
Scriviamo questo articolo il giorno prima della celebrazione dei cinque referendum su lavoro e cittadinanza, e quindi non sappiamo quale sarà l’esito della consultazione, anche se nutriamo ben pochi dubbi sul non raggiungimento del quorum richiesto dalla Costituzione.
Ma non è tanto questo il problema, bensì quello più generale della partecipazione ad un evento privo di senso o, meglio, con un senso completamente opposto a quello dichiarato. Perché -va detto- i referendum oggi hanno perso gran parte del senso originario, e cioè quello di ascoltare il cuore di una nazione, di tastarne il polso in merito a grandi temi politici, etici, economici, e sono semplicemente diventati strumenti di tattica politica, procedure astratte con cui i partiti si sfidano fra di loro, e spesso al loro interno, su tematiche troppo tecniche per poter essere sentite e partecipate dalla gente.
Referendum come quelli sul nucleare, sulla responsabilità dei giudici, sul finanziamento pubblico dei partiti, sull’uso dei fitofarmaci, sull’abolizione di determinati ministeri, sull’orario degli esercizi commerciali, sull’elezione del Consiglio superiore della Magistratura, sulla proroga delle concessioni per l’estrazione di idrocarburi in mare, sui membri laici nei consigli giudiziari, per citare solo quelli più palesemente tecnici, vecchi e recenti, costituiscono una palese ingiuria al buon senso.
Non si comprende, cioè, quale competenza risieda nella maggioranza di un popolo, per quanto oggi molto informato, relativamente a materie del genere, e quindi quale rilevanza possa avere un suo pronunciamento. Il vecchio principio einaudiano del “conoscere per deliberare”, già molto precario nelle aule parlamentari chiamate alla funzione legislativa, diviene del tutto inconsistente in certe tornate referendarie.
Nessuno di noi auspica l’avvento di un platonico “Consiglio notturno” in cui pochi illuminati decidono per tutti, un sistema dove le élites diventano oligarchie autoreferenziali come purtroppo già avviene con sempre maggiore frequenza, soprattutto a livello europeo: in un’epoca in cui le opinioni e i sentimenti dei popoli vengono scavalcati ogni giorno dagli interessi dei potenti, politici economici e finanziari, e dalla frenetica attività delle lobbies internazionali non abbiamo certo bisogno di ulteriori restrizioni delle consultazioni popolari, già fin troppo ristrette, confinate e umiliate. Il problema è che vengono evitate le grandi consultazioni, quelle radicali e vitali per i popoli.
Perché non fare un grande referendum sulla guerra, o sul riarmo, o sull’appartenenza del Paese ad organismi sovranazionali come l’Unione europea o la Nato? Forse perché sarebbero troppo scontati e troppo pericolosi per i signori del mondo? Sappiamo bene che le disposizioni costituzionali non li permettono, ma il tema non è la loro fattibilità giuridica bensì il loro alto significato etico, politico, democratico.
Probabilmente è meglio ripiegare su referendum insignificanti che vanno ad abrogare aspetti tecnici della normativa vigente che potrebbero benissimo essere corretti in via legislativa, aspetti tecnici che, come abbiamo detto, non fanno altro che irritare gli elettori, che non li capiscono e li allontanano dalla consultazione referendaria. I tecnicismi piacciono solo ai tecnici e a chi ne sfrutta la complicatezza per traghettare politicamente e favorire ben altri interessi.
Appunto, gli altri interessi.
Non abbiamo alcuna simpatia per le forze che hanno promosso i referendum dell’8 e 9 giugno, a partire da un certo sindacato che nutre ormai evidenti e sregolate ambizioni politiche, ma riconosciamo loro un’intelligenza e una capacità di valutazione che contrastano con questa scelta potenzialmente suicida. È impensabile che abbiano sottovalutato la quasi certezza del non raggiungimento del quorum. E allora?
Allora non resta che pensare ad una gigantesca messa in scena politica che nulla ha a che fare con gli interessi dei lavoratori e degli stranieri in attesa di cittadinanza, ma che ha come primo obiettivo un massiccio attacco al governo “nemico” di Giorgia Meloni, come secondo obiettivo quello di misurare la forza di cui dispone la sinistra politica e sindacale in attesa di un futuro momento elettorale, e come terzo obiettivo quello di valutare la solidità di Elly Schlein come segretaria del Partito Democratico.
Come si vede, una tattica volta a ben altre finalità che non quelle dichiarate.
Ora, la diserzione dai seggi – sulla cui legittimità anche morale non ci sono dubbi, perfino nella forma un po’ furbesca della Meloni (non ritirare le schede) – acquisisce un altro e più interessante significato, oltre a quelli già ampiamente dissertati dalla stampa nazionale: diventa un deciso e palese rifiuto di quella strategia truffaldina messa in atto dalla sinistra, una strategia che segna un ulteriore distacco dalla realtà della sua classe dirigente; un distacco che continua a separare esigenze reali come la tutela del lavoratore e dello straniero, a cui è riservata l’apparenza del referendum, dal machiavellismo politico di quei leader che sperano di trarre qualche effimero beneficio da un’inutile consultazione.
Resta poi il fatto singolare di quella classe dirigente di sinistra che chiede l’abrogazione di norme che essa stessa ha votato qualche anno fa, e che condanna la propaganda astensionista che essa stessa ha raccomandato in molte occasioni passate.
Ma questo fa parte del loro folklore e noi, che siamo politicamente corretti, rispettiamo sempre le culture degli altri.
Articolo bellissimo e molto veritiero, visto che il fatidico “quorum” non è stato raggiunto (per fortuna) anche se non vi era alcun dubbio. Complimenti sinceri ed andiamo avanti sempre senza ipocrisia. Ps: Saluti affettuosi da Maya. Una buona giornata.