Il delitto di Pasqua del 1968 (Seconda e Ultima Parte)
Le informazioni giornalistiche sul delitto di Pasqua si prolungano per alcuni giorni. Il 16 aprile l’autopsia della vittima, Salvatore Poerio, riscontra una forte emorragia: il proiettile della 6,35, penetrato nel fianco destro, si è schiantato contro la colonna vertebrale.
Giuseppe Jovine, interrogato alle Nuove dal magistrato, persiste nella sua versione: ha visto l’atteggiamento minaccioso delle vittime, il luccicare di lame di coltelli, ha avuto paura perché avevano bevuto un po’ e, quando si litiga, in questi casi si fa sul serio. Avrebbe soltanto sparato due colpi per spaventarli, con la Beretta 6,35 che dice di aver trovato sulle rive del Sangone. Rosario Pascuzzi, interrogato alle Molinette, esclude che sia stato fatto ricorso ai coltelli.
Proseguono le ricerche del fratello dell’omicida, Salvatore Jovine, fuggito subito dopo la rissa, ma nell’immediato non viene catturato. Non si trova nemmeno un certo Carmelo che avrebbe partecipato allo scontro.
Il Bar Sant’Anna viene chiuso a tempo indeterminato dal Questore.
Il delitto contrappone due famiglie, quella della vittima e quella dell’omicida.
Emergono ulteriori particolari sulla vittima, Salvatore Poerio. A Pasqua, è andato a pranzo a casa del fratello Armando che abita a Mirafiori Sud. È uscito alle 17:00 dicendo che sarebbe tornato per cena, ha incontrato Francesco Pascuzzi e con lui è andato nel bar di via Mazzini. Salvatore ha quasi sempre lavorato all’estero. Da quattro anni, raggiungeva Torino in primavera e ritornava a casa per Natale. Era arrivato il 1° aprile e lavorava come manovale. In Calabria, la notizia della sua morte è giunta lunedì ai suoi genitori. La vedova, avvertita in ritardo, è partita per Torino, come pure due fratelli di Poerio che vivono a Cosenza e a Catanzaro.
Sono resi noti i precedenti di Giuseppe Jovine: a partire dal 1951, ha subito condanne a Crotone, Locri e Catanzaro per furto, mancata assistenza alla famiglia, rissa, minacce e ingiurie. Ha molestato la sua giovane figlia e il Tribunale l’ha affidata all’Opera Pia Barolo per toglierla dall’ambiente familiare poco adatto alla sua educazione.
Nel marzo del 1966, i giornali hanno parlato delle drammatiche condizioni della famiglia di Giuseppe Jovine. La moglie ha preso confidenza coi giornalisti e si reca alla redazione de La Stampa. Racconta le sue difficili condizioni economiche, con sette figli da mantenere, ma soprattutto difende il marito: sostiene che questi non ha mai avuto una pistola, che quando è rincasato nella domenica di Pasqua le ha dato una versione minimalista della rissa – alla quale lei sembra prestare fede – e di ignorare che il marito molestasse la figlia!
L’ultima notizia del 1968 è l’offerta di una lettrice a Specchio dei Tempi di Lire 1.500 per i figli di Giuseppe Jovine perché «domenica possano avere il pane e il latte» (21 aprile 1968).
Si torna a parlare del delitto di Pasqua nell’anno successivo, quando il 18 febbraio si apre il processo in Corte d’Assise. Giuseppe Jovine è accusato di omicidio e tentato omicidio. Sono accusati di rissa suo fratello Salvatore, evidentemente catturato senza che la notizia sia comparsa sui giornali; Francesco Pascuzzi, colpito alla testa col calcio della pistola; Rosario Pascuzzi, ferito al ventre, salvato da un difficile intervento chirurgico e una lunga degenza in ospedale e, infine, il diciannovenne Salvatore Cosco.
Il muro di silenzio che ha ostacolato l’inchiesta persiste anche in Assise: lo dice il Pubblico Ministero. Le versioni contrapposte, emerse dalle prime indagini, sono rimaste immutate anche dopo l’istruttoria. Giuseppe Jovine insiste che gli avversari avevano impugnato i coltelli, peraltro mai trovati e sempre negati dai Pascuzzi. I due fratelli e Cosco sostengono di essere stati costretti a uscire dal bar per regolare i conti e successivamente aggrediti dai fratelli Jovine, spalleggiati da quel certo Carmelo e da un altro calabrese, alto e robusto.
