L’intervento del Sottosegretario al 1° Festival dell’«Umano tutto intero»
Nei giorni scorsi due eventi si sono svolti all’attenzione di chi ha a cuore la crisi umana che attanaglia l’Occidente da almeno mezzo secolo, da quando esplose negli Anni 60 del secolo scorso. Una crisi antropologica che viene da lontano. Si tratta di una aggressione politica e militare da parte di un asse di Paesi uniti fra loro dal rifiuto delle libertà e dall’odio contro la civiltà occidentale, sia per come si è ridotta da decenni di secolarismo, sia per alcuni suoi valori qualificanti, che rimangono nonostante la crisi antropologica. Due eventi hanno cercato di affrontare questa crisi, il primo, Il Festival dell’umano, organizzato dal network Ditelo sui tetti, e la Manifestazione nazionale per la vita, entrambi svoltisi a Roma rispettivamente il 18/19 giugno e il 22 dello stesso mese.
Riprendo dal sito del Governo Italiano Presidenza del Consiglio dei Ministri (governo.it) l’interessante intervento che il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, che ha pronunciato al “Festival dell’Umano tutto intero”, nella sessione dedicata a “L’eccezione (antropologica) italiana per l’Europa e il mondo”. Vale la pena leggere le profonde riflessioni storiche, culturali, sociali, politiche e religiose. Ho escluso qualche parte per creare una sintesi per il giornale.
L’intervento del Sottosegretario Mantovano al 1° Festival dell’«Umano tutto intero»: ’Eccezione (antropologica) italiana è utile al mondo?“
L’Italia è un Paese sbagliato. Può dispiacerci, ma è così. È stato quasi sempre dalla parte sbagliata. Ha perduto tutti gli appuntamenti più significativi con la Storia: al momento della rivolta luterana è rimasto con la Chiesa cattolica; ha vissuto sì il Rinascimento, ma conferendo a esso un’impronta di fede; ha mostrato scarso entusiasmo per la Rivoluzione francese, tant’è che quando Napoleone ha condotto in Italia i lumi del progresso sulle baionette dei propri soldati, tutti i popoli della Penisola, chi più chi meno, si sono ribellati; sembrava aver estromesso il potere clericale con la formazione dello Stato unitario, ma poi lo sciagurato Concordato lo ha ripristinato. E così via, fino ai giorni nostri, che vedono nel governo Meloni l’apoteosi dell’anomalia: quella di un popolo che elegge una maggioranza sulla base di un programma elettorale, e questa maggioranza sostiene un governo che prova a essere coerente con quel programma. Sbaglio che più grave non si può, in controtendenza con la felice esperienza dell’ultimo decennio, che invece aveva visto formarsi governi a prescindere dalla variegata e mutevole volontà popolare”.
C’è un momento in cui questo “sbaglio” ha impresso il suo sigillo nella pietra. È descritto in uno di quei romanzi che non dovremmo stancarci di leggere coi nostri figli o coi nostri nipoti: si tratta di Quo vadis?, del polacco Henryk Sienkiewicz, a cui per quest’opera nel 1905 fu riconosciuto il premio Nobel per la letteratura. La storia è conosciuta: a Roma infuria la persecuzione di Nerone, e i Cristiani convincono Pietro ad allontanarsi dall’Urbe perché altrimenti sarebbe stato ucciso. Era una preoccupazione fondata, era più di un rischio: e peraltro da sempre i cristiani pregano per il Papa affinché “non tradat eum in ánimam inimicórum éius”. Così Pietro esce da Roma e inizia a percorrere la via Appia e, nel luogo dal quale adesso parte la strada che conduce alle catacombe di S. Callisto, incrocia un Uomo che invece si dirige verso Roma; non lo riconosce subito, anche se il viandante ha una immagine familiare. Gli domanda: Quo vadis, Domine? La risposta svela a Pietro chi è quell’Uomo e qual è il destino dell’Apostolo: Eo Romam, iterum crucifigi (vado a Roma, per essere crocifisso nuovamente). Pietro comprende e torna sui suoi passi.
L’incontro, ripreso nel romanzo, deriva da una antichissima tradizione popolare, ricordata dal magistero pontificio. In quel sito sorge la piccola chiesa del “Domine quo vadis”: fu visitata nel 1983 da Giovanni Paolo II, che definì quel luogo di “speciale importanza nella storia di Roma e nella storia della Chiesa”. Perché di “speciale importanza”? Perché segna l’indissolubile originario legame fra Roma e la fede cristiana, e quindi fra l’Italia che ha Roma al centro, e il cristianesimo. Non è un legame solo confessionale: è un legame storico e culturale, che ha impresso nella nostra Nazione un sigillo materiale. Sì, anche quando non esisteva politicamente come Nazione, l’Italia è stata unita nella cultura e nella fede.
