Torino, Roma l’Italia (di Aldo A. Mola)
Il Re che sperava in una Sinistra duratura
Alle ore 11 di mercoledì 9 gennaio 1878, dopo cinque giorni di notizie ufficiose e di bollettini medici dai toni alterni, Lorenzo Bruno, (Murazzano, Cuneo, 1821-1900), senatore da due anni e archiatra di corte, consigliò che a Vittorio Emanuele II venisse amministrato il viatico della buona morte. Seduto sul letto della sua camera spartana, il Re respirava a fatica, alternando brividi e sudori.
Ma anche il “suo” governo e le camere erano in affanno. Il 25 marzo 1876 aveva conferito la presidenza del Consiglio ad Agostino Depretis, già ministro fidato, che varò il primo governo “di sinistra”, quindici anni dopo la proclamazione del regno (1861). Prima di lui si erano susseguiti i governi presieduti da Giovanni Lanza e da Marco Minghetti: tre anni a testa. Re Vittorio era convinto che la nuova compagine sarebbe durata a lungo. Per rincalzarsi, Depretis ottenne lo scioglimento della Camera. Le elezioni furono “gestite” dal ministro dell’Interno Giovanni Nicotera, massone, scampato nel 1857 all’annientamento della spedizione capitanata da Carlo Pisacane (“eran trecento, eran giovani e forti…), massacrata a Sezze, presso Sapri, dai contadini che li ritennero banditi anziché patrioti. Usando metodi sbrigativi, Nicotera ottenne ampio successo, ma il governo uscì dilaniato dalle divisioni. Non vi era “una” ma “diverse” sinistre. L’Estrema aveva un piede alla Camera e uno nelle organizzazioni extraparlamentari: leghe, associazioni e reti cospirative in parte ancora mazziniane. Il romano “Circolo dei Diritti dell’uomo”, vivaio di grandi maestri del Grande Oriente e di influenti politici, come Felice Cavallotti, e futuri ministri, attende la narrazione rivelativa della sua azione “coperta”.
Il 26 dicembre Depretis formò il suo secondo ministero. Durò pochi mesi. Il 24 marzo 1878 si insediò il suo successore, Benedetto Cairoli, esponente del patriottismo garibaldino. Chiamò al governo il bresciano Giuseppe Zanardelli, capofila della sinistra democratica, fautore dell’irredentismo, il dalmata Federico Seismit-Doda, lo storico della letteratura italiana Francesco De Sanctis, schierato con la Sinistra Giovane, Benedetto Brin, artefice della flotta, Alfredo Baccarini ai Lavori Pubblici e il giureconsulto Enrico Pessina all’Agricoltura: tutti alti dignitari della massoneria, Istituzione sempre più influente, ma appena sfiorata da Cairoli.
Vittorio Emanuele II fece del suo meglio per incoraggiare la nuova maggioranza della Camera. Utilizzò la nomina di senatori, d’intesa con i governi che si susseguivano. In Senato entrarono esponenti della tradizione garibaldina e del Terzo Partito: Achille Rasponi, Vincenzo Sprovieri, Angelo Bargoni, Giuseppe Manfredi, il fisiologo Paolo Mantegazza e il materialista Jacopo Moleschott, nettamente sgraditi alla Chiesa che li considerava assatanati e li dipingeva persino come pornografi. Più assidui alle sedute rispetto a senatori più anziani e lontani da Roma, i nuovi “patres” avevano il compito di spostare a sinistra gli umori della Camera Alta, diffidente nei confronti di riforme senza copertura finanziaria. Tuttavia, come vedremo, neppure Cairoli durò. Il suo esecutivo era un coacervo di gruppi in contrapposizione costante, preoccupati di non perdere il contatto con il proprio vasto seguito ancora escluso dal diritto di voto, rimasto riservato privilegio di una cerchia ristretta di cittadini, perché la legge elettorale era più o meno quella promulgata nel regno di Sardegna nel 1848.