Un fratello della vittima, giunto dalla Calabria, riferisce che al paese si mormora che alcune persone abbiano assistito e fa addirittura i nomi di quattro personaggi, che emergono per la prima volta.
Il Presidente ritiene che vi siano vecchi motivi di rancore, ma tutti i testimoni lo smentiscono categoricamente e confermano la versione del juke-box a volume troppo alto.
Il 19 febbraio, i giudici, leggendo La Stampa, si sono accorti che il morto era sposato, mentre dagli atti risultava scapolo. I difensori dei fratelli Jovine chiedono l’annullamento, ma la Corte decide di applicare una sentenza della Corte Costituzionale: la mancata citazione della parte civile, prima della sentenza, non è motivo di nullità. Il dibattimento ricomincerà, dopo aver rintracciato la vedova di Poerio – rimasta con una bambina di tre anni – e nemmeno informata del processo, per chiederle se voglia costituirsi parte civile, per ottenere un risarcimento.
A questo punto resta in carcere il solo Giuseppe Jovine. Suo fratello Salvatore ottiene la libertà provvisoria, come i Pascuzzi e Cosco.
Il processo ricomincia l’8 luglio. La moglie della vittima si è costituita parte civile.
Il delitto di Pasqua appare sempre assurdo e incomprensibile. Non si saprà mai con precisione cosa sia accaduto dopo che i litiganti sono usciti dal bar. Le versioni contrapposte non convincono il Presidente, ma la verità non emerge. Il Pubblico Ministero ritiene che Giuseppe Jovine abbia sparato a freddo, non meriti attenuanti e chiede la sua condanna a 30 anni. Per gli altri accusati, chiede condanne da 8 mesi a 1 anno e il perdono giudiziale per Cosco. Giuseppe Jovine ascolta impassibile questa requisitoria, ma si commuove dopo che ha parlato il primo dei suoi due difensori. Questi avvalorano il ricorso ai coltelli e parlano di una reazione di difesa eccessiva, senza la volontà di commettere il reato.
Il secondo difensore ricostruisce il clima di omertà del delitto e in cui, praticamente, si è svolto tutto il processo. Poi sostiene che la presenza dei coltelli appare dimostrata dalla perizia medico-legale dove si dice che i fori di entrata dei proiettili erano diretti dall’alto verso il basso. Secondo il difensore, Poerio e Rosario Pascuzzi avanzavano curvi verso Jovine, nel tipico atteggiamento di chi impugna un’arma. La Corte rimane colpita da questo particolare: prima di ritirarsi per la sentenza, insiste per sapere dai Pascuzzi se avessero estratto un coltello. I due fratelli negano ancora una volta. Alle 14:00 del 9 luglio 1969, la sentenza condanna Giuseppe Jovine a 25 anni, concedendogli le attenuanti generiche; Salvatore Jovine a un anno e mezzo; Francesco Pascuzzi a 6 mesi; Rosario Pascuzzi a 5 mesi e Salvatore Cosco ottiene il perdono giudiziario.
L’ultima notizia sul delitto di Pasqua appare su La Stampa del 22 agosto 1969. Giuseppe Jovine ha ottenuto un breve permesso per salutare la madre morente, ricoverata all’Istituto di Riposo per la Vecchiaia di corso Unione Sovietica, che ha chiesto di poterlo rivedere. Ha potuto salutarla e le ha chiesto perdono.
Si conclude così la vicenda del delitto di Pasqua 1968, del quale, come si è detto, è stato individuato il colpevole, senza che la Giustizia potesse fare luce sulla sua genesi e sulle reali modalità della rissa e dell’uccisione. Di questo caso, avvenuto poco più di mezzo secolo fa, ho un ricordo personale: veniva inserito nelle conversazioni familiari e da bar nel grande capitolo dell’emigrazione dal Sud, con l’aggiunta di considerazioni antropologiche, sicuramente da discount, ma al tempo largamente condivise.
Fine della Seconda e Ultima Parte.