Il legame fra Roma e l’Italia si è dilatato in Europa e nel mondo. Lo ha ricordato di recente Ernesto Galli della Loggia, in un’editoriale sul Corriere della sera, quando ha elencato quelli che ha definito i caratteri ambientali, visivi e sonori tipici dell’Europa, che si ritrovano anche oltre gli Oceani, lì dove gli europei si sono radicati. Quei caratteri sono partiti da Roma e, percorrendo le vie consolari, hanno raggiunto ogni angolo dell’Europa e del mondo.
Quel sigillo ha lasciato il segno nella pietra, nel senso più concreto del termine: la piccola chiesa è stata edificata attorno all’impronta dei piedi che, sempre secondo la tradizione, Cristo ha impresso sul selciato della via Appia. Luogo di “speciale importanza nella storia di Roma e nella storia della Chiesa”: nel momento in cui Pietro, pietra angolare su cui viene edificata la Chiesa, viene unito a Roma, perfino le pietre di Roma ne diventano testimoni per i millenni che seguiranno.
Quello che una robusta corrente del pensiero, della politica, dell’economia e della finanza considera da secoli uno “sbaglio”, inizia proprio da lì. Per Giovanni Paolo II non era uno “sbaglio”, lo definiva al contrario una “eccezione”, la c.d. “eccezione italiana”: il Papa Santo usava questa espressione per intendere la straordinaria resistenza della nostra Nazione attorno ai suoi principi identificativi.
Non voglio aprire il capitolo di quanto di questa eccezione sopravviva oggi. Il mix costituito da sentenze della Corte costituzionale, sentenze dei giudici di legittimità e di merito, e di leggi su materie eticamente sensibili approvate nelle ultime legislature, in particolare durante il governo Renzi, hanno circoscritto notevolmente l’area della eccezione. Questi provvedimenti hanno inciso sul comune sentire.
L’immagine della statua della maternità rifiutata dagli esperti del Comune di Milano è la sintesi di tutta questa deriva. Le immagini sintetizzano meglio delle parole. l’opera in bronzo, intitolata Dal ‘latte materno veniamo’, rappresenta una donna che allatta al seno un neonato, una stata donata dalla scultrice Vera Amodeo al capoluogo lombardo dai figli dell’artista. La sua posa doveva avvenire in una piazza della città, ma ha avuto il parere contrario della commissione del Comune, con la seguente motivazione: “La scultura rappresenta valori rispettabili ma non universalmente condivisibili da tutte le cittadine e i cittadini, ragion per cui non viene dato parere favorevole all’inserimento in uno spazio condiviso”. E’ la certificazione evidente che viviamo un periodo in cui ci stiamo allontanando dall’essere eccezione (viene in mente la furia che in alcune città USA ha portato alla rimozione delle statue di Colombo, et similia)! Sarebbe interessante capire cosa ne pensano i componenti della Commissione su come su come ciascuno di loro è venuto al mondo!
Ma, grazie a Dio, qualche residuo di anormalità in Italia c’è ancora. Se ne ha traccia non solo nello scandalo di un governo che si è formato in coerenza col voto popolare, ma pure in qualche profilo che, dalla prospettiva che affrontiamo oggi, e in particolare in questo panel, è stato poco scandagliato.
Il G7 dei capi di Stato e di Governo ha attestato l’importanza dell’avvio da parte dell’Italia del “piano Mattei per l’Africa”. L’Italia non arriva certamente per prima in Africa. Ma costituisce una eccezione il modo in cui, fra mille difficoltà, affrontando mille ostacoli, con mille incertezze, essa ha proposto e sta seguendo l’avvio del Piano. È una eccezione quanto alla modalità di interlocuzione con le singole Nazioni africane. Fa eccezione certamente rispetto a come in questi anni Russia e Cina intervengono in Africa: la Russia con contingenti in armi, aprendo nuove basi militari, appoggiando rivolgimenti violenti, tutelando l’estrazione delle materie prime nelle aree a maggiore rischio; la Cina con la sua finora inarrestata espansione infrastrutturale, commerciale e tecnologica.
Ma il modo italiano è differente anche rispetto ad altre Nazioni europee, che fino a un recente passato hanno utilizzato – e in parte ancora utilizzano – le incredibili ricchezze dell’Africa, con scarso ritorno per le popolazioni locali: adesso ne pagano il prezzo, essendo costrette a ridimensionare la loro presenza e a ritirarsi. Il Piano Mattei risponde a una logica differente: quella di un approccio paritario, che certamente distingue fra le Nazioni che mettono a disposizione le risorse, e le Nazioni destinatarie delle risorse medesime. Il sottosegretario risponde alle critiche Rispondo a chi critica il Piano perché non sarebbe preciso nei dettagli: noi abbiamo scelto di stabilire la governance e le linee di fondo, e non intendiamo imporre nulla dall’alto. Il Piano Mattei non è un diktat: è un orizzonte entro il quale definire ogni singolo passo sulla base di un confronto paritario con gli interlocutori africani, rendendo sempre stretti i reciproci legami di fiducia e di collaborazione.
