Alcune riflessioni sul “caso Apostolico”
Il caso del giudice catanese Iolanda Apostolico che, con una sua discussa e discutibile decisione, ha annullato il trattenimento di quattro migranti irregolari scatenando un pandemonio politico e giudiziario è ormai noto, soprattutto perché il magistrato è apparso duramente schierato col fronte immigrazionista e, in precedenti occasioni, con le posizioni della sinistra più ferocemente antigovernativa.
Non ci tratterremo sulle isterie che hanno agitato i pollai mediatici delle nostre serate televisive e quelli della carta stampata. Le persone di buon senso si saranno ormai fatte un’idea chiara e definita circa il comportamento di un giudice che sovrappone ostentatamente la sua militanza politica alla professione giudiziaria e su tutti coloro – magistrati, politici, giornalisti- che cercano disperatamente di giustificarla con argomentazioni giuridiche, politiche e morali, talvolta assai dotte, talvolta ambigue e talvolta semplicemente inconsistenti. Le evidenze parlano e non ammettono troppe interpretazioni.
Soffermiamoci invece su qualche questione più tecnica ma non priva di drammatiche implicazioni sotto il profilo politico e sotto quello democratico.
Il giudice di Catania, per cercare di piegare le norme governative alle sue convinzioni ideologiche, aveva fondamentalmente tre strade.
La prima era un’interpretazione stravolgente della norma, che però richiedeva un esercizio ermeneutico praticamente impossibile se non dando alle parole della legge significati oltre le regole semantiche e quelle della logica che avrebbero richiesto una motivazione altrettanto impossibile. Cosa non fattibile neppure da parte di un giudice altamente politicizzato come la Apostolico.
La seconda era tentare un’eccezione di incostituzionalità che però, come sappiamo, nel nostro ordinamento non è possibile se non tramite la sospensione del procedimento e il rinvio degli atti alla Corte costituzionale. Strada sicuramente percorribile (anche perché le norme governative, va detto con onestà intellettuale, non sono certo inattaccabili sotto il profilo della costituzionalità) ma che avrebbe richiesto tempi lunghi e un esito incerto, mentre evidentemente per la Apostolico era importante venire subito in soccorso degli irregolari e testimoniare la sua ostilità alla politica meloniana.
La terza era invece quella di evidenziare una qualche forma di contrasto fra la normativa italiana e quella europea disapplicando di conseguenza la prima a favore della seconda, col risultato immediato di invalidare i provvedimenti del governo nel caso a lei sottoposto e ottenere la “liberazione” degli immigrati, riconoscendo anche le motivazioni da questi addotte per richiedere asilo, e la cui ridicola assurdità sembra essere sfuggita (o forse no?) al magistrato.
E questo è ciò che la Apostolico ha fatto, e che purtroppo poteva fare secondo il noto principio della prevalenza del diritto europeo su quello nazionale, lasciando però aperta la questione dell’effettivo contrasto fra norme di diverso livello che andrà rivalutata in sede di ricorso per cassazione già preannunciato dal governo.
Al di là dei tecnicismi va però riproposta la dimensione politica di questa scelta del magistrato e del principio di prevalenza del diritto europeo.
Se, in base a questo principio, l’ordinamento giuridico italiano è ormai di fatto subordinato a quello europeo, di quale sovranità normativa può ancora godere il nostro paese?
E la sovranità normativa, cioè il potere di fare le leggi, non è forse il primo grande potere statuale, senza di cui uno stato non ha più il diritto di definirsi tale?
Non è forse una palese illogicità concedere ai giudici il potere di disapplicare direttamente le leggi dello stato se sono in contrasto con le norme europee quando non è loro concesso di disapplicare quelle che addirittura sono in contrasto con la Costituzione italiana?
Il caso Apostolico è emblematico di una tendenza che, se spinta alle estreme conseguenze, può disarticolare profondamente il nostro sistema giuridico e, di conseguenza, la stabilità stessa dello stato.
Si pensi che, in passato, è stata addirittura avanzata l’ipotesi che questo potere disapplicativo potesse estendersi anche alla pubblica amministrazione, concedendo ai dirigenti pubblici la possibilità di non applicare le norme dello stato se in contrasto con quelle europee, sostituendole con quest’ultime.
Assurdo? Evidentemente non troppo se la Corte di giustizia dell’UE ha affermato che il principio di dare attuazione alla norma comunitaria disapplicando la norma interna costituirebbe un obbligo dello Stato membro “in tutte le sue articolazioni”, ovvero giudici e pubblica amministrazione. Tale interpretazione non ha fortunatamente avuto seguito, ma il fatto stesso che sia stata pensata e affermata da un importante organo giudiziario europeo è decisamente inquietante non solo per un sovranista dichiarato ma per chiunque abbia ancora in sé un minimo di coscienza democratica.
Ma un pericolo ulteriore, e ancor più allarmante, si palesa a chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la sostanza e, soprattutto, con la forma delle norme europee.
Queste ultime sono il frutto di due perversioni: quella compromissoria e quella burocratica, che nei palazzi del potere europeo sono predominanti.
La prima deriva dal fatto che ogni atto europeo è frutto di estenuanti mediazioni fra i governi e quindi il suo linguaggio diventa vago, indiretto, retorico, sfumato e impreciso nella sua diplomazia semantica.
La seconda deriva invece dal fatto che quegli atti sono scritti (e spesso direttamente concepiti) da funzionari che della realtà percepiscono solo quei vaghi riflessi che filtrano dalle vetrate dei loro uffici di Bruxelles, e si compiacciono di un linguaggio aulico e burocratico, involuto, spesso oscuro ai limiti dell’ermetismo.
Ora, trasformare questo tipo di normativa sconclusionata in un superiore punto di riferimento per i giudici nazionali significa solo fornire a questi ultimi -e soprattutto a quelli fortemente ideologizzati, non solo in senso politico ma genericamente culturale- un potente strumento di “torsione” del nostro diritto nazionale ma anche, come nel caso catanese, addirittura il potere di ignorarlo sostituendolo con norme di loro gradimento che, nel cielo nebbioso del diritto europeo, è sempre facile reperire e importare nei nostri tribunali, con le conseguenze che si sono viste e che si possono immaginare per il futuro.
A dimostrazione di questa pericolosa arbitrarietà ideologica si potrebbe ancora citare il caso della normativa italiana sul green pass, non troppo lontana nel tempo, che, pur essendo in netto contrasto con le norme europee che lo volevano semplice documento di facilitazione degli spostamenti, divenne da noi strumento di controllo repressivo e limitativo della libertà individuale, senza però che nessun giudice rilevasse questo palese contrasto col diritto europeo traendone le conclusioni del caso.
Contraddizioni del “sovranismo giuridico”? Sarà opportuno rifletterci seriamente.