Dalla democrazia dei partiti a quella dei “club che contano”.
Ci sono libri che, quando li leggi, comprendi sin dalle pagine iniziali che possiedano la capacità di cogliere con esattezza e acutezza la realtà che analizzano. Altri, magari pur ben scritti e argomentati, girano inutilmente a vuoto. Tra i primi, è possibile annoverare “Il Sistema (in)visibile. Perché non siamo più padroni del nostro destino” (Guerini e associati, 2022) di Marcello Foa: giornalista, docente di comunicazione all’Università Cattolica di Milano e all’Università della Svizzera italiana, nonché presidente della Rai dal 2018 al 2021.
Fra i passaggi che Foa coglie con perspicacia vi è quello legato ai “club che contano”, quali il World Economic Forum di Davos e – aggiungiamo noi – il Club Bilderberg che, a partire dalla caduta del muro di Berlino, hanno incrementato il loro ruolo strategico nel determinare l’agenda politica mondiale e, a cascata, quella delle differenti nazioni.
Volendo allargare l’analisi storica rispetto a quella presa in esame da Foa appare pacifico che la politica italiana (e, in generale, quella degli stati europei non soggetti a regimi comunisti, pur con le dovute eccezioni come nella Spagna di Franco) dalla fine della Seconda guerra mondiale sino al tracollo di comunismi (1989-‘91) fosse principalmente imperniata sul ruolo e la funzione dei partiti.
In sintesi, in quegli anni per acquisire ruoli di governo pubblico occorreva iscriversi a un partito politico, accreditarsi presso le rispettive lobbies amiche (la chiesa per la D.C., la C.G.I.L. per il P.C.I., il mondo industriale per i liberali, etc.) e, soprattutto, raccogliere tante preferenze personali: dunque voti.
Ne seguiva la necessità di conoscere gente e stringere mani, aprendo sezioni locali, organizzando incontri, instaurando relazioni con i sindaci del territorio, frequentando eventi e ricorrenze.
Così strutturati, i partiti erano macchine complesse che coinvolgevano migliaia di persone e che contemplavano congressi e assemblee, nonché associazioni, sindacati e mezzi di informazione “di area”, o di diretta emanazione del partito stesso. Non a caso, gli studiosi, per meglio farne comprendere la natura, chiamavano questi partiti “di massa”.
Inoltre, per un verso, i partiti fungeva da filtro tra le istanze popolari e dei differenti territori (che, specialmente attraverso i parlamentari, venivano veicolate a Roma) e, per altro verso, diventavano strumento di selezione della classe di governo, prevedendo – di norma – una trafila che, dalla gestione degli enti locali, in qualche caso portava a sedere in Parlamento o in qualche altro organo istituzionale.
Tuttavia, come si è detto, venuta meno la maggior parte dei regimi comunisti, il mondo si è trovato sotto l’uniforme mantello del capitalismo e il ruolo (almeno per una quindicina d’anni) egemone degli U.S.A..
Anche le tecnologie si sono evolute. In particolare, l’avvento di internet ha permesso di spostare informazioni a distanza di migliaia di chilometri in tempo pressoché reale.
Pure l’economia si è globalizzata (in buona parte grazie a un processo frutto di una voluta strategia) a principale vantaggio delle grandi multinazionali, le uniche capaci di muovere capitali immensi e agire su scala planetaria.
In un simile contesto anche la politica non poteva che subire dei cambiamenti.
Volendo circoscrivere l’analisi all’Italia, scioltosi il P.C.I. quale conseguenza del crollo del muro di Berlino, la classe dirigente e le stesse strutture dei partiti di governo della c.d. “prima repubblica” (in particolare, D.C. e P.S.I), messi sotto impetuoso attacco dall’inchiesta giudiziaria di Mani Pulite, si sono liquefatti.
Contestualmente è mutato il modo di far politica: non più nelle piazze o tra la militanza, ma principalmente attraverso la televisione e i social.
Così, come hanno colto diversi studiosi – tra cui Mauro Calise – i “partiti di massa” si sono trasformati in “partiti personali”. Emblematica, in tal senso, è la nascita di Forza Italia, ideata e guidata con modalità assunte dal mondo imprenditoriale dal suo leader Silvio Berlusconi.
Ma a prescindere da Berlusconi, quasi tutti i partiti sono diventati “personali”: dall’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro a Italia Viva di Matteo Renzi, dalla defunta Scelta civica di Mario Monti ad Azione di Carlo Calenda, da Fratelli d’Italia indubbiamente legata a Giorgia Meloni alla Lega che, già nel nome, da Lega Nord è diventata “Lega per Salvini premier”.
