
Un contributo di Roberto D’Amico
Le più antiche notizie sull’esistenza di fabbriche di ceramiche nello stato dei Savoia risalgono al 1560, quando il Duca Emanuele Filiberto chiamò a Torino alcuni maiolicari da Urbino e Faenza, senza però ottenere i risultati sperati.
Nel 1659 ci provò di nuovo Carlo Emanuele II, che con un editto concesse privilegio di esclusiva produzione e vendita ad una fabbrica sorta due anni prima al Regio Parco impiantata da Giovanni Giacomo Bianchi di Genova.
L’introduzione in Piemonte di una ceramica purissima a pasta compatta nota come porcellana si deve al pinerolese Giorgio Rossetti che nel 1737 propose a Re Carlo Emanuele III la fondazione in Torino di una “manifattura di porcellane fini e trasparenti”. Il sovrano gli concesse i privilegi e un prestito, ma la fabbrica sita in Borgo Po, della cui produzione è rimasto molto poco e di bassa qualità, chiuse nel 1743.
Una nuova manifattura di porcellane fu aperta nel 1765 ad opera di Francesco Birago, conte di Vische, il quale, ottenuta la privativa regia di fabbricazione, con il socio il torinese Giovanni Vittorio Brodel installò nel proprio castello gli impianti necessari. Dopo un solo anno di attività, per dissenso tra i soci, la società venne sciolta, anche se i pochi esemplari giunti fino a noi della “Fabbrica di Vische” rivelano una buona fattura.
Il Brodel volle ritentare l’impresa nel 1776 e questa volta si associò allo strasburghese Pierre Antoine Hannong, detto l’“arcanista”, termine con cui si indicavano allora gli esperti che studiavano i segreti delle terre da usare per la produzione della porcellana. Questi, pur essendo considerati un misto tra chimici e alchimisti, ai confini fra magia, scienza, tecnica e talvolta ciarlataneria, erano tuttavia ambitissimi presso le varie corti europee tutte tese nel cercare di primeggiare in questo ricco e ricercato ambito.
Re Vittorio Amedeo III, succeduto al padre nel 1773, accolse favorevolmente la richiesta del Brodel e, oltre a concedergli le Regie Patenti e i soliti privilegi ed esenzioni, gli accordò l’uso del castello trecentesco dei Della Rovere di Vinovo e il consenso di fregiarsi del nome e dello stemma reale. I prodotti dovevano portare la marca di colore blu turchino formata da una V sormontata dalla croce Savoia.
L’opificio, costruito a fianco del castello e dotato di ben cinque forni, entrò presto in attività con maestranze in parte straniere. La porcellana prodotta dalla «Reale Manifattura di Vinovo» in questo primo periodo era durissima, di ottima qualità ma un po’ giallognola. I soggetti preferiti di questa produzione erano gruppi pastorali e di caccia, scodelle, vasi, lattiere decorate con roselline violacee e fiori di campo a mazzo o sparsi, motivo che diventerà la caratteristica di inconfondibile riconoscimento.
Ancora una volta, dissapori tra i soci e una cattiva amministrazione portarono alla fine dell’impresa nel gennaio 1780. È a questo punto che compare sulla scena dell’arte ceramica piemontese colui che le avrebbe fatto vivere il suo momento più felice e glorioso: Vittorio Amedeo Gioanetti.
Di lui abbiamo un ritratto in una litografia di Felice Festa pubblicata nell’opera dell’avvocato Modesto Paroletti “Vita e ritratti di sessanta piemontesi illustri” del 1824.
Gioanetti nasce a Torino il 31 ottobre 1729. Nel 1757, sei anni dopo essersi laureato in medicina, viene aggregato con somma lode al Collegio di Medicina della Regia Università di Torino. Per 18 anni esercita la professione al Regio Parco tenendo contemporaneamente l’ufficio gratuito di Capo dell’Ufficio Protomedico.
Ritiratosi con una pensione di 150 lire annue, rivolge allora la sua attenzione alla materia di cui era appassionato e che aveva coltivato per anni, la Chimica, scienza allora nuova e ancora confusa nella pratica e nella percezione con l’alchimia, tanto che non ne esisteva una cattedra e non veniva insegnata neppure in privato.
Di ceramica, in particolare, Gioanetti si era interessato fin dal 1765 quando aveva saputo dell’impresa di Vische, ma non potendo fabbricare la porcellana, a causa dell’esclusiva del Re, aveva ripiegato sulle manifatture di stoviglie di grès, con regolari Regie Patenti del 1° novembre 1774.

