Messaggio di mons. Roberto Repole, arcivescovo di Torino e vescovo di Susa per la Festa del Lavoro
Quest’anno a Torino l’atmosfera che aleggiava sulla manifestazione del primo maggio organizzata dai sindacati era in perfetta sintonia con il grigiore che da tempo attanaglia l’ex capitale dell’Auto.
Non esiste più l’élite operaia che costituiva il fulcro della cultura industriale torinese. I leader sindacali delle maggiori confederazioni sindacali , Fiom in primis che negli ultimi decenni, sabotando i piani di sviluppo di Marchionne hanno fatto di tutto per depotenziare il primato produttivo della Fiat, poi FCA, hanno disertato Torino.
Il corteo sotto la pioggia era praticamente, formato da pensionati e dipendenti tutelati degli enti pubblici .Primeggiavano Gianna Pentenero e altri politicanti che cercavano con la loro adesione di portare a casa qualche voto, con il sindaco, presenzialista, a prescindere
Al fondo del corteo i cosiddetti antagonisti, centri “sociali”, anarchici, che poi si sono distinti per lo scempio operato in piazza san Carlo, su uno dei monumenti simbolo della Torino Capitale .
Siamo purtroppo all’epilogo della Torino capitale dell’Industria. Quando al dopo Olimpiadi, l’allora sottosegretario Giachino lanciava pubblicamente l’allarme per la caduta del Pil, la presidente della Regione Mercedes Bresso e il sindaco Sergio Chiamparino si ribellarono sdegnati, perché questa denuncia turbava il loro sonno alimentato dalla copertura generosa del “Sistema Torino”.
Così senza colpo ferire, facendo crescere il partito della ZTL benedetto dai loro giornali, la famiglia Agnelli-Elkann, è riuscita a cloroformizzare la strategia della vendita della Fiat-Fca ai francesi della Peugeot, con la conseguente desertificazione dell’industria automobilistica a Torino.
Un puntello che si è reso ampiamente manifesto, quando la Fiat-FCA portò la sua sede legale in Olanda, sottraendo a Torino, al Piemonte, all’Italia un imponibile fiscale importante e corrispondente a qualche punto di PIL.
Per quello che fu solo l’inizio della fine dell’industria dell’auto in Italia non ci furono scioperi o mobilitazioni e/o prese di posizioni concrete nel consiglio comunale di Torino, dove la sbornia delle olimpiadi e la “riconoscenza” per l’Avvocato, che le aveva favorite, silenziarono le poche cassandre che prevedevano quanto sarebbe accaduto in seguito.
Qual è lo scenario realista del primo maggio?
Mirafiori è praticamente ferma, lo stabilimento Maserati a Grugliasco è in vendita, le altre fabbriche procedono a singhiozzo, gli operai sono in gran parte in cassa integrazione e quasi tutti incentivati, con centomila euro di buonuscita, perché se ne vadano. Il loro destino non interessa al sindaco, al sindacato ed alla cronaca dei due giornali del gruppo che perdono vistosamente copie
Stellantis ricatta il governo, minacciando la serrata delle fabbriche se non arriveranno cospicui finanziamenti, finalizzati alla scelte esclusive della Famiglia e senza specifiche garanzie per la continuità produttiva.
Un tempo, l’efficienza di Torino si misurava sulla crescita del suo apparato produttivo, sul numero e qualità delle sue imprese e dei suoi lavoratori.
Il primo maggio quest’anno non è stata la festa dei lavoratori , dei giovani diplomati e laureati figli di operai e del ceto medio proletarizzato, che a migliaia sono fuggiti, negli anni, da Torino perché per loro il lavoro non c’era, se non sottopagato, tale da non potersi permettere di metter su famiglia.
Questa non è stata la festa di una città dove aumenta solo il numero degli anziani e degli immigrati e diminuiscono, più che altrove, i nuovi nati.
La vecchia gloriosa cultura operaia, parte fondamentale dei contenuti politici della sinistra che fu, ha lasciato il passo a quella dei cosiddetti antagonisti, dei coccolati centri sociali da parte del sindaco Lo Russo. Sono arrivati in piazza col loro camion da corteo, spostate le transenne si sono posizionati sotto il palco sindacale, un centinaio sono saliti sopra per arringare con i loro slogan pro Palestina i poveri lavoratori e pensionati infreddoliti.
Una volta sarebbero stati fermati e messi in riga dall’efficiente servizio d’ordine sindacale. Ma anche quello è andato in pensione e smobilitato. Come hanno smobilitato i sindacalisti e i politici presenti che, a loro dire, “per evitare disordini” hanno prontamente ceduto il palco a questi personaggi che neanche lontanamente assomigliano a dei lavoratori.
