ANEDDOTI, MISTERI E VITE DISSOLUTE DEGLI ARTISTI TORINESI
Torino, città un po’ restia a mostrare le sue grazie, è stata meta di artisti e letterati che, dotati di una particolare sensibilità, sono stati attirati, probabilmente, dalla sua eleganza e dal mistero che da sempre la avvolge. Non per nulla i diari dei viaggiatori dei secoli passati citano le piazze, i viali alberati, e spesso anche le innovazioni tecnologiche e architettoniche che qui hanno fatto storia. Nel Medioevo, uno degli artisti di nascita torinese la cui fama è giunta sino a noi, è stato Giacomo Jaquerio, esponente della pittura tardo gotica piemontese, di cui rimangono alcuni affreschi nell’abbazia di Sant’Antonio in Ranverso, a Buttigliera Alta, in provincia di Torino. Della sua vita abbiamo numerosi documenti, amministrativi, come spesso accade, ma che fanno comprendere come il pittore, figlio d’arte, fosse molto apprezzato. Lo si vede percorrere spesso la strada che collega Torino a Ginevra, dove svolge lavori per Amedeo VII; c’è chi dice che sia una spia, ma forse questa diceria mal si accorda con gli ultimi anni della sua vita, quando si stabilisce a Torino e diventa, nel 1440, persino consigliere comunale. Era in ogni caso un uomo di carattere, se pensiamo che qualche anno prima aveva avuto il coraggio di testimoniare a favore del predicatore itinerante benedettino Battista da Mantova, ritenuto eretico. Spesso gli artisti, a causa della facilità di movimento che li contraddistingueva e alla possibilità di “origliare” segreti di corte, venivano usati come 007, ma non sapremo mai se quello di Jaquerio sia stato uno di questi casi.
Un po’ di tempo dopo, e precisamente nel 1622, a seguito della contessa d’Arendel, arriva in città niente meno che l’osannato Antoon Van Dick, precoce pittore che forse aveva studiato con Rubens (ma non esistono documenti che lo provino) ed instancabile viaggiatore, purtroppo morto a soli 42 anni. Amava l’Italia per l’arte che trasudava da ogni luogo, tanto che passò sei anni a visitare e copiare le opere dei grandi artisti, come Tiziano, che stimava in modo particolare. Fu un affetto reciproco e duraturo, anche l’Italia amò molto il pittore. Van Dick si trasferì a Londra, dove acquistò una dimora enorme, che divenne scenografia di feste incredibili, dove venivano sfoggiati nani, equilibristi e ballerine orientali. Con lui viveva l’amante più e più volte ritratta, Margaret Lemon, donna talmente gelosa da aver cercato, così si racconta, di mordere un dito al pittore, per costringerlo a non dipingere più le splendide donne che volevano assolutamente essere ritratte da un mito vivente.
Con un ulteriore salto temporale passiamo al 1700, dove un artista indiscusso ha lasciato numerose tracce del suo lavoro, in particolare nella Palazzina di Caccia di Stupinigi e nel Palazzo Reale di Torino: si tratta di Pietro Piffetti, ebanista, la cui famiglia aveva da sempre avuto rapporti con la lavorazione del legno (il nonno, ad esempio, era “maestro di bosco”). Carlo Emanuele III, nel 1731, aveva richiamato a corte il Piffetti, che nel frattempo si trovava a Roma, e gli era stato conferito il prestigioso incarico non solo di creare nuovi mobili, ma di manutenere e restaurare tutto il mobilio dei Savoia. Detto oggi non pare così incredibile, ma all’epoca i mobili erano ritenuti parte del tesoro famigliare, venivano tramandati di generazione in generazione e in particolare nelle famiglie altolocate, erano testimonianza del potere e del livello sociale. Piffetti era un artista innovatore, che amava sperimentare tramite l’utilizzo di materiali diversi tra loro, come la madreperla, l’avorio o la tartaruga, l’ambra o i lapislazzuli, alla ricerca di nuovi effetti di luce, giocando con le venature naturali del legno. È considerato il più importante ebanista in Italia.
