Le analogie e i molti interrogativi che una ricorrenza storica ci presenta
Oggi è il 7 ottobre e cade il 453esimo anniversario della battaglia di Lepanto avvenuta il 7 ottobre del 1751.
Mai come quest’anno, una ricorrenza storica si presenta in un contesto non rituale e, oltre al ricordo, c’invita a riflettere sulle molte analogie, o meglio su i “corsi e ricorsi della Storia”.
Non individuiamo al momento eserciti compatti, ma multinazionali della mezzaluna che continuano ad affacciarsi su un’Europa decadente, per compiere ardite operazioni finanziarie, oltretutto auspicate da alcuni o per l’acquisizione di complessi industriali.
Non scorgiamo la flotta ottomana, ma una massa di disperati che continua a invadere per mare e per terra le nostre città, cercando d’imporre anche ai residenti, i loro stili di vita e le obbedienze coraniche.
Venti di guerra stanno però soffiando sull’area e gli appelli velati e espliciti di leader di Paesi del Medio Oriente al mondo Islamico, affinchè, approfittando delle tensioni con Israele si compatti contro L’Occidente sono stati già pronunciati.
Sul trono di Pietro non è assiso un Papa guerriero, ma gli sforzi di Papa Francesco per la pace, l’invito pressante ai ricorso alla diplomazia e per porre un limite al propagare del terrorismo nel mondo cadono invano.
Non si traggono conclusioni, ma si coglie la ricorrenza per invitare il lettore a rileggere la Storia e volgere lo sguardo attento alle vicende di oggi che purtroppo non salvaguardano il domani e le conseguenze che una politica rinunciataria potrebbe generare sul futuro dell’Occidente.
Ritorniamo alle vicende storiche. Dopo che il 31 maggio 1453 Maometto II aveva conquistato la città di Costantinopoli e con essa il millenario Impero cristiano d’Oriente, i turchi ottomani ritenevano imminente il giorno del loro dominio universale. Nel 1521 si erano impadroniti di Belgrado; nel 1526 avevano conquistato l’Ungheria ed erano arrivati fino alle porte di Vienna.
In Italia avevano invaso e saccheggiato tutte le coste del meridione. Tripoli era già stata tolta agli spagnoli, l’isola di Chios ai genovesi, Rodi ai cavalieri che la possedevano e la stessa isola di Malta, nuova sede dei cavalieri, sarebbe caduta nelle mani turche se Jean de La Valette, Gran Maestro dell’Ordine non l’avesse difesa e salvata con eroico valore.
Nel febbraio 1570 era giunto a Venezia un ambasciatore turco con un ultimatum della Sublime Porta: o la cessione al sultano dell’isola di Cipro o la guerra.
Venezia aveva rifiutato con sdegno. Ma dopo undici mesi di assedio il 1 agosto 1571, nell’isola di Cipro era caduta la città di Famagosta. Il patto di resa garantiva la vita ai difensori superstiti, ma quando il comandante turco era penetrato a Famagosta aveva fatto scorticare vivo il comandante della piazza cristiana Marcantonio Bragadin.
Il corpo era stato squartato, la pelle di Bragadin era stata quindi riempita di paglia, rivestita con la sua uniforme e trascinata per la città.
Il terrore regnava nel Mediterraneo, l’antico Mare nostrum. La sorte dei cristiani di Cipro era quella che l’Islam sembrava preparare ai cristiani di tutta Europa. Sulla cattedra di Pietro sedeva un teologo domenicano, Michele Ghislieri, salito al pontificato all’inizio del 1566 con il nome di Pio V, unico Papa di origini Piemontesi, prima di Papa Francesco.
Egli valutò la gravità del pericolo e comprese che solo una guerra preventiva avrebbe salvato l’Occidente. Con parole gravi e commosse esortò le potenze cristiane ad unirsi contro gli aggressori e di questa difesa della cristianità fece l’asse del suo breve pontificato.
Non tutti, però, risposero all’appello. L’espansione dei turchi si sviluppava anche grazie alla complicità decisiva di paesi cristiani, come la Francia, che in nome della realpolitik, oggi diremmo dei suoi interessi geopolitici, incoraggiava e finanziava i turchi per indebolire il suo tradizionale nemico: la casa imperiale d’Austria.
Tuttavia grazie alle preghiere e alle insistenze del pontefice, il 25 luglio del 1570, la Spagna, Venezia e il Papa conclusero l’alleanza contro i turchi. Subito dopo aderirono il duca di Savoia, la Repubblica di Genova e quella di Lucca, il granduca di Toscana, i duchi di Mantova, Parma, Urbino, Ferrara, l’Ordine sovrano di Malta. Si trattava di una prefigurazione dell’unità italiana su basi cristiane, la prima coalizione politica e militare italiana nella storia., con il concorso dei principi dell’Europa occidentale.
