Di Aldo A. Mola
La parabola dei Consigli comunali e provinciali (1914-1945)
Tra il 10 marzo e il 7 aprile 1946 si svolsero in migliaia di comuni italiani le prime elezioni dei consigli comunali del dopoguerra. Per la prima volta le donne esercitarono il diritto di voto attivo e passivo. I consigli degli enti locali erano stati eletti l’ultima volta il lontano 31 ottobre 1920, quando furono rinnovati anche quelli provinciali, non rieletti nel 1946 perché la loro sorte era ancora in discussione. Molti ne volevano la soppressione, a vantaggio delle regioni. I consigli locali erano stati eletti il 12 luglio 1914. Fino alla vigilia della Grande Guerra il Consiglio provinciale di Cuneo era stato sotto l’egemonia di Giovanni Giolitti, liberale progressista, da tempo aperto alla collaborazione con cattolici moderati, socialisti riformisti e radicali, come suo genero, Mario Chiaraviglio, massone del Rito simbolico italiano. Nel 1913 il “patto Gentiloni” tra liberali di varie tendenze e cattolici moderati per il rinnovo della Camera, eletta per la prima volta con suffragio maschile quasi universale, ne era stata una variante politica. Nel collegio di Cuneo, però, quel “patto” (sconfessato da Giolitti all’indomani del voto) non funzionò affatto. Vi venne eletto il trentenne Marcello Soleri (1882-1945), già sindaco di Cuneo e punta di diamante di un blocco progressista incardinato sulla loggia massonica “Vita Nova”. Egli fu temporaneamente sostituito a Palazzo Civico dal pro-sindaco Marco Cassin, israelita, nel 1913 eletto deputato a Borgo San Dalmazzo, contro il cattolico Alessandro di Rovasenda. Le novità delle elezioni amministrative del 1920, precedute da quelle politiche del novembre 1919, che anche nel Cuneese videro l’affermazione dei cattolici e dei socialisti, con quattro deputati ciascuno, e la secca sconfitta dei liberali, crollati a tre deputati sui dodici dell’intera provincia. Il dodicesimo fu il candidato di una lista composita, che si affrettò a schierarsi su posizioni governative. Cinque anni dopo, su pressione diretta del capo del governo, Benito Mussolini, consiglieri provinciali cattolici e liberali chiesero pubblicamente che i vertici della provincia si allineassero con il governo fascista. Sdegnato, il 21 dicembre 1925 Giolitti rivendicò la sua coerenza di liberale, si dimise da presidente del consiglio provinciale, carica alla quale era stato eletto e confermato da vent’anni, e, “per elementare senso di dignità”, da consigliere provinciale. Lo imitarono Soleri, Marco Saluzzo di Saluzzo, altri liberali e i pochi consiglieri socialisti, guidati da Domenico Chiaramello, nel 1919 eletto deputato.
Abolite le elezioni dei consigli comunali e provinciali, alla guida di quelli cuneesi furono nominati notabili nazional-fascisti moderati. Il primo podestà di Cuneo fu Giovanni Battista Imberti, già giolittiano, poi del partito popolare e di seguito eletto nella Lista nazionale mussoliniana (1924) e senatore. Camaleonte e garante del morbido trapasso? Conosceva tutti tutti lo conoscevano. “Rettore” della Provincia fu posto lo scultore nazional-fascista Annibale Galateri di Genola. Segretario provinciale del PNF era Attilio Bonino, proveniente dal partito popolare. Nel Cuneese la “svolta” verso il regime di partito unico avvenne all’insegna della conservazione monarchica. Non vi si erano verificate gravi manifestazioni di squadrismo né violenze verso le opposizioni, meno ancora contro logge massoniche, che in molti casi erano di interfaccia con gruppi antifascisti, come “Italia libera”, tenuti sotto stretta sorveglianza. Il 28 ottobre 1922 il quotidiano pomeridiano cuneese “La Sentinella delle Alpi”, proprietà di Tancredi Galimberti, deputato ex giolittiano, poi filocattolico e infine capofila dei fascisti, creato senatore il 2 marzo 1929, nell’“infornata” comprendente Enrico De Nicola, e altri liberali e aristocratici, esultò per l’appello del governo Facta alla pacificazione nazionale, salvo ricredersi l’indomani. L’episodio più disgustoso di “picchiatori” fascisti ai danni di cuneesi fu quello che si verificò nel 1928 a Torino, dove Modesto Soleri, figlio di Marcello, e Dante Livio Bianco, figlio di un dignitario massonico, poiché avevano solidarizzato con il discorso del senatore liberale Francesco Ruffini, vennero tradotti nella sede del fascio in via Bogino e picchiati duramente, suscitando la partecipe condanna da parte di Giolitti e di Benedetto Croce.