Depretis verso l’ignoto: la morte e i funerali del Re
Il 12 dicembre 1877 il gruppo presieduto dal radicale Agostino Bertani dichiarò sfiducia al governo Depretis, che “non ha compreso e molto meno attuato il principio della vera libertà” e, “saldo nella sua fede democratica, si costituì in partito separato”. Dopo un incontro tra Cairoli e Quintino Sella, esponente della Destra ma sempre in dialogo con la Sinistra, al termine del pranzo offerto il 16 dicembre dal principe ereditario Umberto a ministri, presidenti delle Camere e prefetto di Roma, il governo annunciò le dimissioni. Il 27 dicembre Depretis fu incaricato per la terza volta di formare il Ministero. Tenne per sé gli Esteri e in un giorno formò la nuova compagine con Francesco Crispi all’Interno. Alla Giustizia andò Pasquale Stanislao Mancini, strenuo fautore della totale separazione tra lo Stato la Chiesa, e alle Finanze Agostino Magliani. L’enigmatico Crispi, massone di lungo corso, era il nome di punta del nuovo governo.
Appena insediato il suo secondo Ministero Depretis si trovò alle prese con l’imprevisto: la malattia del re, la seconda dopo quella del 1869, quando, sembrando in punto di morte, sposò con matrimonio morganatico Rosa Vercellana. All’inizio del gennaio 1878, al rientro a Roma da una battuta di caccia nelle sue valli piemontesi, ammalato di bronco-polmonite, in pochi giorni il Re si aggravò. La Relazione ufficiale dà conto delle sue ultime ore e dell’amministrazione del Viatico da parte del Cappellano di corte Valerio Anzino, che a sua volta scrisse una Relazione studiata da Aldo G. Ricci. Era l’1:30 pomeridiana del 9 gennaio 1878. Il reverendo fu preceduto dal principe ereditario e dalla principessa Margherita sua sposa e seguito dai dignitari apicali di corte, dai ministri, inginocchiati, compreso Mancini, e dal commendator Nicola Aghemo, cognato di Ludovico Frapolli, già gran maestro del Grande Oriente d’Italia. Depretis, piangente a dirotto, più che inginocchiato era disteso per terra. Il re salutò tutti con cenni. Poi reclinò il capo. Alle 2:30 cessò di vivere.
Da quel momento il governo iniziò un viaggio verso l’ignoto. Che cosa fare? Riunito d’urgenza, esso proclamò re d’Italia Umberto, che lanciò il proclama: “Il vostro Re è morto. Il successore vi proverà che le istituzioni non muoiono”. Il 10 gennaio iniziò l’imbalsamazione della salma e venne rogato l’atto di morte con due errori marchiani. Vi si leggeva che il sovrano defunto era nato a Firenze, anziché a Torino, ed era figlio di una Asburgo di Toscana anziché d’Austria. Il problema più assillante era però la sua sepoltura. Il giorno 12 il “consiglio di Famiglia” deliberò la tumulazione al Pantheon. Però, come ha ampiamente documentato Tito Lucrezio Rizzo in “Il clero Palatino tra Dio e Cesare. Profili storico giuridici” (Roma, “Rivista Militare”, 1995), malgrado l’assenso di massima da parte di Pio IX, purché la cerimonia non avesse carattere politico, la soluzione fu a lungo vagliata nei colloqui del Cappellano Anzino con l’altra riva del Tevere. Proprio il 10 gennaio, presentendo la propria fine, il pontefice emanò il “Regolamento da osservarsi dal S. Collegio (Cardinalizio) in occasione della vacanza della Sede Apostolica”. Alcuni cardinali ventilavano la convocazione del Conclave non a Roma ma a Vienna, ad Avignone o addirittura a Malta. Mentre assicurò che il governo avrebbe garantito massima libertà al Conclave, Crispi fece sapere in via riservatissima che in tal caso sarebbe stato difficile per il nuovo pontefice, eletto all’estero, entrare in Roma, “conquista intangibile” della Nuova Italia. Sempre tramite Anzino vennero anticipati a chi di dovere i “cartigli” che avrebbero accompagnato il feretro. I funerali ebbero luogo il 17 gennaio, in forma solenne e senza alcun disturbo.
Mentre alcuni confidavano di porlo al centro del Tempio, per l’opposizione del Vaticano il feretro fu collocato in via provvisoria nella cappella sulla destra dell’ingresso del Pantheon, in attesa del monumento che nel 1884 lo celebrò, qual è, “Padre della Patria”.
I Veterani delle patrie battaglie per la guardia alla tomba del Re
Chi non rimase con le mani in mano furono i veterani delle guerre patriottiche. La loro lunga e interessantissima storia è documentata per la prima volta nel poderoso volume di Alessandro Liviero “Le origini della Guardia d’Onore alle Reali Tombe del Pantheon, 1859-1878” (BastogiLibri, 2024).
