Il delitto di Pasqua del 1968 (Prima Parte)
Nell’anno 1968 la Pasqua ricorre domenica 14 aprile. Soltanto al martedì successivo La Stampa riferisce di un omicidio avvenuto nella serata del giorno pasquale. L’anno 1968, noto come Sessantotto, è passato alla storia come sinonimo di contestazione operata da svariati movimenti di massa (lavoratori, studenti, intellettuali e gruppi etnici minoritari) contro gli apparati del potere e le loro ideologie, contestazione che si estende anche alle consolidate tradizioni.
Per contro, questo delitto torinese di Pasqua del 1968 assume le caratteristiche più tradizionali: la classica rissa all’osteria, nel giorno di festa, scoppiata tra persone inizialmente se non amiche almeno non ostili fra loro. È la situazione già più volte riscontrata nelle cronache degli ultimi decenni dell’Ottocento e nel primo del Novecento.
La sera di quella domenica di Pasqua siamo nel Bar Sant’Anna di via Mazzini 46, all’angolo con via Fratelli Calandra, dove un gruppo di muratori calabresi sta tentando di concludere in allegria la giornata festiva.
Sono Salvatore Poerio, di 34 anni, nativo di Policastro (Catanzaro) dove abita sua moglie con un bimbo di due anni. Già minatore in Belgio, dal 1° aprile Salvatore è venuto a Torino, dove da tempo un suo fratello lavora come postino. Si è occupato come manovale e abita in una soffitta di via Dei Mille con due compaesani: Rosario Pascuzzi, di 31 anni, padre di una bambina di 4 anni, e Salvatore Cosco, di 17 anni. Dispongono di un solo letto e pagano 7 mila Lire al mese d’affitto.
La sera di Pasqua i tre sono andati nel bar di via Mazzini, assieme al muratore Francesco Pascuzzi, di 28 anni, fratello di Rosario, anche lui abitante in via Dei Mille. Si sono seduti ad un tavolo e hanno ordinato da bere: lontani dalle famiglie, isolati, è comprensibile che cerchino di divertirsi fra conterranei in un locale.
Meno giustificabile la presenza nel bar dei fratelli Salvatore e Giuseppe Jovine, di Serra San Bruno (Catanzaro). Sono entrambi pregiudicati: Salvatore, di 44 anni, abitante in via Artisti 12, per furto, violenza carnale e calunnie. Giuseppe, di 37 anni, con vari precedenti, è minorato alla mano destra e ha sempre in tasca una pistola che maneggia con la sinistra. Abita in via Fratelli Garrone 61, in un alloggio comunale con la moglie e i nove figli, e, malgrado la numerosa famiglia in tristi condizioni economiche, trascorre la festa fuori casa.
Verso le ore 20:00, Poerio, i due Pascuzzi e Salvatore Cosco avviano il juke-box con la canzone «La tramontana» a pieno volume e si mettono a ballare la tarantella.
Questo brano musicale si è classificato al quinto posto del Festival di Sanremo di quell’anno, e riscuote grande successo nell’interpretazione del cantautore francese Antoine. I fratelli Jovine protestano per il volume troppo elevato, ma gli altri non danno ascolto. Poi Poerio e Rosario Pascuzzi, che ballano a braccetto, urtano Salvatore Jovine e nasce un alterco. Il proprietario del locale tenta di ristabilire la pace, ma Salvatore Jovine invita gli avversari ad uscire «per discutere» meglio. Escono tutti.
Cosa avvenga in strada, in mancanza di testimoni, non si saprà mai esattamente. Allo scontro prendono parte anche altri individui, che non verranno mai identificati e interrogati.
Volano pugni e calci, Giuseppe Jovine estrae di tasca la pistola e con il calcio stordisce Francesco Pascuzzi. Poi fa fuoco due volte: un colpo raggiunge Poerio che si accascia colpito al ventre; un secondo proiettile ferisce Rosario Pascuzzi, anche lui all’addome. C’è un fuggi fuggi e anche Rosario riesce a rialzarsi e a dirigersi verso casa, comprimendosi il ventre con una mano. Restano sull’asfalto Poerio e, accanto a lui, Francesco Pascuzzi, intontito dalla botta ricevuta in testa.