Ciò con ogni conseguenza.
I partiti hanno perso iscritti (tracollati dagli oltre 4.600.000 del 1972 a circa 1.000.000 nel 2020), non a caso riducendo la propria capacità organizzativa e di raccolta delle istanze di cittadini e territori. Inoltre, abolite le preferenze elettorali, oggi fare carriera non è più tanto legato alla capacità di attrarre voti, o di sapere ben gestire la “cosa pubblica”, quanto alla fedeltà al capo di partito da cui ogni cosa dipende.
E mentre i partiti depotenziavano la loro centralità nell’essere “cinghia di trasmissione” tra governanti e i governati, altri “soggetti” riempivano quel vuoto di potere: come ricorda Foa, le grandi istituzioni internazionali (dal Fondo Monetario Internazionale alla Banca Mondiale, dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico al World Trade Organization) e i “club che contano”.
Intendiamoci, non che avanti il triennio 1989-’91 questi enti e club di matrice sovranazionale non esistessero e contassero. Esistevano e contavano eccome. Però erano in larga misura riequilibrati da una “democrazia dei partiti” che, pur con i suoi difetti (e ne aveva), fondava il proprio potere in primo luogo sul voto – e quindi sui “desiderata” – degli elettori.
All’opposto, nell’ultimo trentennio le “linee programmatiche” vengono, più che ancora decise nei Parlamenti e nei Governi, prese nelle istituzioni e nei circoli internazionali che “contano”.
Foa coglie con acutezza e spiega molto bene questo passaggio, citando – fra gli esempi – il ruolo centrale che assumono il Council on Foreign Relations (con sede a Washington e che ha dato all’attuale amministrazione Biden “oltre la metà” dei suoi alti dirigenti), piuttosto che l’European Council on Foreign Relations o l’Atlantic Council e il Group of Thirty e, naturalmente, il World Economic Forum di Davos che riunisce oltre 3.500 persone tra i principali imprenditori, politici, scienziati, docenti universitari, giornalisti del pianeta.
Basti pensare che il Forum di Davos del 2021 ha visto, solo per citarne alcuni, la partecipazione di personaggi quali Angela Merkel – già capo di stato tedesco –, Emmanuel Macron – presidente della repubblica francese –, Pedro Sánchez – primo ministro spagnolo –, Benjamin Netanyahu – primo ministro d’Israele –, Christine Lagarde – presidente della Banca Centrale Europea –, António Guterres, segretario generale dell’ONU.
Al pari di quanto sottolinea Foa, queste organizzazioni non sono né “di destra né di sinistra” e “agiscono con spirito apolide e internazionalista, fedeli soprattutto alla rete a cui hanno il privilegio di appartenere” (p. 81). Attraverso la loro influenza economica e politica, essi elaborano l’agenda politica mondiale che poi, in larga misura, viene ripresa nelle scelte dei singoli stati.
Nella sostanza, e pur senza scalfire le “regole” e i principi formali della democrazia – per cui la sovranità appartiene al popolo –, i circoli internazionali che “contano” determinano una vera e propria “global governance” e un’élite mondiale del potere capace non solo di oltrepassare i confini nazionali e le relative barriere culturali, ma anche di indebolire (o, per i più pessimistici, di svuotare) le moderne democrazie rappresentative.
E se è ben vero che la “democrazia dei partiti” ante 1989 non era sovrapponibile alla “democrazia del popolo” perché, come ci ha insegnato Roberto Michels in quel capolavoro che è la “Sociologia del partito politico” apparso in italiano nel 1912, anche i partiti hanno natura oligarchica, certamente rappresentava qualcosa di maggiormente vicino al “popolo” di quello che oggi è un’infinitesimale ristretta élite mondiale del potere che, più che nei cittadini, poggia la propria capacità di dominio in essa medesima e nella possibilità di gestire influenze relazionali e immense disponibilità economiche, come dimostrano gli strabilianti giri di denaro che ruotano intorno alle Fondazioni “Clinton” e “Bill e Melinda Gates”.
Anche se poi, talvolta, non tutte le ciambelle escono con il buco, vedasi il recente insuccesso elettorale in Finlandia dell’ex premier Sanna Marin o i risultati da “prefisso telefonico” (per dirla con Umberto Bossi) del nostrano Matteo Renzi, entrambi vicini al World Economic Forum.
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