Proprio in quegli anni, come risulta da un elenco del 1771, Gioanetti aderì alla prima storica loggia massonica torinese, la “Tres Respectable Loge de Saint-Jean de la Mystèrieuse à l’Orient de Turin”, fondata il 27 dicembre 1765 (dopo soli 48 anni dalla nascita a Londra della Massoneria Speculativa) per iniziativa di Sabatier de Cabre, incaricato d’affari francese presso la corte di Torino, come affiliata della “Grand Loge Maitresse de Saint-Jean des trois Mortriers” da lui costituita a Chambery nel 1749.
È noto che Carlo Emanuele III ebbe un comportamento ambiguo nei confronti di quella Loggia ma, grazie al sostegno del figlio, se proprio non la protesse perlomeno la tollerò, visto che tra i suoi membri figuravano molti personaggi di corte. Primi fra tutti, il marchese Carlo Gabriele Asinari di Bernezzo, Maggiordomo di Corte, e l’insigne violinista Gaetano Pugnani, Maestro della Cappella Reale.
Nella citata lista del 1771, dove al numero d’ordine 38 figura “Giovanetti, Bourgeots, Docteur en Medicine, M.e Simbolique”, compaiono i nomi di molti altri personaggi di rilievo, più o meno metà aristocratici e metà borghesi, a dimostrazione di come quella Loggia svolgesse un ruolo culturale e politico importante all’interno dello Stato Sabaudo e in particolare della sua capitale. Tra gli altri, vi figurano Sebastiano Giraud, medico apostolo del mesmerismo, l’architetto Castelli, membri della famiglia Avogadro di Quinto, Michele Benso di Cavour, Vittorio Ferdinando Ercole Villa di Villastellone, Alessandro Giovanni Valperga di Masino, marchese d’Albarey, e rappresentanti di tante famiglie nobili piemontesi, quali i Castellamonte, i Birago, i Costa di Polonghera, i Falletti.
Questa parentesi sulla Mystèrieuse è forse utile per capire gli avvenimenti che seguirono al fallimento della “Fabbrica di Vinovo”. Perché fu proprio allora che Vittorio Amedeo III, nel frattempo succeduto al padre, con Regie Patenti del 12 luglio 1780 affidò al Gioanetti, che ben conosceva e stimava come dottore, chimico, imprenditore capace e certamente anche per essere persona retta e massone, l’incarico di continuare l’impresa della “Manifattura di Vinovo” con l’uso di terre locali e con gli stessi artigiani a ed artisti che già vi lavoravano.
La porcellana del periodo Gioanetti era più bianca, uniforme, dura e trasparente, artisticamente pregiata e di eccellenza. Il nome di Vinovo divenne rapidamente famoso in tutta Europa per la sua produzione di maioliche e porcellane di altissima qualità. I servizi da tavola decorati a soggetti di caccia o campestri, ghirlande di fiori, medaglioni con figure mitologiche, a colore unico o a policromia, servizi da tè e caffè con stemmi nobiliari e medaglioni, vasi e candelabri decorati ad oro e fiori, statuette di personaggi storici erano ovunque apprezzati e ricercati.
La rinomata e fiorente attività della fabbrica si protrasse fino al 1815, anno della morte del Gioanetti, poi declinò rapidamente per cessare del tutto nel 1818.
La fama di questo stravagante personaggio, scienziato, studioso di arte e alchimia, massone appassionato di esoterismo è soprattutto dovuta alle leggende nate sulle sue formule segrete legate alla combinazione delle terre e alla manipolazione dei colori. Se la miscela delle terre venne in seguito riscoperta (pasta di magnesite di Baldissero, argilla di Barge, feldspato di Frossasco e quarzo di Cumiana), nessuno fu invece più in grado di riprodurre gli stessi colori. Questo contribuì ad aumentare l’alone di mistero di cui alla fine il Gioanetti venne ammantato, tanto che finì anche lui con l’essere considerato un “arcanista”.
Nel 1929, in occasione del bicentenario della sua nascita il Comune di Vinovo gli dedicò una lapide che è possibile vedere alla destra dell’ingresso principale del castello.
Nota: la fotografia del grembiule e del gioiello della Loggia “La Mystèrieuse” è dell’autore ed è pubblicata con il nulla osta dell’Archivio di Stato di Torino, dove i preziosi reperti sono conservati, e non è riproducibile.