Per una ridefinizione dei rapporti fra i poteri costituzionali
Potrebbe sembrare una cosa intellettualistica, astratta e fondamentalmente inutile, ma pensiamo che riproporre il discorso sullo stato di diritto, precisandone alcune caratteristiche, sia invece estremamente utile, anzi doveroso in un momento in cui nel mondo, e soprattutto in Italia, questo antico e nobile concetto liberale viene disatteso e oltraggiato.
Due i pilastri dello stato di diritto: sovranità della legge (rule of law) e separazione dei poteri. Il primo di origine essenzialmente anglosassone, il secondo pure ma chiarito e teorizzato dall’illuminismo francese con la classica tripartizione del potere elaborata da Montesquieu.
Il principio di sovranità della legge però si ricollega naturalmente a quello della separazione dei poteri in quanto, per essere effettivo, deve poter contare su di un altro elemento fondamentale: l’indipendenza della magistratura. Cosa, quest’ultima, abbastanza naturale in un sistema di common law come quello anglosassone basato sul principio del precedente giudiziario in cui buona parte del diritto viene creata autonomamente dalle sentenze dei giudici. Nei sistemi di civil law, come quelli continentali e a base romanistica, l’indipendenza della magistratura ha invece bisogno di un ulteriore supporto di rango costituzionale.
In entrambi i casi, comunque, si tratta di principi tanto limpidi nella loro formulazione teorica quanto ambigui e di difficile applicazione nella pratica, sia nell’ambito dei rapporti privati sia in quello dell’azione dei pubblici poteri.
Rule of law e indipendenza della magistratura sono però oggi entrati tutti e due in crisi e sono privi ormai di quei confini teorici e pratici ben definiti che in passato ne delimitavano le attribuzioni, cosa che costituisce un pericolo mortale per le democrazie moderne in cui quei principi dello stato liberale avrebbero dovuto essere accolti.
Oggi la sovranità della legge è insidiata da molti nemici, ma soprattutto da quello che Andrea Venanzoni, in un suo libro acuto ed esemplare pubblicato da Liberilibri nel 2023, chiama la “tirannia dell’emergenza”. Qual è il nemico numero uno dello stato di diritto? Secondo Venanzoni, appunto, l’emergenza. Un’emergenza che però ha una caratteristica particolare: a dispetto del suo nome -e con un’evidente e intrinseca contraddizione- essa è diventata permanente generando “il mondo delle emergenze stabili”, un mondo cioè in cui il potere politico ha sempre un pretesto emergenziale per imporre ai cittadini la sua autorità con la conseguente compressione dei loro diritti e delle loro libertà fondamentali, anche se costituzionalmente definiti e apparentemente garantiti, secondo il noto principio di Carl Schmitt per cui “l’emergenza fa il sovrano”.
Naturalmente è appena il caso di citare l’emergenza terroristica, quella covidaria, quella climatica e, oggi, anche quella bellica. Situazioni psicologiche ed effettuali che tutti abbiamo vissuto drammaticamente in questi anni.
Sono molte le intuizioni di Venanzoni nel suo libro, ma vorremmo ricordarne almeno un’altra che ci è parsa molto pertinente: La “privatizzazione dell’opinione pubblica” che porta al silenziamento, o quanto meno ad un’estrema marginalizzazione, o addirittura alla de-umanizzazione (ricordate gli orrendi no-vax?), di chi esprime opinioni critiche o difformi dalle opinioni ufficiali.
Infatti i canali di informazione, in gran parte privati, si allineano tutti in una narrazione pienamente conformista per loro interessi particolari, prevalentemente economici. Fenomeno dietro cui però si staglia la sempre più ingombrante fisionomia dello Stato: una soffocante alleanza pubblico-privato che distrugge progressivamente proprio quei fondamenti dello stato di diritto da cui siamo partiti, con le sue garanzie, il suo assetto democratico, il suo culto per i diritti e le libertà dell’individuo.
E non ci soffermiamo neppure un attimo sulla crisi del diritto internazionale, l’antico ius gentium di cui abbiamo già detto in passato, devastato dagli eventi bellici contemporanei e dalla feroce logica di potenza degli stati, che delle norme giuridiche elaborate nei secoli dalla ragione umana se ne fregano altamente.
Ci soffermiamo invece sul secondo aspetto che abbiamo evidenziato: l’indipendenza della magistratura.