Gli artisti che in qualche modo hanno avuto a che fare con Torino sono moltissimi e in particolare, se ci catapultiamo in periodi più vicini a quello attuale, gli aneddoti e le strane vicende s’intersecano: ad esempio qualcuno ricorda che Mario Lattes, nato nel 1923, è stato pittore e scrittore, oltre ad aver portato avanti la casa editrice creata dal nonno Simone nel 1893? I suoi lavori, onirici e intensi, erano particolarmente apprezzati. A Piero Gilardi si deve invece la versione torinese della Pop art, con i “tappeti natura”, realizzati in materiale sintetico (poliuretano espanso) che tanto successo hanno avuto negli anni ’60, e che denunciavano l’intervento dell’uomo sulla natura, tema più che mai attuale.
In un articolo sugli artisti torinesi non può mancare Lorenzo Alessandri, definito da Vittorio Sgarbi il “primo surrealista italiano”. Nato nel 1927. Alessandri ha vissuto per un periodo in via Saffi 15bis, in una soffitta detta “soffitta macabra” a causa dei disegni presenti sulle pareti, che presto divenne luogo di ritrovo per artisti e per appassionati di occultismo e paranormale. Qualche anno dopo, nel 1964, Alessandri è tra i promotori del gruppo “La Surfanta” (Subconscia Reale Fantastica Arte) che nasce per la necessità di concedere libertà all’arte, che non deve conformarsi, ma essere figlia della fantasia, prendendo spunto dai diversi mondi, attraverso i quali l’artista viene catapultato. Maurizia Cavallero ce lo descrive così: “Lorenzo Alessandri poi è stato abilissimo nel maneggiare tutte le tecniche, dall’incisione alla xilografia, dalla tempera all’acquerello; ha dato alle stampe anche tre libri. Ed è stato soprattutto un personaggio unico, paradossalmente magico nella sua versatilità, arricchendo così l’arte torinese di quel pizzico di fantasiosa trasgressione che probabilmente mancava”.
E per finire la nostra brevissima carrellata di artisti torinesi o che con Torino hanno avuto a che fare, ecco un’artista che ha trasgredito molte regole: Carol Rama. Mancata nel 2015, ha avuto un’intensa vita artistica, anche se la sua inquieta eccentricità l’ha portata a vivere la sua arte in solitudine, in quanto inizialmente era talmente fuori dagli schemi da allontanare anche quel mondo che di arte viveva. I temi da lei riproposti all’infinito sono altamente erotici, composti da donne e da organi genitali, da arti mancanti e mutazioni, falli e budella e il pieno riconoscimento della sua opera avviene solo nel 2003, con il conferimento del Leone d’oro alla carriera, durante la Biennale di Venezia. Carol Rama è stata una sperimentatrice coraggiosa, che più di ogni altro ha analizzato la propria interiorità, traducendola in arte: “Il lavoro, la pittura, per me, è sempre stata una cosa che mi permetteva poi di sentirmi meno infelice, meno povera, meno bruttina e anche meno ignorante… Dipingo per guarirmi.”. Con queste parole, tratte dal sito ufficiale dell’associazione Archivio Carol Rama, l’artista si definiva, con una buona dose d’ironia.
L’arte fa sentire meno infelici? Probabilmente riesce a lenire il dolore e aiuta quello che oggi si definirebbe “resilienza”, il processo di adattamento ai traumi e agli eventi della vita, ma quante volte abbiamo sentito dire che il processo artistico passa attraverso l’infelicità e la malinconia? Forse è proprio questo il motore che spinge l’artista ad esprimere qualcosa che possa modificare il suo stato interiore, creando così stupore e costringendo lo spettatore alla visione e alla riflessione.
Brava Katia!