La Guardia d’Onore è ora Istituto Nazionale in linea con la Costituzione dello Stato d’Italia, anche se il suo statuto risulterebbe un po’ datato perché suoi organi direttivi vengono più nominati “ad nutum” che eletti dagli associati. Nacque il 28 luglio 1878 quando il Comitato principale romano dei Veterani del 1848-1849 si raccolse a Roma nell’ex convento della Missione, deliberò di assumere la guardia della tomba del Re Vittorio Emanuele e dette mandato al Consiglio direttivo di fare le pratiche necessarie. Il 29 luglio il torinese Consiglio generale dei Veterani rese omaggio alla tomba di Carlo Alberto recandosi a “Soperga”. Roma era Roma, ma i comitati e sotto-comitati locali continuarono a svolgere la funzione che da oltre un quindicennio avevano fatta propria: ricordare. Ma non per sé soli. Né solo come tributo ai caduti. Bisognava tener vivo lo spirito del Risorgimento, della “tempesta magnifica” che in un decennio aveva condotto all’unificazione dei “popoli d’Italia” dopo decenni di cospirazioni, moti, insurrezioni e guerre nelle quali confluirono nella “parte giusta” l’Esercito e l’Armata del re di Sardegna i volontari, mazziniani, garibaldini, senza una precisa matrice o classificazione “ideologica” ma accomunati dall’“idea d’Italia”. Essa arrivava dai racconti e, va ricordato, anche dall’entusiasmo suscitato dall’elezione di Pio IX, creduto e celebrato quale campione della Nuova Italia. Un evento niente affatto episodico se persino Giuseppe Mazzini in una “lettera aperta”, rimasta ovviamente senza risposta, come quella nel 1831 indirizzata a Carlo Alberto di Savoia, gli propose appunto di assumere la guida di un’Italia libera da giogo straniero.
La sterminata ricerca documentaria raccolta da Liviero mette in evidenza la forza dei Veterani, presenti nei siti più disparati, a cominciare dal Vecchio Piemonte, e sempre pronti alle sollecitazioni dei loro presidenti, quali il marchese Salvatore Pes di Villamarina ed Emanuele Chiabrera, che li riorganizzò e sostituì i due vicepresidenti in carica, Giuseppe Garibaldi e Raffaele Cadorna, con Alfonso La Marmora ed Enrico Cialdini. La sua fu una “manovra” non occasionale. Costituì un tacito invito a lasciare alle spalle le divisioni delle due anime del Risorgimento. Entrambe avevano fatto e fatto bene. Ma ormai l’Italia doveva guardare avanti, all’insegna dell’unità, come spiegò Giosue Carducci. Erano stati carbonari e massoni a volere che Re Vittorio lasciasse la sua terra lontana e, dopo le note traversie, giungere e rimanere a Roma, in quel Palazzo del Quirinale nel quale non si riconosceva ma si rassegnò a vivere perché così voleva la Storia: un esempio seguito specialmente dal nipote, Vittorio Emanuele, principe di Napoli (1869-1947), futuro Vittorio Emanuele III, che preferì la quiete di Villa Ada, ribattezzata “Savoia”, e a Palazzo andava perché lì era il suo Ufficio.
Pietro Galateri di Genola, presidente dei Veterani
Tra i molti personaggi ampiamente “narrati” da Liviero spicca Pietro Galateri di Genola, “colonnello in ritiro”. Il 2 novembre 1874, dopo anni di presidenza, datò un brevissimo messaggio ai “bravi Veterani delle patrie battaglie” pubblicato dalla “Gazzetta del Popolo” di Torino, diretta da Giambattista Bottero, uno degli artefici principali della coscienza degli italiani: “Una grande sventura domestica mi costringe a separarmi da Voi, cari miei antichi commilitoni. Amatemi pel bene che ho cercato di farvi, e qualche volta pensate al già Vostro presidente”. Solo anni dopo, annota Liviero, si scoprì che Galateri sapeva di essere inguaribilmente malato. Quando ne fu consapevole, si congedò dal “servizio. Morì due anni dopo, nella solitudine in cui preferì avvolgersi. Rimane tra i protagonisti meno noti e nondimeno fattivi negli anni decisivi per l’Italia. Il suo burbero “auto-ritratto” merita attenzione. Già presidente della Commissione per la Medaglia commemorativa dei Veterani e autore di un opuscolo nel quale propose un premio “a quel bass’ufficiale o soldato dell’esercito italiano che nelle prossime battaglie dell’indipendenza nazionale sarà fregiato per il primo della Medaglia d’Oro al valor militare”, acclamato presidente, Galateri finì per rinunciare alla carica. Come annota Liviero, non volle trasformare i comitati dei Veterani in una delle molte Società di mutuo soccorso, a differenza di quanto fecero i garibaldini. Il 25 agosto 1874 lasciò la presidenza con un messaggio crudo: “A scanso di equivoci, vi prevengo, bravi e cari Commilitoni, che rinunzio alla Presidenza del Comizio testé formatosi in una riunione-banchetto di 29 persone, e che pretende per ciò di rappresentarci tutti noi, con un indirizzo ben diverso da quello da noi lealmente perseguito pendente 12 anni”.