Solo dalla metà degli anni Trenta, dopo la guerra d’Etiopia, la proclamazione dell’Impero, le leggi razziste del 1938 e la sostituzione della Camera elettiva con quella dei fasci e delle corporazioni, di cui fece parte il federale Antonio Bonino, si affacciarono nel Cuneese fascisti massimalisti, soprattutto giovani indottrinati dal regime.
Le prime elezioni del dopoguerra
Alle elezioni comunali del 31 marzo 1946 a Cuneo prevalse la Democrazia cristiana, con 17 seggi su 40, seguita da socialisti (8), liberali (7), comunisti (5) ed esponenti del partito d’azione (3). Quelle votazioni ebbero una peculiarità, poi abolita. L’elettore poteva indicare i candidati preferiti e cancellare quelli sgraditi. Le cancellazioni di nomi furono relativamente poche nelle file della Dc, del Psiup e del Pci. Molto più numerose in quelle del Partito liberale e, ancor più, del Partito d’azione. Quale lettura se ne può dare? Gli elettori dei “partiti di massa” seguirono le direttive dei loro “capi”. I liberali e ancor più gli azionisti si mossero invece secondo convinzioni personali. Tra i primi Antonio Bassignano, già sindaco di Cuneo, ebbe 1766 preferenze e 38 cancellazioni, Giuliano Pellegrini, già componente del Comitato di liberazione nazionale di Cuneo e parente di Luigi Einaudi, contò 212 preferenze e 58 cancellazioni, Maranzano 308 e 89, Modesto Soleri, combattente nel Corpo Volontari della Libertà, 194 e 50.
Dei tre consiglieri del Pda (che ottenne 1.748 voti) il primo eletto risultò Felice Bertolino, ex deputato del Partito popolare, autore del memoriale “Italia Libera”, moderatissimo presidente del CLN provinciale, detestato dai vertici di “Giustizia e Libertà” e dello stesso Pda. Ottenne 535 voti e 14 cancellazioni. Lo seguì Dino Fresia, reduce dal campo di concentramento di Flossenburg, con 137 preferenze e 17 cancellazioni. Terzo, Nuto Revelli, ne ebbe 170 e 19. Con il suffragio dello 0,8% degli elettori, questi fu l’unico partigiano combattente eletto consigliere comunale cuneese per il “partito della resistenza”. Molti altri candidati ebbero più cancellazioni che voti. Fu il caso di Cesare Del Prete (36 e 45), padre di Duilio, celebre protagonista di “Amici miei”. Il grecista e docente universitario Leonardo Ferrero si dovette accontentare di 23 voti e 19 cancellazioni. Arturo Felici, “Panfilo”, mai iscritto al PNF a differenza di tanti giellisti e azionisti, pioniere dell’azionismo genuino al pari di Adolfo Ruata che – come dichiaratomi da Arturo Felici, presente all’incontro immediatamente precedente il discorso del 26 luglio 1943 – suggerì a Duccio Galimberti la formula “La guerra continua”, ebbe 94 preferenze e 49 cancellazioni. Non gli valse il ruolo di editore di tanti e importanti libri sulla resistenza come “Venti mesi di guerra partigiana” di Dante Livio Bianco, “Partigiani della montagna” di Giorgio Bocca, “Con la libertà e per la libertà” di Enrico Martini “Mauri”, comandante degli “autonomi” dichiaratamente monarchici, “Banditi” del filosofo Pietro Chiodi, “L’odio distrugge soltanto le pietre” di Aurelio Verra e “Mai tardi” di Nuto Revelli.
Delle due l’una: o si accetta il verdetto delle urne quale espressione della democrazia e si cerca di spiegarlo o lo si rifiuta in nome di una presunta superiorità, si protesta contro l’incomprensione dell’elettorato e ci si arrocca offesi ai margini del confronto politico.
