Esiste ancora uno stato di diritto in Italia?
Quando si parla di liberalismo non si può prescindere da due concetti fondamentali: stato costituzionale e stato di diritto. Il primo si fonda sulla classica separazione dei poteri teorizzata da Montesquieu nel XVIII secolo, il secondo sull’idea tipicamente anglosassone del rule of law, cioè il governo della legge.
Quando questi due principi profondamente liberali, ma anche profondamente razionali, decadono o si corrompono ne risentono non solo i cittadini ma anche l’efficienza e la natura stessa delle istituzioni, e lo stato ritorna ad essere il regno della confusione e dell’arbitrio.
Perché questa premessa? Perché l’Italia sta percorrendo sempre più questa strada di decadenza politica e giuridica e, conseguentemente, anche di decadenza democratica.
Questo è ben evidenziato dal rapporto sempre più conflittuale tra magistratura e potere esecutivo e, per certi versi, anche nei confronti del potere legislativo.
Il caso Salvini e il caso Toti sono plateali, ma non sono certamente i soli, nel presente come nel passato. Quando un corpo istituzionale dal potere enorme come la magistratura – e in particolare quella sua parte che chiamiamo requirente, impersonata dai procuratori della repubblica – si autoattribuisce una dimensione politica con valori e obiettivi suoi propri, e con tutte le storture che una politica militante porta con sé, allora la nazione si avvia verso un regime illiberale e segna la sua condanna.
Il solo nome di Luca Palamara dovrebbe incutere un senso di indignazione in chi crede ancora nell’indipendenza della magistratura, ma potremmo affiancare a quel nome quello di molti altri magistrati che hanno trasformato la giurisdizione in una sottospecie deteriore della politica politicante.
Il dibattito è antico: il magistrato deve essere solo “bocca della legge”, come sosteneva l’autore dello Spirito delle leggi, o può permettersi di piegarla alle sue convinzioni morali, politiche, culturali o, peggio ancora, ideologiche? E’ ammissibile l’”interpretazione evolutiva” della norma giuridica cambiandone il senso e la finalità volute originariamente dal legislatore? L’attività del giudice è scienza o arte?
O ancora: dobbiamo stare dalla parte di un grande giurista come Antonin Scalia e tutelare sempre l’original intent della norma, o dalla parte dei procuratori di Palermo che hanno una loro particolarissima concezione del sequestro di persona, subordinando il codice penale all’esaltazione umanitaria e immigrazionista della vicenda Open arms?
Che l’interpretazione e l’applicazione della norma non possa prescindere da valori etici è fuor di dubbio, ma non da tutti i valori etici, data la loro soggettività che può sconfinare nel capriccio del giudice, bensì solo da quelli accolti nella Costituzione che peraltro, pur nella sua coerenza e anche nella sua bellezza, resta un fenomeno linguistico con tutte le ambiguità e imprecisioni del linguaggio, e in cui è sempre possibile, in fondo, trovare giustificazione a ogni convinzione personale del magistrato.
Stesso discorso per quanto riguarda la normativa internazionale a cui fanno riferimento i pubblici ministeri di Palermo. Si tratta di un complesso di norme spesso molto confuse e talvolta in contrasto con le leggi degli stati, norme spesso infarcite di considerazioni morali, politiche, filosofiche molto vaghe nella loro verbosa genericità. Per tacere delle grandi difficoltà tecniche di coordinamento con le legislazioni nazionali.
Qual è dunque il risultato di tutto ciò?
La risposta è semplice: la morte – o almeno la grave malattia – dello stato di diritto, proprio quello stato di diritto che sembra essere diventato la stella polare di tutti i benpensanti della politica e della comunicazione e la cui violazione viene imputata ogni giorno agli stati canaglia, partendo dalla civile Ungheria per finire alla Russia di Putin o alla Cina di Xi Jinping.
Senza una ragionevole certezza del diritto non esiste rule of law, non esiste sovranità della legge, non esiste democrazia e soprattutto non esiste libertà del cittadino.
Un’enormità di casi di malagiustizia ha praticamente abbattuto la fiducia del cittadino nell’operato della magistratura: errori giudiziari, reati minori impuniti, tempi geologici della giustizia civile, aleatorietà delle decisioni giudiziarie, farraginosità delle procedure, disinteresse verso le piccole questioni della gente, scarcerazioni immediate di chi delinque, sentenze contraddittorie su casi identici e altro ancora. Di fronte a tutto ciò come si può ancora parlare di certezza del diritto?
E tutto questo ci porta anche sul tema della separazione dei poteri: ogni volta che un magistrato forza una norma giuridica per compiacere le sue convinzioni e aspirazioni extra-giuridiche è come se si sostituisse al legislatore, di fatto creando una norma nuova. Se questo è in qualche modo possibile nei sistemi anglosassoni di common law, dove i giudici in buona parte creano il diritto, non appare praticabile nei nostri sistemi a base legislativa, se non al prezzo di distruggere completamente la fiducia della nazione in una giustizia oggettiva, conoscibile e infine anche ragionevolmente prevedibile.
Che dire poi della presenza di molti magistrati fuori ruolo che popolano le segreterie, i gabinetti e gli uffici legislativi dei ministri e dei sottosegretari? Non si tratta forse di una invisibile ma reale commistione fra il potere giudiziario e quello esecutivo?
E la Corte costituzionale che, come molte magistrature ma ovviamente su un livello più elevato, e pur in modo assolutamente legittimo, tuttavia, con la sua attività interpretativa, spesso annulla, modifica, restringe o espande le leggi del Parlamento?
Nessuno nega che il diritto possa e debba evolvere, ma è necessario vigilare affinché questa evoluzione avvenga e si mantenga nell’alveo stesso della giuridicità nel suo senso più tecnico, e non venga influenzata da mode intellettuali, tendenze sociali, pregiudizi ideologici, influenze mediatiche, e infine dalle personalissime paranoie dei magistrati.
Bacone aveva già intuito quattro secoli fa la pericolosità degli idòla, cioè delle false rappresentazioni psicologiche, sociali, storiche che deformano i nostri giudizi sulle cose e ci inducono a prendere decisioni sbagliate o quantomeno discutibili. Forse sarebbe bene riproporre questa visione a una magistratura che oggi soggiace a queste distorsioni intellettuali, per riportarla a quella che dovrebbe essere la sua altissima funzione politica e, soprattutto, etica: una giustizia che non sia solo giusta ma appaia anche giusta a chi la subisce e a chi vorrebbe vederla al suo servizio, cioè ai cittadini di una democrazia matura.
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