L’appena insediata giunta “Cirio bis”, qualche giorno fa, ha espresso la volontà di domandare al governo la possibilità di gestire 9 delle 23 materie oggetto della legge sull’autonomia differenziata. Al momento si tratta degli ambiti che non prevedono l’approvazione di quelli che dovranno essere i livelli essenziali delle prestazioni e dei servizi, ma (dalle premesse) l’indirizzo politico – al pari di quanto stanno facendo Veneto e Lombardia – appare quello d’implementare il più possibile i margini d’autonomia goduti dalla nostra regione.
Naturalmente la legge sull’autonomia differenziata – detta anche “legge Calderoli” –, benché espressamente prevista dalla riforma del titolo V° della Costituzione attuata nel 2001 per volontà dell’allora centro-sinistra, ha dato (e darà) vita a una serie contrapposta di apprezzamenti e polemiche e si perfezionerà con un referendum che si terrà la prossima primavera.
Avanti l’entrare nel merito di cosa preveda la “riforma Calderoli” (che approfondiremo in altra occasione) sembra utile offrire al lettore una sintetica ricostruzione dell’idea politica del federalismo che sta alla base della volontà di delegare ai territori funzioni che prima risultavano di delega governativa.
Iniziando dal termine, la radice semantica della parola federalismo è rinvenibile nel vocabolo latino fedus che significa alleanza, patto, convenzione, trattato. Non a caso, storicamente, esistono due forme di federalismo: l’una che vede federarsi distinte singolarità politiche in qualcosa di più ampio (pensiamo alla nascita degli Stati Uniti d’America e, pur con diverso percorso e non ancora raggiunta unità statale, l’Unione europea), l’altra individuabile in modifiche istituzionali che assegnano maggiori competenze agli enti locali.
Questa premessa fa comprendere che il federalismo non sia un’idea etichettabile a destra o a sinistra. Infatti, sono rinvenibili fautori del federalismo di area liberale (come Carlo Cattaneo), cattolici (ad esempio Vincenzo Gioberti) e di sinistra (si pensi a Leon Trotsky che auspicava la nascita degli Stati Uniti d’Europa),
Il federalismo non è poi individuabile con un preciso contesto storico e passa nel Seicento attraverso le tesi di Johannes Althusius (1563-1638), nel Settecento di Immanuel Kant (1724-1804) e dei tre grandi padri del federalismo statunitense Alexander Hamilton (1755-1804), James Madison (1751-1836) e John Jay (1745-1829), nell’Ottocento di Carlo Pisacane (1818-1857), nel Novecento mediante le proposte europeiste, tra cui spicca quella avanzata da Altiero Spinelli (1907-1986) ed Ernesto Rossi (1897-1967) nel Manifesto di Ventotene.
Da un punto di vista politico, in Italia la prospettiva autonomista è stata perorata da movimenti locali molto radicati quali la Südtiroler Volkspartei in Alto Adige e l’Union Valdôtaine in Valle d’Aosta o in Sardegna (con risultati elettorali però più modesti) dal Partito Sardo d’Azione.
Anche il nord Italia ha avuto esperienze politiche propense all’autonomismo e al federalismo quali l’Union Piemontèisa di Roberto Gremmo, piuttosto che la Liga Veneta di Franco Rocchetta che, durante le elezioni politiche del 1983, elesse un deputato e un senatore, dimostrando un consenso che poi servì da ispirazione a Umberto Bossi per fondare la Lega Lombarda nel 1984, quindi la Lega Nord nel 1991 che federò una molteplicità di esperienze, tra cui Piemont Autonomista di Gipo Farassino.
Da ricordare è poi che, pur non trattandosi di un partito spiccatamente federalista, negli anni Sessanta, anche il Partito comunista italiano spinse per l’attuazione delle regioni (previste dalla Costituzione, ma realizzate tardivamente a inizi anni Settanta) e, talvolta, simpatizzò per gruppi localisti, quali gli occitani.
Molteplici sono poi le tipologie di federalismo: vi è il federalismo comunale, quello regionale, un federalismo fiscale (caldeggiato in Italia da Giulio Tremonti), un federalismo-autonomismo impregnato di radici e ideologie etnico-linguistiche, nonché uno su base internazionale che mira a depotenziare la conflittualità fra entità statali sulle orme di quanto teorizzò Charles Irénée Castel de Saint-Pierre (1658-1743) e Kant nel suo celebre Per la pace perpetua.
In sintesi, il federalismo si fonda sulla convinzione che gli enti locali, conoscendo in maniera più approfondita le esigenze dei singoli territori e per via di un più stretto legame fra governanti e governanti, sia idoneo a rendere più efficace ed efficiente la macchina burocratica pubblica e ne diminuisca gli sprechi. Inoltre, un potere capillarmente distribuito dovrebbe meglio assicurare le libertà individuali, oltreché prevenire derive dittatoriali, viceversa maggiormente inclini a concentrare grandi quantità di risorse decisionali nelle mani dei governi centrali.
Coloro invece che guardano con diffidenza al federalismo ne sottolineano il difetto di creare mille rivoli amministrativi (se non in taluni casi finanche capace di disgregare un contesto statale) e, laddove non bilanciato da adeguate politiche redistributive, atto a sottrarre risorse alle aree economicamente e socialmente più fragili a vantaggio di quelle maggiormente produttive.
Al netto delle differenti opinioni, rimane vero che il federalismo – al pari di qualsiasi altra forma d’organizzazione di una struttura pubblica – possa meglio funzionare in una condizione storica o nazionale e meno in altre, perché molteplici sono i fattori che su questo risultato possono incidere, in primis quello umano.
Se così è, nel caso dell’appena approvata “autonomia differenziata” e data per ottenuta la conferma popolare nel rispettivo referendum, spetterà alle regioni che vorranno ottenere nuove competenze dimostrare di saperle proficuamente gestire e alle altre – che per ora non si sentono pronte – di raccoglierne la sfida.
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