Questo vuol dire guardare all’Africa con spirito costruttivo e non predatorio. A chi dice che pensiamo di conferire risorse a Paesi di origine o di transito dei migranti, quasi fosse un corrispettivo perché loro controllino le partenze, rispondo che questa era l’impostazione dell’Unione europea nei confronti degli Stati europei di primo approdo prima che il governo italiano – quello in carica – la ribaltasse: in sintesi, denaro in cambio del trattenimento dei migranti.
La dinamica del Piano Mattei è diversa: favorendo lo sviluppo negli Stati di origine, si creano le condizioni per non emigrare; curando la formazione di chi comunque intende lasciare il proprio Paese, ci si assicura già a monte, attraverso flussi migratori regolari, un percorso di integrazione anzitutto lavorativa. Abbiamo iniziato mettendo ordine nella quantità frammentata di risorse del nostro sistema di cooperazione: fermando gli interventi a pioggia, concentrandoci su progetti che lascino traccia.
È un approccio che rispetta non soltanto i popoli africani e i loro governanti, ma anche le singole persone. Dobbiamo stroncare la prospettiva che il modo per arrivare in Italia e in Europa sia quello di affidare il proprio denaro e la propria vita ai trafficanti, e di affrontare viaggi disperati. L’eccezione italiana deve essere anche questa, non quella di sostenere ong che si collochino al limite delle acque territoriali libiche o tunisine per raccogliere chi parte sui barchini: perché quel sostegno, anche solo finanziario, fatto anche con le migliori intenzioni, è un incentivo ai traffici di morte.
L’eccezione italiana fuori dall’Italia ha un altro scenario di riferimento: quello latinoamericano e si declina nella collaborazione per il contrasto al narcotraffico. I clan criminali mettono in ginocchio troppe aree del Sud e del Centro America, condizionano la vita quotidiana, distorcono l’economia, corrompono la politica. L’Italia fornisce know-how e concreta collaborazione per combattere questa deriva: la nostra legislazione è presa a modello, nostri funzionari e ufficiali delle forze di polizia svolgono attività di addestramento, nostri magistrati suggeriscono percorsi di indagini. Anche su questo terreno l’eccezione italiana si manifesta con efficacia.
Anche nel modo di trattare le crisi internazionali, a cominciare da quella in Ucraina e da Gaza, l’Italia fa valere il suo tratto. Penso, al netto degli aiuti in termini di difesa, a quanto l’Italia ha fatto e sta facendo per garantire l’energia elettrica in una parte significativa del territorio ucraino e all’avvio dei progetti per la ricostruzione a Odessa. Oppure, quanto a Gaza, all’impegno congiunto della nostra Difesa, dell’intelligence, degli Esteri, e della Salute, che finora ha permesso di tirare fuori da quell’inferno 58 bambini gravemente feriti e 98 maggiorenni, loro familiari, per condurli nei principali ospedali della nostra Penisola, per lo più pediatrici. È un gesto di concreta vicinanza a ciascuno di loro, ma è al tempo stesso un segnale di pace in quell’area: come abbiamo condannato l’attacco terroristico contro Israele, così soccorriamo, per quello che ci viene permesso, i piccoli che ne subiscono le conseguenze. E attraverso questo proviamo a stabilire condizioni di reciproca fiducia che permettano le interlocuzioni necessarie per comporre la crisi.
Chiudo da dove ho iniziato: dal legame fra Roma e Pietro, che è all’origine della eccezione italiana. Ci sono stati momenti in cui Pietro si è allontanato da Roma: non sono stati anni felici. S. Caterina da Siena è stata proclamata Patrona d’Italia anche per il suo impegno per riportare il Papa da Avignone a Roma. Sono molto grato alle associazioni che costituiscono il network Sui tetti, a chi lo promuove, e a chi ha organizzato questa due giorni di riflessione perché fornisce il suo contributo a che questo legame continui a esserci.
Nel 2001, dopo aver assistito alla proiezione di un nuovo film tratto dal romanzo di Henryk Sienkiewicz, Giovanni Paolo II commentò in questo modo: “Non si può capire l’odierno quadro della Chiesa e della spiritualità cristiana (se) non ritornando alle vicende religiose degli uomini che, entusiasmati dalla Buona notizia su Gesù Cristo, divennero i Suoi testimoni. Bisogna ritornare a questo dramma che si verificò nelle loro anime, in cui si confrontarono l’umano timore e il sovrumano coraggio, il desiderio di vivere e la volontà di essere fedele fino alla morte, il senso della solitudine davanti all’impassibile odio e nello stesso tempo l’esperienza della potenza che scaturisce dalla vicina, invisibile presenza di Dio e dalla comune fede della Chiesa nascente. Bisogna ritornare a quel dramma perché nasca la domanda: qualcosa di quel dramma si verifica in me?”.
Le giornate che stanno per concludersi attestano quanto voi intendiate essere non soltanto testimoni ma soprattutto protagonisti, ciascuno per il suo, di questo incredibile dramma, in una Nazione eccezionale qual è l’Italia.
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