Verso il totalitarismo della conoscenza
Ci sono frasi piccole e grandi, vere, verosimili o palesemente false, che in qualche modo hanno contribuito a costruire la nostra identità storica (guai ai vinti!), la nostra identità filosofica (cogito ergo sum), la nostra identità letteraria (essere o non essere?), la nostra identità popolare (chi vuol esser lieto, sia!), e perfino la nostra identitaria stupidità (non hanno pane? mangino brioches!)
Oggi, la frase molto più inquietante che potrebbe essere presa a simbolo della nuova era che incombe su di noi è questa: “Unless you hear it from us, it is not the truth. Dismiss anything else. We will continue to be your single source of truth” (se non lo senti da noi, non è la verità. Ignora tutto il resto. Continueremo ad essere la tua unica fonte di verità).
Se non lo senti da noi, non è la verità: può sembrare l’esternazione di uno psicopatico bisognoso di cura, invece è il tweet del primo ministro neozelandese, tale Jacinta Ardern, messo in rete nei giorni scorsi a margine del G 20 di Bali.
Ora, ben pochi sanno chi è questa signora, e sicuramente lo dimenticheranno presto, tuttavia bisogna ricordare che si tratta di un capo di governo, un governo minimo e insignificante sullo scacchiere mondiale, ma comunque rappresentativo di uno stato di cui la signora può spendere il nome. E la cosa agghiacciante che ha detto ha una sua drammatica rilevanza, non essendo certo una battuta da bar.
La signora Ardern poi -e non è un dettaglio da poco- appartiene a quel gruppo di giovani politici che va sotto il nome diYoung Global Leaders creato da Klaus Schwab nell’ambito del World Economic Forum, una privatissima organizzazione che si è fatta carico di resettare il mondo senza che nessuno glie l’abbia mai chiesto.
Dire che “se non lo senti da noi, non è la verità” può far inorridire qualunque persona normale e razionale, ma per loro è una semplice, innocua, evidente e incontestabile verità che può essere negata solo da una sub-umanità decerebrata come la nostra.
Quello che fa paura, in un’affermazione del genere, sono due aspetti. Il primo è che chi la espone non si ponga neppure il problema della sua demenzialità, e probabilmente ci creda veramente. Il secondo è che quella non è gente qualunque ma appartiene all’oligarchia dominante -nella specie si tratta di un capo di governo- e questo rappresenta un pericolo non solo per qualunque idea tradizionale di democrazia così come l’abbiamo conosciuta sino ad ora, ma anche per la sicurezza del mondo e della nostra vita, se per vita si intende una vita libera.
Una piega veramente inquietante che sta prendendo la nostra civiltà è costituita da quella che potremmo chiamare “violenza comunicativa”, una violenza che, nella maggioranza dei casi, non ha ancora assunto l’aspetto della violenza fisica (anche se fatti molto recenti ci hanno posto dinanzi agli occhi la repressione delle idee a suon di manganellate) ma quello di una violenza prima concettuale e poi verbale, che i mezzi di comunicazione hanno dispiegato con modalità che definire fasciste non sembra inadeguato.
L’ossessiva propaganda omosessualista e gender, la narrazione antirazzista e migratoria, l’ossessione covidaria e vaccinale, la crisi ucraina, l’indottrinamento ambientalista, la cancel culture non hanno fatto altro che consolidare un modo di fare comunicazione -non usiamo intenzionalmente il termine “informazione”, assai più nobile- che è apparso subito violento, intollerante, propagandistico, asservito, diretto a imporre una visione delle cose totalmente unilaterale e quasi sempre inaffidabile.
Questo, nonostante la stragrande maggioranza delle persone lo percepisse proprio come tale, e lo contestasse però solo dove era possibile, e cioè privatamente, in famiglia, nelle piccole e piccolissime realtà associative, nell’informazione di nicchia data da certi social media o da siti internet alternativi, tante piccole Radio Londra che però non avevano e non hanno la potenza di fuoco dei grandi media conformisti.
Che cosa c’è dietro questo disegno che moltissimi percepiscono, appunto, come un disegno, un progetto, un tentativo potente di cambiare la concezione del mondo di un’intera civiltà?
I casi sono due. O dietro tutto ciò esiste una nuova e sincera visione della realtà -sostanzialmente vera nei presupposti e nell’analisi e condivisa dalla grande maggioranza delle persone- e quindi questo sforzo è condivisibile, apprezzabile e da supportare con forza, oppure si tratta di un gigantesco tentativo di creare un état d’esprit mondiale finalizzato a un cambiamento epocale voluto da poteri, soprattutto economici, ormai senza frontiere e dotati di mezzi sconfinati.
Fino a qualche tempo fa la seconda ipotesi era ovviamente definita “complottista” dalle persone di mezza cultura, fedeli seguaci televisivi e cartacei del giornalismo serioso, ma oggi qualcosa sta cambiando: il dubbio, come un lombrico nel terreno, sta lavorando in profondità ma qualche volta affiora in superficie.
Si sta cioè affermando l’idea che il mondo non cammini totalmente a caso, ma che la globalizzazione, attraverso i suoi protagonisti pubblici e privati, stia tessendo una trama ben precisa. Dopo i lavori di Galli e Caligiuri (2017-2020), è approdato in libreria Il sistema (in)visibile di Marcello Foa (Guerini e associati, 2022) dove i temi di questo dilagante potere mondiale sono ben esposti e fanno onore all’esplicito sottotitolo: perché non siamo più padroni del nostro destino.
In fondo basta pensare al più ossessivo e invadente fra i temi mondialisti che ogni giorno ci vengono proposti fino allo sfinimento: l’emergenza ambientale dovuta al riscaldamento antropico. A parte il fatto che una consistente fetta di scienziati non è per nulla d’accordo su questa ipotetica emergenza e sulle sue cause, a nessuno viene in mente come dietro ad essa non ci siano i colossali interessi economici di un capitalismo finanziario che, esauriti gli impieghi manifatturieri per semplice saturazione mondiale dei mercati, è in cerca di nuove occasioni di investimento?
Come non pensare che i grandi fondi internazionali, che maneggiano migliaia di miliardi di dollari e di euro, con un immenso potere non solo economico ma anche comunicativo, non abbiano indirizzato molte loro risorse alla creazione di una promettente emergenza ecologica, con susseguente e lucrosa ristrutturazione ambientale su scala mondiale?
E ancora, come non pensare alle enormi opportunità di profitto che discendono dal commercio internazionale dei crediti di carbonio (gestiti in gran parte da quei fondi) conseguenti ai protocolli di Kyoto del 2005 e agli accordi di Parigi del 2015? Possiamo escludere che non ci sia tutto questo dietro lo sguardo imbronciato di Greta Thunberg e le colorate manifestazioni ambientaliste degli studenti nelle piazze del mondo?
Ma tutto ciò non ha importanza per la signora Ardern, che vuole essere la nostra unica fonte di verità, come ha scritto, con un atteggiamento che lascia senza parole. Ma non perché lei non ammette altre parole oltre le sue, ma solo perché siamo ammutoliti dinanzi a tale mancanza di istruzione, di intelligenza e di rispetto, non tanto verso di noi, che forse dal suo punto di vista non lo meritiamo, ma verso alcuni millenni di cultura occidentale che si estendono dalla dialettica socratica, al dubbio metodologico cartesiano fino all’epistemologia popperiana.
Se poi non sa che cosa tutto questo significhi, sono problemi suoi.
Ci lasci però almeno il diritto di difenderci da gente come lei, anche con qualche metodo brutale, come in tutte le vecchie e sacrosante rivoluzioni liberali.