
La popolazione in fuga e il regime di Bashar al-Assad nuovamente in mezzo al fuoco incrociato di milizie e interessi geopolitici che si misurano in Medio Oriente
La guerra civile siriana, innescata dalle proteste popolari verso il regime di Assad, immediatamente represse con violenza, è iniziata nel 2011, anno delle rivolte note come “Primavera araba”, che hanno coinvolto il Medio Oriente e altri Paesi musulmani, quali Libia, Algeria e Tunisia.
Ne sono conseguiti 10 anni di combattimenti intrecciati tra soldati del regime di Assad, fazioni dello Stato Islamico, ribelli quaedisti, ribelli filo giordani, truppe turche e curdo siriane, con ingerenza attiva di Russia, Iran, Turchia e USA, che hanno disgregato e insanguinato la Siria. Poi, la fragile tregua entrata in vigore nel 2016, che è saltata adesso e non per caso.
Il 30 novembre, un insieme di truppe alleate contro il regime di Bashar al-Assad, sono dilagate nella provincia centrale siriana di Hama. I quaedisti del gruppo Hayat Tahrir al-Sham (HTS), sono la forza principale, seguita da jihadisti, formazioni filo turche, uzbeki, gruppi caucasici, fino a musulmani cinesi (uighuri).
I ribelli erano pronti da tempo, preparati e ben armati hanno atteso la circostanza più favorevole per riconquistare i territori di Aleppo e Idlib, dai quali erano stati cacciati nel 2016 dopo feroci combattimenti.
Sul campo, i ribelli hanno fatto uso di droni-kamikaze e veicoli bomba, infiltrandosi da tunnel con unità speciali, cogliendo di sorpresa i militari di Assad che, privi di un cospicuo appoggio di russi e iraniani, hanno abbandonato le posizioni, incapaci di difendere un Paese frammentato, devastato, sommerso da problemi economici, dove Bashar Assad è molto meno influente rispetto al passato, sia a livello interno che internazionale.
In questo momento, infatti i tre principali alleati del regime di Assad: Iran, Hezbollah e Russia, sono impegnati su altri fronti. I primi due con Israele, la Russia in Ucraina.
L’attacco dei ribelli islamici è un colpo basso tirato soprattutto alla Russia e alle sue aspirazioni nell’area, oggi più difficili da difendere senza alleggerire lo spiegamento in Ucraina. Che vi siano stati accordi segreti tra ribelli e ucraini orchestrati da Israele e dagli americani è solo un’opinione, ma “a pensar male si fa peccato, però ci si azzecca”.
Anche la Turchia potrebbe averci un ricavo, poiché con la chiusura dei gasdotti russi che passano per l’Ucraina, il corridoio proveniente dal Turksteam resta l’unico per “abbeverare” l’Europa, ed Erdogan è un abile “negoziante”.
L’ambizioso Erdogan gioca le sue carte su più fronti, da una parte con l’interesse di esercitare una grande influenza in Siria e in tutto il Medioriente, dall’altra quella di combattere i separatisti curdi, che hanno trovato un accordo con Assad, e sono nel nordest della Siria. Curdi appoggiati dagli americani, a loro volta impegnati in azioni anti califfato Isis.
In quest’area, gli USA contano su alcuni presidi in zona curda, ma è la Russia che ha un maggiore controllo del territorio, dovendo conservare i due porti che danno attracco per la sua flotta militare. Un privilegio imperdibile per Putin e le sue ambizioni verso lo scacchiere del Mediterraneo.
In Libano e nella parte meridionale della Siria, l’esercito israeliano, con centinaia di attacchi aerei, ha sgretolato lo schieramento Hezbollah e distrutto depositi di armi, eliminando consiglieri iraniani e rendendo instabile l’apparato di governo.
È quasi impensabile che Israele abbia materialmente sostenuto la ribellione islamista. Tuttavia è ipotizzabile un subdolo accordo tra Turchia e Israele che, pur essendo nemici hanno interesse a rintuzzare l’influenza iraniana nella regione, per motivi diversi, ma convergenti.
(“Il nemico del mio nemico diventa un amico”).
Nonostante la reazione russa e i raid aerei che dovrebbero aver eliminato il veterano Mohammed al Juwlani, condottiero dei ribelli riuniti, non è ancora chiaro fin dove, come e quanto i frammentati jihadisti anti Assad potranno rimanere coesi, per proseguire e poi gestire i settori nuovamente conquistati.
Le notizie dal fronte, riportano di continui ripiegamenti delle truppe di Assad su nuove linee di difesa. Il potere è alle strette come lo era prima del soccorso russo nel 2015, però adesso a Mosca sono interessati nel Donbass che dissangua l’Armata e alzano la voce di una guerra frontale nei confronti della Nato. Hanno di certo grattacapi più grossi.
In cerca di rapide contromisure pare che il Cremlino abbia inviato in Siria un alto ufficiale per studiare le contromisure. Nel frattempo, in Siria lo Stato islamico che non era stato mai completamente estirpato, ultimamente è risorto come un’araba Fenice.
Intanto, altri aggiornamenti riportano che Assad, per arginare l’avanzata dei ribelli, ha messo in campo il reparto più brutale e temuto delle forze armate siriane, le Tiger Forces, che sono entrate in azione per impedire la repentina e totale caduta di Hama.
Le notizie si accavallano: si attivano le forze speciali americane, milizie filo irachene si stanno muovendo in appoggio al regime, mentre i jihadisti che non mostrano cedimenti hanno nuovamente riacceso le ceneri latenti di tutto il Medio Oriente.
Ulteriore incertezza: tra un paio di mesi vi sarà un cambio alla Casa Bianca e Donald Trump non ha mai fatto mistero di preferire un ritiro dei soldati dalla regione e la nuova politica americana lascia prevedere molti cambiamenti. Tutto questo però, prima del colpo di mano dei ribelli di Hayat Tahrir al-Sham & jihadisti vari associati.
Troppe etnie e religioni in continua resa dei conti, troppi interessi storici, strategici e geopolitici, concentrati in un piccolo Stato ritagliato sulla mappa e “inventato” dai vincitori, dopo la I Guerra Mondiale. Un crocevia di popoli e nomadi, terre contese da sempre; porta del Medioriente, al confine meridionale dell’Eurasia e della penisola araba.
Difficile ipotizzare che un negoziato tra così tanti attori sia preferito a un nuovo bagno di sangue, rivendicato dai proclami universali degli AK47 branditi da miliziani jihadisti.
Di certezza ce n’è una sola: milioni di civili, già reduci da indicibili sofferenze, sono nuovamente in fuga. Un esodo allo sbando che già guarda verso l’Europa.
Un’Europa dove, le generazioni nate dopo la II Guerra Mondiale, per una presa di coscienza civica civile del Vecchio Continente, hanno evitato di essere richiamate e decimate tra gli orrori della guerra, così come quelle precedenti. Un’Europa litigiosa ma pacifica e dormiente, che adesso assiste, sente il fermento che bussa alle sue porte e freme nelle periferie. Un’Europa dalla voce sempre meno grossa, che si affida alla diplomazia per acquietare la paura.
La prima guerra mondiale è nata in maniera molto più semplice, oggi con gli interessi in ballo è tutto più difficile, anche cercare di capire o trovare un modo per uscire da questo cul de sac….
Penso che le lobby ebraiche americane stiano cercando di portare a casa qualche risultato prima dell’arrivo di Trump,il quale,anche se continuerà ad appoggiare Israele nella sua espansione territoriale a prezzo di vite,ha altri obiettivi più interessanti per la cordata finanziaria che rappresenta