Il caso di Cuneo risultò significativo, perché ne mise in evidenza la diversità rispetto alle altre provincie del Piemonte. Come sopra detto, la Dc vi ottenne 17 consiglieri su 40. Negli altri consigli dei capoluoghi (sempre su 40) ne ebbe 14 a Vercelli contro i 17 del Pci, 13 a Novara (contro 12 e dove lo Psiup ne contò 13) 11 ad Asti (contro 9 e 13), 9 ad Alessandria (contro 13 e 16) mentre a Torino su 80 consiglieri la DC ne racimolò appena 15, travolta dal Pci (27) e dal Psiup (22). Nell’insieme il Pda ottenne 6 consiglieri comunali nei capoluoghi piemontesi: due ad Alessandria, uno ad Asti e tre a Cuneo, l’unica provincia in cui risulto consistente, per quanto ultimo.
I Costituenti della “Granda” …
Dinnanzi a quell’esito deludente e in vista del referendum istituzionale e dell’elezione della Assemblea Costituente (2-3 giugno) nel Cuneese il Pda irrigidì la sua posizione polemica. In discorsi e articoli, Bianco, nominato componente della Consulta nazionale e candidato nel collegio Cuneo-Asti-Alessandria, propugnò con toni sempre più aspri la “rivoluzione democratica” per spazzare i fascisti annidati nella “palude”. Una nuova epurazione? Una settimana prima del voto, Luigi Einaudi, senatore dal 1920, docente universitario, ministro e governatore della Banca d’Italia, poi claudicante presidente della Repubblica, pubblicò l’articolo “Perché voterò per la monarchia”. Vi distinse i valori intriseci dell’istituto monarchico, depositario della tradizione civile e cemento dell’unità nazionale, dagli “errori commessi in un tempo recente, che è un attimo nella vita dei popoli”. Aggiunse che Vittorio Emanuele III, che aveva ormai abdicato trasmesso ed era partito per l’Egitto, non aveva certo sbagliato “da solo”. Per comprenderne l’azione occorreva quel pacato esame delle responsabilità previste dallo Statuto, che tardò e tuttora venne ignorato o rifiutato dai più. Per vent’anni il sovrano era stato abbandonato dai partiti che avevano votato a favore del governo Mussolini fra il novembre 1922 e l’autunno del 1924 (liberali, popolari, “democratici”) e si era trovato nell’amara condizione di dover firmare molte leggi da lui niente affatto condivise ma approvate dalle Camere, una delle quali eletta dagli italiani con consensi via via più plebiscitari. Le firmò perché non poteva non farlo. Piacesse o meno, erano i cittadini a chiederglielo, tramite i loro rappresentanti in Parlamento. Da Re costituzionale doveva subire. Non aveva neppure il diritto di dissentire pubblicamente.
L’esito delle due concomitanti votazioni per il Pda fu più che deludente in tutte le province piemontesi. In Piemonte ottenne l’1,22% dei voti: terzo posto in Italia, dopo gli Abruzzi, le Marche e a pari merito della Lombardia. Superò di poco Calabria, Toscana e Umbria. Con 334.748 voti (l’1,46) e 9 seggi non poté esercitare un ruolo decisivo alla Costituente. D’altra parte a febbraio, nel corso del primo tempestoso congresso nazionale, per via di un scissione ne era nata la Concentrazione repubblicana democratica guidata da Ferruccio Parri e Ugo La Malfa (eletti alla Costituente), contrari alla “deriva” filo-socialista del partito. Questa ottenne 97.690 voti (0,43%) e poi confluì nel Partito repubblicano italiano, capitanato da Randolfo Pacciardi, massone e nettamente anticomunista.
Nel collegio di Torino-Novara-Vercelli i candidati del Pda più votati furono il regionalista Alberto Mario Rollier, Leopoldo Bertolé, Ada Prosperi Gobetti, Dino Costabello e Vittorio Foa. Lo scrittore Augusto Monti si collocò all’ottavo posto con 834 voti, 530 dei quali nel Torinese. Nel collegio di Cuneo-Asti-Alessandria prevalse Mario Andreis (candidato anche nella circoscrizione nord) con 3.512 voti, seguito da Bianco (1.839) e Felice Bertolino (1.125 voti, di cui 1.023 in provincia di Cuneo). Ad Asti e Alessandria Bianco contò appena 37 e 39 voti rispettivamente.