Quale sarà il cammino dell’avvenire di Torino?
L’unico che ha elevato la sua voce ferma, lanciando un messaggio preciso e circostanziato, è stato, come in precedenti occasioni, l’Arcivescovo di Torino, monsignor Roberto Repole. Pubblichiamo integralmente il suo appello affiche, nel deserto totale, ciascuno lo assimili e comprenda i pericoli che stiamo correndo.
Messaggio di mons. Roberto Repole, arcivescovo di Torino e vescovo di Susa per la Festa del Lavoro – San Giuseppe Lavoratore
Torino, 1° maggio 2024
Alle lavoratrici e ai lavoratori, alle imprenditrici e agli imprenditori, alle loro famiglie
“Carissimi,
dopo un inverno segnato dalla dolorosa chiusura di varie fabbriche nell’area torinese e nella Valle di Susa desidero cogliere l’occasione della Festa del Lavoro e della Festa di San Giuseppe Lavoratore per una riflessione sul difficile mestiere degli imprenditori in questo nostro tempo di grande competizione economica, che sfida le aziende e le costringe a continui cambiamenti per mantenere competitività e garantirsi la sopravvivenza.
Il destino dei lavoratori e delle loro famiglie in questa stagione così delicata dipende anche dal successo degli imprenditori: per questo la Chiesa sostiene con gratitudine ed anche prega per tutti coloro che abbracciano l’attività di impresa investendo risorse e spendendo la propria intelligenza, il proprio coraggio e la fantasia.
L’avventura delle imprese, anche quella delle industrie multinazionali con sede a Torino, è anche l’avventura di un territorio, che offre alle aziende la risorsa più importante: i lavoratori.
Oggi va detto con forza che i lavoratori non sono separabili dagli interessi delle aziende: sono gli uomini e le donne che, con il loro impegno, con la loro vita, con la vita delle loro famiglie, rendono possibile la ricchezza e l’esistenza stessa delle aziende.
Desidero esprimere grande riconoscenza agli imprenditori che combattono per mantenere vive le proprie aziende. Faccio anche osservare che il complesso dei lavoratori di un territorio rappresenta il mercato cui le aziende rivolgono i loro prodotti e servizi: se questo mercato mantiene la sua capacità di spesa e consumo saranno le aziende stesse a beneficiarne.
Purtroppo nell’area torinese è capitato e continua a capitare a tante persone di perdere il posto di lavoro in aziende che non riescono più a restare sul mercato e falliscono.
Ciò che non dovrebbe mai accadere, agli operai e agli impiegati, è perdere il lavoro in aziende che godono di buona salute e stanno producendo ricchezza e profitto, eppure non si accontentano: queste aziende, spinte sovente da logiche esasperate di ricerca di sempre maggiori guadagni, tagliano i posti di lavoro o li trasferiscono altrove.
È questa, tristemente, una dinamica presente nel mercato internazionale, a volte guidata dalle valorizzazioni dei titoli in borsa e talvolta anche dalla ricerca di premialità per i top managers, che spesso porta anche aziende sane, con buoni profitti, a chiudere fabbriche.
Se la scelta di abbandonare il nostro territorio può essere compresa quando è necessaria per la sopravvivenza dell’azienda, non mi pare possa essere accettabile quando risponde alla logica di moltiplicare in modo esasperato i profitti: credo che esistano limiti all’accumulo della ricchezza, oltre i quali non è legittimo sacrificare la vita delle persone.
Ecco, su tutto questo vorrei che riflettessimo insieme e molto concretamente – imprenditori, lavoratori e loro rappresentanze, classe politica – per concorrere alla crescita del nostro amato territorio.
Come Vescovo, leggo il presente alla luce del Vangelo che chiede di mettere il bene dell’uomo, che è figlio di Dio, al centro di ogni nostra scelta, anche delle scelte economiche. Dietro alle dinamiche estreme dei mercati mi sembra di leggere una visione povera della persona umana, sacrificata alla logica del denaro. È una visione che non colmerà mai il nostro cuore, neppure quello di chi muove le leve economiche e un giorno si domanderà l’uso che ne ha fatto.
Tutti, ciascuno di noi nel suo ruolo, ci domanderemo un giorno se abbiamo portato frutti buoni.”
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Fa piacere leggere un articolo molto ben scritto e non condizionato da direttive unilaterali provenienti dal potere (economico o politico che sia). Francesco Rossa parla in modo preciso e diretto, senza fronzoli e col coraggio dell’onestà intellettuale di chi deve commentare la effettiva realtà. Molto opportuno, poi, riportare il discorso di monsignor Repole.