
La visione conservatrice sembra ormai prevalere nella società occidentale
Fino a poco tempo fa era solo un vago sentore che aleggiava nelle società occidentali, ma oggi è qualcosa di più: è un vento sostenuto che va a gonfiare le vele di una nuova narrazione della nostra cultura collettiva e delle nostre politiche.
E’ un vento conservatore -potremmo azzardarci a definirlo “di destra” con grande sconcerto dei benpensanti- che sta progressivamente inclinando i totem della cultura progressista e liberal, in alcuni casi addirittura abbattendoli, dopo anni e anni di dittatura incontrastata nel discorso pubblico, nel mondo mediatico, nella politica dominante in Occidente e che, col solito normale ritardo, sta arrivando anche in Italia.
La vittoria elettorale che da noi ha portato al governo Giorgia Meloni, l’altra vittoria elettorale che ha riportato Donald Trump alla Casa Bianca, le elezioni europee del 2024 con la nuova configurazione del Parlamento e della Commissione UE, le elezioni francesi -sempre nel 2024- con la solida avanzata della destra, le elezioni austriache del settembre scorso a cui è seguito l’incarico a Herbert Kickl per la formazione del nuovo esecutivo, le imminenti elezioni tedesche del prossimo febbraio che fanno già intravedere una probabile forte affermazione dell’estrema destra di Alice Weidel; sono tutte evoluzioni (o involuzioni se viste dagli avversari) che segnano un sovvertimento della politica occidentale, ma anche una nuova visione complessiva del nostro comune sentire.
In effetti, al di là dei mutamenti strettamente politici, si è registrata ultimamente anche una progressiva e diffusa ribellione verso i miti e i riti del politicamente corretto, della visione woke, del progressismo esasperato delle élites, della cancel culture, del narcisismo di sinistra e del suo supponente senso di superiorità. E accanto a queste inversioni culturali è cresciuta anche la diffidenza -o addirittura la ripulsa- di altre narrazioni egemoniche: l’ossessione climatico-ambientale, il femminismo d’assalto, il gender, il migrazionismo selvaggio, l’inclusività sociale a tutti i costi, l’egualitarismo, l’antirazzismo ossessivo e altro ancora. Sembra cioè che, poco alla volta, vada attenuandosi quella “cultura del piagnisteo” che Robert Huges aveva già delineato nel 1993.
Negli Stati Uniti molte grandi aziende hanno scoperto che questa cultura non paga sotto il profilo economico perché la clientela non apprezza, e spesso rifiuta, gli stereotipi politicamente corretti con cui vengono proposti e pubblicizzati i prodotti provocando significative riduzioni di fatturato: dalla Disney alla Harley-Davidson, dalla Bud a Netflix, fino alla britannica Jaguar si è assistito a una netta retromarcia su queste politiche commerciali, segno inequivocabile che la critica al mondo woke non è più solo un fenomeno intellettuale ma anche un fenomeno di costume che va estendendosi.
L’affermazione di un personaggio, pur discutibile sotto diversi aspetti, come Donald Trump è probabilmente anche una conseguenza di questo clima di crescente ostilità verso il mondo liberal e la sua visione delle cose, un mondo rappresentato principalmente dal Partito democratico e da una donna come Kamala Harris che ha condotto una campagna elettorale parolaia, superficiale e hollywoodiana, tutta popolata di danarose star dello spettacolo e dell’intrattenimento, una upper class bella, frivola e vuota che non ha mai fatto mistero di condividere i miti e l’immaginario della cultura progressista.
Ma probabilmente quella cultura, che è soprattutto urbana e metropolitana, è andata a cozzare contro i sentimenti della grande America rurale e dell’America provinciale, operaia e piccolo borghese, impoverite dalla crisi economica, private dell’orgoglio pionieristico e patriottico, refrattarie alle fumisterie ideologiche e buoniste della sinistra democratica così come ai suoi patinati testimonial cinematografici, televisivi e accademici. E quell’America ha votato Trump e il suo spigoloso realismo.
Così, in Europa, un paese ugualmente dedito al culto della concretezza come la Germania ha preso atto di alcuni pericoli imminenti e molto materiali come il declino industriale e l’immigrazione incontrollata, spesso criminale, e si sta regolando di conseguenza spostando a destra le sue preferenze politiche, abbandonando progressivamente le buone intenzioni di una socialdemocrazia che, pur essendo meno ideologizzata di altre forze di sinistra, appare comunque sempre più inadatta a fronteggiare la brutale realtà incombente.
Discorso parzialmente diverso per Francia e Italia. La prima, nobile madre dell’idealismo illuminista, contrappone oggi una classe politica in piena crisi, ma testardamente arroccata nei suoi palazzi, a un popolo storicamente inquieto e protestatario, un popolo che oggi si va estremizzando e offre una consistente porzione dei suoi voti a una forza lepenista orgogliosamente di destra.
La seconda nazione, l’Italia, è divisa fra una destra governativa e una sinistra frastagliata, piena di rabbia, ancora fortemente attaccata alle ideologie astratte e perbeniste, una sinistra che ha dimenticato l’antico operaismo per delegarlo ai sindacati più aggressivi, incerta fra la rivolta sociale e l’aplomb istituzionale, pienamente coinvolta nella narrazione buonista, immigrazionista, antifascista, perdonista, movimentista, inclusivista, femminista, europeista e in tanti altri “ismi” che denotano la sua incapacità (o mancanza di volontà) di staccarsi dal politicamente corretto come stanno facendo altri paesi e altre società.
Quel vento di destra che altrove soffia anche nella società e nel mondo della cultura in Italia sembra restare confinato alla politica, alle sue espressioni governative e parlamentari scaturite dal voto inequivocabile del settembre 2022; stenta cioè a penetrare nella mentalità corrente di chi fa opinione: dal giornalismo al mondo accademico, dall’intrattenimento allo spettacolo, dall’editoria all’arte, fino a quel “ceto medio riflessivo” che esprime una buona parte della classe dirigente.
La destra italiana, nonostante alcune iniziative di ministri come Sangiuliano, Giuli e Valditara, sembra ancora fondamentalmente inadeguata dinnanzi all’egemonia culturale della sinistra di antica marca gramsciana, egemonia che ha eletto a suo asse portante tutto ciò che all’estero viene oggi messo in discussione, tutti quegli “ismi” di cui dicevamo e che costituiscono il nerbo della declinante ideologia woke.
È vero che da noi, lo ripetiamo, tutto avviene con un certo ritardo rispetto alle grandi nazioni occidentali, e ancora non si vedono veri segnali di rinnovamento rispetto all’ideologia dominante sorretta dai tanti padroni del discorso che qui regnano incontrastati, tuttavia è possibile che anche nel nostro paese la destra politica, in tempi non biblici, trasferisca la sua solidità politica nell’ambito della mentalità collettiva e contribuisca a ridefinire i termini del dibattito culturale riportandolo su di un piano caratterizzato da due semplici qualità: rifiuto dei luoghi comuni della propaganda culturale ed elevatezza dei contenuti.
La creazione cioè -scusate l’ossimoro- di una nuova cultura di massa e di alta qualità.
Civico20News
Elio Ambrogio
Editorialista
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