…e l’inattesa vittoria della monarchia nella terra dei Re
Il voto alle elezioni comunali dei principali centri del Cuneese era stato anche premonitorio. Nel referendum istituzionale la repubblica prevalse nettamente ad Alessandria (68,2%), la provincia un tempo socialista, poi fascista, poi repubblichina, poi più comunista che socialista. L’Alessandrino elesse Luigi Longo “Gallo”, esponente di vertice del PCI, e Antonio Giolitti, nipote di Giovanni, attratto da Togliatti nel partito che era ancora allineato sulle posizioni più staliniste d’Italia. La superò Novara, poco sotto a Vercelli e a Torino (58,3%). La sorpresa furono Asti, una provincia di recente costituzione, ove la monarchia prevalse di stretta misura, e soprattutto Cuneo che conferì alla monarchia il 56,2 % dei voti validi, contro il 43,8% alla repubblica e oltre 28.000 schede bianche.
La “Granda” è ampia quanto una regione. Va dal crinale alpino al Po e si spinge alle Langhe. Comprende i quattro antichi circondari di Cuneo, Mondovì, Saluzzo e Alba. Cinque diocesi: Alba, Mondovì, Saluzzo, Fossano, Cuneo (ultima nata) e l’arcidiocesi di Torino, che arriva a Bra, Savigliano, Moretta. Tante storie diverse nel corso dei millenni. Nei secoli non giunse mai a unificarsi davvero. Vi arrivò sulla soglia nell’età giolittiana. Non lo fu affatto nella Resistenza, che vi ebbe protagonista da un canto le valli, che vi contarono formazioni di Giustizia e Libertà e Garibaldini, dall’altro le Langhe e il Braidese con gli Autonomi di Mauri (nelle cui file si batté il monarchico Beppe Fenoglio) e di Icilio Ronchi della Rocca, e vari nuclei di varia ascrizione nella nebbiosa pianura, tra i quali alcune brigate GL.
Tra i grandi nodi incombenti nell’area liguro-piemontese nel 1946 vi era la pretesa francese di appropriarsi dei valichi alpini. I “fratelli latini” si erano spinti sino a Imperia, da dove sgomberarono per intervento personale del presidente degli USA, Harry Truman. Urgeva la ricostruzione delle infrastrutture, pesantemente danneggiate dalla guerra e quel tanto di riconciliazione o almeno di tolleranza indispensabile per riprendere il cammino. Per farlo occorrevano memoria e, al contempo, oblio. Bisognava dimenticare (o fingere di non sapere) che tanti nuovi “politici”, “intellettuali” (brutto nome per bruttissima cosa, scrisse Giosue Carducci, che distingueva tra studiosi e retori: una variante dei “preti”) e giornalisti avevano inneggiato niente meno che ai Protocolli dei Savi Anziani di Sion ripubblicati da un famigerato spretato. Così le nuove posizioni della “democrazia”, anche apicali, furono occupate anche da molti che erano stati iscritti al PNF (era il caso di Bianco stesso e del futuro sindaco di Cuneo, il democristiano Mario Dal Pozzo, sino a Giorgio Bocca).
Ma bisognava anche ricordare. Lasciata la Savoia nel 1860, la monarchia aveva scelto il Cuneese come “seconda culla”. Non solo per i castelli, ma perché lì Vittorio Emanuele III e la regina Elena, come i loro predecessori, incontravano familiarmente notabili e persone “comuni”. In quelle terre gli aristocratici non vantano titoli. “Lavoravano” come tutti, con il privilegio dei loro averi, s’intende, ma con la consapevolezza “sabauda” che nelle ore difficili non si può battere il piede per vederne scaturire militari (lo ricordò Bianco in presenza di Einaudi) se non c’è quel legame antico e perenne. Lo spiega bene Oreste Bovio nel saggio sulla “Milizia paesana”.