E’ ormai definitivamente tramontato l’antico principio, ricordato da Montesquieu, secondo cui il giudice può essere solo la “bocca della legge”, principio ripreso anche dall’articolo 101 della Costituzione e, ad esempio, nel dibattito culturale americano col cosiddetto “originalismo” del grande giurista e magistrato Antonin Gregory Scalia, principio secondo cui non è consentito ai magistrati derogare a quelle che sono le disposizioni testuali delle carte costituzionali; in pratica non è loro consentita una “giurisprudenza creativa” che si allontani dalle originali intenzioni del legislatore.
E’ appena il caso di confrontare tale posizione con quella di Augusto Barbera, presidente della Corte Costituzionale, che, nell’ultima relazione annuale della Consulta, ha detto che la Corte non deve costruire una fragile “Costituzione dei custodi”, ma ha il compito di “cogliere le pulsioni evolutive della società pluralista”. Il che significa, in sostanza, piegare la magistratura costituzionale -e, a discendere, quella ordinaria- alle ideologie correnti, ideologie mutevoli e molto spesso create dai Padroni del Discorso con l’ausilio della più sfacciata propaganda.
Intendiamoci, l’interpretazione di Barbera, peraltro ampiamente condivisa da vasti settori della magistratura italiana come dimostrano mille casi piccoli e grandi di giustizia ideologizzata, è assolutamente rispettabile e sicuramente attraente sotto un profilo intellettuale, ma di fatto può significare un asservimento forzato dei giudici agli stimoli della contemporaneità più liquida e, talvolta, semplicemente modaiola, seppellendone l’autonomia giuridica e anche l’autorevolezza.
Ma c’è, in questa tendenza, un aspetto ancora più inquietante e fondamentalmente eversivo del sacro principio della separazione dei poteri, proprio quel principio tanto richiamato dalla cultura progressista a proposito di paesi politicamente “nemici” come Russia, Ungheria, e, in parte, Polonia. Esso consiste nel subdolo contrasto della magistratura nei confronti delle scelte politiche di Parlamento e Governo.
Sorvoliamo su certe esternazioni ai limiti dell’illecito comportamentale (o forse anche penale) come quello, recente, del giudice contabile Massimo Degni e osserviamo come alcune frange della magistratura si dedichino con passione e pignoleria alla demolizione giudiziaria delle norme emanate dal potere legislativo e delle scelte amministrative del Governo. I casi sono tanti, ma c’è un settore in cui i giudici si dimostrano particolarmente nemici della politica governativa: l’immigrazione e l’attività di recupero dei clandestini in mare.
Basti il caso Salvini, inquisito per aver dato attuazione alla politica di contenimento di tale forma di immigrazione, e, al contrario, le tante sentenze clamorosamente a favore degli immigrati e contro i provvedimenti restrittivi che li riguardano, e a favore invece delle ONG che utilizzano quegli esseri umani per fini non sempre limpidissimi.
O ancora osserviamo il caso dei giudici costituzionali chiamati a giudicare la legittimità della normativa sul divieto di lavoro per i non vaccinati o l’archiviazione del “caso Speranza”: decisioni basate esclusivamente sulla “autorevolezza scientifica” delle opinioni di AIFA, OMS, EMA, cioè su dati completamente extra-giuridici e, per di più, assolutamente opinabili dal punto di vista scientifico, come dimostrato da altrettanto autorevoli studi scientifici alternativi e non inseriti nel mainstream istituzionale-medico-politico.
C’è in atto, insomma, una pervasiva distruzione dei cardini dello stato di diritto attuato non tanto dal potere politico della maggioranza, come afferma l’opposizione, ma da una magistratura che sembra non aver più presente i limiti istituzionali del suo operare e, soprattutto nel caso della Corte costituzionale, che coltiva la presunzione di sostituirsi al potere legislativo attraverso una giurisprudenza che di fatto ha assunto essa stessa funzione legislativa, ma non in modo palese bensì occulto, ambiguo e sostanzialmente sottratto al controllo democratico.
Bene la riforma istituzionale proposta dal governo Meloni e dalla maggioranza politica che lo sorregge; ma forse sarebbe necessaria anche una riforma costituzionale che chiarisca, ridefinisca e delimiti nuovamente i confini fra i poteri dello stato, in particolare quelli fra giudiziario ed esecutivo.
Una riforma che vada oltre il pericoloso restyling progressista proposto da Barbera e riporti la nostra democrazia alle sue vere origini liberali e alla grande cultura giuridica dei nostri padri fondatori
Civico20News
Elio Ambrogio
Editorialista
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