Un ubriaco, resosi conto della gravità del fatto, entra nel bar, si fa fare il numero della Polizia e racconta al telefono, alla meglio, che della gente ha litigato e qualcuno ha sparato.
Pochi minuti dopo giunge una prima autoradio della Polizia e gli agenti trasportano Poerio e Francesco Pascuzzi al San Giovanni, dove i medici constatano che Poerio è gravissimo. Dopo le prime sommarie cure, lo fanno proseguire con un’ambulanza per le Molinette, ma muore durante il tragitto. Francesco Pascuzzi, medicato e giudicato guaribile in una settimana, è arrestato e rinchiuso alle Carceri Nuove. Anche Salvatore Cosco finisce in carcere.
Arrivano funzionari e poliziotti, mentre un’autoradio corre al cinema Ideal a prelevare il dottor Giuseppe Montesano, capo della Mobile.
Intanto Rosario Pascuzzi ha faticosamente raggiunto la sua soffitta in via dei Mille. I suoi lamenti vengono uditi da un coinquilino che ha appena visto la Polizia davanti al Bar Sant’Anna. Questi corre dagli agenti e li avverte. Un’auto della Polizia preleva il ferito e lo porta al San Giovanni. È in stato comatoso e il medico lo fa proseguire per le Molinette. L’auto della Polizia attraversa la città con il claxon spiegato. Dopo un lungo intervento per suturargli l’intestino, Rosario Pascuzzi è ricoverato con prognosi riservata e piantonato in ospedale. Salvatore Jovine, il fratello dell’omicida è irreperibile. Come i due fratelli Pascuzzi e Salvatore Cosco, è accusato di rissa aggravata.
La Polizia inizia le indagini, va a prelevare il barista, il quale sostiene di non essersi accorto del trambusto, ha abbassato le serrande e se ne è andato a casa sua in auto.
Prima di mezzanotte si sa già chi ha sparato. Un agente va in via Garrone e trova Giuseppe Jovine che prepara una valigetta per fuggire. «Cosa volete? – chiede l’uomo. – Non sarà per quella lite di stasera; c’è tempo domani». La rivoltella nell’alloggio non si trova.
Il sospettato non oppone resistenza. Condotto in Questura e interrogato dal dott. Montesano, cerca di dire che lui non sa niente; ma alla fine crolla e confessa: «Tutti avevamo bevuto troppo e ci siamo lasciati prendere dalla rabbia, io avevo la rivoltella in tasca e l’ho tirata fuori quando gli altri hanno estratto i coltelli. Sono stato uno stupido. Mi dispiace perché ho nove figli. Li affido a lei, dottore» conclude rivolgendosi a Montesano. Non ha una parola di pentimento per le vittime.
Giuseppe Jovine indica il nascondiglio della sua pistola, una Beretta 6,35. Dopo la sparatoria, l’ha infilata nella buca delle lettere del portone di via Mazzini 44. La Polizia la recupera nella stessa notte: ha una pallottola in canna e tre proiettili nel caricatore.
L’omicida ha parlato dei suoi numerosi figli. A questo proposito La Stampa e Stampa Sera ricordano ulteriori particolari poco edificanti a suo carico.
I giornali si sono già occupati della sua famiglia nel marzo 1966, quando è nato il nono figlio: sfrattata da via Bogino è andata ad abitare in via Dei Mille, dove non riusciva a pagare affitto perché lui era disoccupato. Ora la famiglia abita in un alloggio comunale di via Garrone e non paga l’affitto. Uno dei figli è ricoverato al Cottolengo e la primogenita quindicenne è ospite al Buon Pastore, nel sospetto che il padre l’abbia molestata.
Il delitto di Pasqua è stato risolto, almeno per l’individuazione del colpevole, ma apre scenari oscuri sulla sua genesi e richiama considerazioni moraleggianti.
Sembra assurdo che un operaio, padre di nove figli, abbia ucciso un conterraneo e feriti altri due soltanto perché infastidito dal fracasso indiavolato di un juke-box. La Polizia indaga per accertare se tra i protagonisti esistessero vecchi motivi di rancore e il juke-box sia stato soltanto un pretesto.
Si spera che un’accurata istruttoria possa chiarire l’intera vicenda.
Fine della prima parte – Continua.