Alla testa della Lega Cristiana fu posto un giovane di 25 anni: don Giovanni d’Austria, figlio naturale di Carlo V e dunque fratellastro del re di Spagna Filippo II. La flotta pontificia, costituita grazie all’aiuto decisivo dei cavalieri di Santo Stefano, era comandata da Marcantonio Colonna, duca di Paliano, a cui il Papa affidò la bandiera della Chiesa.
La Santa Lega fu ufficialmente proclamata a Roma nella basilica di San Pietro. Lasciata Messina, dove si era concentrata alla fine di agosto, dopo venti giorni di navigazione con rotta verso levante, la flotta cristiana attaccò il nemico alle undici di mattina di quella domenica 7 ottobre dell’anno 1571.
Lo svolgimento della battaglia
All’alba del 7 ottobre 1571 una gigantesca flotta ottomana, la più numerosa mai schierata nel Mediterraneo, avanzava lentamente, con il vento di scirocco in poppa. Circa 270 galee e una quantità indescrivibile di legni minori formavano un semicerchio, un’enorme e minacciosa mezzaluna che occupava tutte le acque che dalle coste montagnose dell’Albania, a nord, arrivano alle secche della Morea, a sud.
Al centro della mezzaluna che avanzava, sulla nave ammiraglia, chiamata la Sultana, sventolava uno stendardo verde, venuto dalla Mecca, che recava ricamato in oro per 28.900 volte il nome di Allah.
Di fronte, in formazione a croce, era schierata la flotta cristiana, sulla cui ammiraglia, comandata da don Giovanni d’Austria, garriva un enorme stendardo blu con la raffigurazione del Cristo in Croce. La battaglia durò cinque ore e si decise al centro dello schieramento, dove le navi ammiraglie si speronarono l’un l’altra formando un campo di battaglia galleggiante in cui si susseguirono attacchi e contrattacchi finché il reggimento scelto degli archibugieri di Sardegna riuscì a sferrare l’attacco decisivo.
Alì Pascià fu colpito a morte e sulla Sultana fu ammainata la Mezzaluna e issato il vessillo cristiano.
Si coprirono di valore tra gli altri i Colonna e gli Orsini, sette della stessa famiglia, il conte Francesco di Savoia che cadde in battaglia, il ventitreenne Alessandro Farnese, destinato a divenire uno dei maggiori condottieri del secolo, Giulio Carafa che, preso prigioniero si liberò e si impadronì del brigantino nemico, ed i veneziani tutti che pagarono il maggior tributo di sangue.
Il provveditore veneziano Agostino Barbarigo che comandava l’ala sinistra dello schieramento cristiano, si batté, fino a che non gli mancarono le forze, con una freccia infitta nell’occhio sinistro. Sulla sua ammiraglia, Sebastiano Venier, combatté a capo scoperto. Sopraffatto, viene soccorso dalle galee di Giovanni Loredan e Caterino Malipiero, che trovano la morte nella lotta.
Al termine della battaglia la Lega aveva perso più di 7.000 uomini, di cui 4.800 veneziani, 2.000 spagnoli, 800 pontifici, e circa 20.000 feriti; i turchi, contarono più di 25.000 perdite e 3.000 prigionieri. Il nome di Lepanto era entrato nella storia. Per la prima volta dopo un secolo il Mediterraneo tornò libero. A partire da questo giorno iniziò il declino dell’impero ottomano.
Nel pomeriggio del 7 ottobre, Pio V che aveva moltiplicato le preghiere a Colei che sempre aveva soccorso i cristiani nelle ore drammatiche della cristianità, stava esaminando i conti con alcuni prelati.
La Storia ci tramanda che d’improvviso il Papa, fu visto levarsi, avvicinarsi alla finestra fissando lo sguardo come estatico e poi, ritornando verso i prelati esclamare: “Non occupiamoci più di affari, ma andiamo a ringraziare Iddio. La flotta cristiana ha ottenuto vittoria”.
Il Pontefice attribuì il trionfo di Lepanto all’intercessione della Vergine e volle che nelle Litanie lauretane si aggiungesse l’invocazione Auxilium Christianorum.
Anche il Senato Veneziano, composto da uomini fieri e rotti a sfidare i più gravi pericoli in mare e in terra, volle attribuire alla Santissima Vergine il merito principale della vittoria e sul quadro fatto dipingere nella sala delle sue adunanze fece scrivere queste parole: “Non virtus, non arma, non duces, sed Maria Rosarii, victores nos fecit” (non il valore, non le armi, non i condottieri, ma la Madonna del Rosario ci ha fatto vincitori).
Riflettiamo!
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Non riusciamo ad imparare dalla storia e pecchiamo sempre di superbia : questo è il nostro vero limite ! Nelle grandi e piccole imprese noi tendiamo a sopravvalutarci e a indebolirci perchè abbassiamo la guardia che invece dovrebbe essere sempre massima!