso la censura e la propaganda, mirano a formare un appiattimento culturale e comportamentale nelle masse curvato sui “desiderata” del regime.
Tuttavia, come acutamente coglie il Prof. Ambrogio, pure le democrazie liberali – basate proprio sulla libertà di pensiero e di espressione e parola – non vanno talvolta esenti da forme di “conformismo culturale”.
Perché ciò avviene?
In primo luogo, le moderne società democratiche appaiono profondamente individualiste per mentalità e poiché fondate sui diritti individuali dell’uomo. Allo stesso tempo, esse risultano tendenzialmente massificate nei comportamenti (e dunque nei pensieri) collettivi.
Limitando lo sguardo all’Italia (ma, nelle sue direttrici di massima, il ragionamento vale anche per il resto dell’occidente), l’introduzione durante l’Ottocento della leva e dell’istruzione obbligatorie ha uniformato da un punto di vista linguistico il paese.
Parallelamente, l’avvento della radio e della televisione – e, con queste, della pubblicità – ha implementato l’omologazione di costumi e modi di ragionare.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, poi, l’industria – con i suoi analoghi prodotti – ha soppiantato l’artigianato. I cibi e il modo di vestire, prima di allora differenti nelle diverse parti d’Italia, si sono via via sempre più uniformati. Il grande supermercato ha preso il posto del negozietto locale, diventando così l’emblema di una società largamente standardizzata.
Inoltre, soprattutto a partire dagli anni Settanta del Novecento e con una forte implementazione a seguito dell’avvento di Internet, si è imposta la globalizzazione, dove gli U.S.A., attraverso Hollywood, hanno fatto la parte da gigante. Ne è seguito (come mai avanti) che miliardi di persone abbiano visto identici film, ascoltato la medesima musica, letto gli stessi libri, vestito con jeans sostanzialmente uguali.
A ciò si deve aggiungere un secondo fattore. Non contestato che nelle moderne democrazie l’informazione non sia soggetta a censure, appare parimenti vero che spesso i principali organi d’informazioni si muovano su direttrici informative e valoriali simili.
A cogliere con efficacia la dinamica è Marcello Foa, nel suo volume “Gli stregoni della notizia. Atto secondo” (Guerrini e Associati, 2018), che evidenzia come le istituzioni politiche, attraverso una serie di stratagemmi comunicativi (tra cui il ricorso ai c.d. “spin doctor”) riescano a plasmare il flusso delle informazioni e a indirizzare la stampa nella direzione da essi voluta (in tal senso emblematica è stata la guerra in Iraq, dove ci venne fatto credere che Saddam Hussein detenesse armi di distruzione di massa, accusa successivamente dimostratasi inveritiera).
Vieppiù, si tenga conto che i grandi mezzi di comunicazione, oltre ad appartenere quasi sempre a grandi gruppi imprenditoriali (che ramificano i loro interessi in differenti settori dell’economia), vivono di pubblicità; quest’ultima, a sua volta, primariamente sovvenzionata dai principali centri economici e finanziari, interni o internazionali che siano.
Da ultimo, a queste considerazioni è opportuno affiancare la riflessione sviluppata da Alexis de Tocqueville (1805–1859) in quel capolavoro che è “La democrazia in America” (primo volume: 1835, secondo volume: 1840). A detta di Tocqueville, la democrazia (nella sua analisi rappresentata da quella ottocentesca americana degli stati del Nord e non da quelli schiavisti del Sud) – che naturalmente si fonda sul “principio della maggioranza” – avrebbe rischiato di scarsamente tutela i diritti delle minoranze dissenzienti.
Da acuto sociologo, per Tocqueville, la “dittatura della maggioranza” non rappresentava solo una questione di numeri parlamentari e, conseguentemente, la possibilità di curvare la legislazione in ossequio ai voleri della maggioranza di governo. Risultava qualcosa di più pervasivo e, per certi versi ingombrante, in quanto Tocqueville intravvedeva il timore di una moltitudine frammentata di uomini, però massificata da un punto di vista comportamentale e di opinioni.
Alla luce di queste considerazioni, immaginare una dicotomia diametralmente opposta, dove nelle dittature risulta negata ogni libertà di pensiero, all’opposto costantemente garantita nelle liberaldemocrazie, appare una conclusione errata.
Vero è che le democrazie garantiscono maggiori spazi di libertà e di espressione del dissenso rispetto alle dittature (altrimenti non ci troveremo di fronte a democrazie, ma a “democrature”), come non sussistono dubbi che le democrazie siano impareggiabilmente da preferirsi a regimi autocratici o dittatoriali.
Tuttavia, pensare che i moderni sistemi democratici siano una specie di eden non influenzato dagli interessi di importanti centri di potere (che hanno la convenienza a guidare l’opinione pubblica nella direzione che essi desiderano attraverso i principali organi d’informazione) è deduzione che sa perlomeno d’ingenuo.
Ben venga dunque chi, come il Prof. Ambrogio, pone dubbi e ci richiama a una costante riflessione critica in merito alle tante “verità” che periodicamente ci vengono propinate. Perché, se lo spirito democratico può e deve continuare a esistere, è grazie anche al contributo di intellettuali che ubbidiscono alla loro sola ragione.
© 2023 CIVICO20NEWS – riproduzione riservata