Da quel passato niente, affatto dimenticato, il 2-3 giugno 1946 nacque il voto della Granda a favore della continuità. L’analisi del risultato elettorale documenta che i partiti dichiaratamente monarchici alla Costituente ebbero consensi nettamente inferiori a quelli ottenuti al referendum. La stessa mano che per la Costituente votò per la Democrazia Cristiana, i cui vertici anche nel Cuneese erano dichiaratamente repubblicani, al referendum votò monarchia. Perché retrograda o perché prudente? Oggi qualcuno afferma che il verdetto era scritto nella “guerra partigiana”. Le urne dissero altro. Per Casa Savoia si pronunciarono ad altissima maggioranza le Langhe, la pianura e anche molte valli. I dati pubblicati dall’Istat non lasciano dubbi. A Busca la monarchia ebbe il doppio dei voti della repubblica. La superò nettamente a Dronero, non dimentica dei Soleri, di Giolitti e di Einaudi, tutti valmairini. Salendo per quella valle si rileva che la repubblica prevalse di misura ad Acceglio e nettamente a Melle ma fu sonoramente sconfitta a Marmora e Prazzo. Avevano vissuto storie diverse nei due anni della RSI. Alcuni teatro di rappresaglie tedesche e repubblichine. Altri in una quiete densa di ansie, in attesa fiduciosa del Re, sinonimo di ordine. La monarchia perse di pochissimo a Borgo San Dalmazzo ma prevalse a Caraglio. Lo stesso accadde a Entracque, ove il rupestre e solare “Aldone” Quaranta, cugino di Bianco e comandante della I Divisione GL, propugnava l’Italia come federazione di repubbliche autonome. Utopia? Riteneva che quella fosse la via maestra verso un’Europa di pace. La storia gli dette torto. Ma non è detto che la storia abbia ragione. Lo vediamo. A Valdieri, la terra di Dante L. Bianco della palazzina di caccia di Vittorio Emanuele II la repubblica prevalse di stretta misura: 755 contro 516 e 76 schede bianche. A Dogliani la monarchia doppiò i voti per la repubblica. L’elenco potrebbe continuare. A parte Cuneo, in tutte le città principali della “Granda” prevalse la monarchia, ovvero la continuità. Che non voleva dire immobilismo. Lo Statuto albertino era stata la prima costituzione a garantire in Italia la libertà dei culti non cattolici e l’uguaglianza dei cittadini dinanzi alle leggi a prescindere da titoli e gradi. E l’età giolittiana aveva portato all’ampliamento della partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Nei paesi si diceva “è una repubblica” per significare confusione e litigi.
Poi la Democrazia cristiana impegnò una guerra a fondo non contro i comunisti, che nella Granda contavano poco o niente, né contro gli azionisti, ormai fuori orizzonte, ma contro i liberali. “Cuneo area depressa” fu anche frutto di un cambio di dirigenza la cui storia va approfondita. Tornò l’antica polemica contro il “Risorgimento scomunicato” di cui scrissero pagine indimenticabili Vittorio Gorresio e Alberto Aquarone.
È ora di ricordare tutto
Molto tempo è passato da allora. Siamo alla vigilia dell’Ottantesimo di quegli eventi. Motivo in più per occuparsene “sine ira et studio”. Ma le istituzioni pubbliche faranno la loro parte o continueranno a ripetere sermoni “a orecchio”? Certo nel Cuneese i monarchici furono antifascisti. Manca poco. Forse l’ora sta passando o è già passata. Chi sa, sa anche che occorrono secoli prima che la verità dei fatti venga compresa. Come fecero Bianco, Panfilo e quanti dopo la “grande vacanza” della guerra partigiana vissero in sofferta solitudine.
Aldo A. Mola
12 febbraio 1939. Achille Starace, massone, segretario del PNF, accolto a Cuneo dal Federale Antonio Bonino, dal generale Angelo Tua e dal senatore Tancredi Galimberti, padre di “Duccio”.
Dinnanzi al Campo Sportivo un manipolo di giovani (uno dei quali, secondo da destra di chi guarda, futuro comandante partigiano) gli rendono omaggio in camicia nera (da Aldo A. Mola, “Giellisti. Dalla Resistenza armata all’impegno civile”, Cuneo, Cassa di Risparmio di Cuneo, 1997, p.161). Più trombe che armi.
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