Per comprenderne il carattere va ricordato che Pietro Galateri era il primogenito di Annibale, conte di Genola e Suniglia (Savigliano, 1761-1840), solitamente ricordato per la dura repressione dei mazziniani ad Alessandria nel 1831 e per il trattamento spietato riservato ad Andrea Vochieri e non sempre come Cavaliere della SS. Annunziata e quindi “cugino del Re”. Aveva un passato complesso. Dal Piemonte, dopo la fallita offensiva austro-russa e la sua annessione alla Francia, nel 1800 si trasferì in Russia e vi conobbe l’avvenente moglie di un tenente degli ussari, Anna Ivanvna Cerneeva, di piccola nobiltà e più giovane di quindici anni. Dalla loro relazione nel 1801 nacque Giuseppe, che prese nome di Suniglia. Nel 1806 Annibale sposò Anna, rimasta vedova, con rito sia cattolico sia ortodosso. Dopo il matrimonio, che permise la legittimazione di Giuseppe, nacque Pietro. Entrato nella carriera militare nel 1827, questi ne uscì una prima volta nel 1857 con il grado di maggiore, dopo aver combattuto nella guerra di Crimea. Il 10 maggio 1859 prese servizio nell’esercito della Toscana con il grado di luogotenente colonnello. Raggiunse quello di colonnello alla fusione del toscano nell’esercito italiano. Nel 1861 fu assegnato al comando della Piazza di Teramo, ove si condusse con rigore nei confronti degli anti-unitari e dei “briganti”. Richiamato a Torino nel luglio 1861, lasciò definitivamente il servizio dopo 34 anni, due mesi e due giorni. Fece ricorso contro le mancate promozioni e perse la causa, ma il suo entusiasmo per i Commilitoni non venne mai meno. Nel 1862 pubblicò un libretto “Briganti- Partiti e Vittime. Ossia di chi è la colpa?” (Savigliano, tipografia Racca e Bressa). Una rarità assoluta, di cui si è valso Liviero nella sua ricca opera.
La nascita della Guardia d’Onore compì uno dei “miracoli” scaturiti dall’emozione suscitata dall’improvvisa morte di Vittorio Emanuele II: l’unificazione tra diverse correnti di patrioti che si erano battute, nelle file degli eserciti pre-unitari e nella vita civile, per la Nuova Italia. La vita “politica”, nondimeno, come abbiamo veduto rimase agitata. Il 6 marzo Francesco Crispi si dimise per l’accusa di bigamia, lanciata da alcuni giornali. Fondata? Infondata? Per difendersi non gli rimase che lasciare la carica. Con lui cadde il governo e alla presidenza salì Cairoli, che però durò solo nove mesi. Dopodiché fu di nuovo la volta di Depretis.
La Sinistra, un caleidoscopio non sempre dotata di senso dello Stato, non aveva affatto garantito la stabilità di governo auspicata da Vittorio Emanuele II nel marzo 1876. Per buona sorte dell’Italia i governi passavano, i re rimanevano. Ma la strada della Nuova Italia rimase in salita.
Aldo A. Mola
Il ministero Depretis sormontato dallo Stellone d’Italia: un simbolo polivalente, militare, massonico e anche mariano. Il volume di Alessandro Liviero viene presentato nella Pinacoteca Sismonda-Casa Bonino a Torre San Giorgio (Cuneo) alle 21 di mercoledì 25 settembre. Con l’Autore intervengono Giovanni Rabbia, Alessandro Mella e Branca Lore Muller, presidente della Associazione “Libertas”, promotrice dell’incontro con adesione di Guardie d’Onore alle Reali Tombe del Pantheon.