
La chiesa seicentesca (1621) ed il palazzo municipale (1874) di San Carlo Canavese in uno scatto di inizi del '900. (Collezione Privata)
Il drammatico incendio dei Lotti La Piè (di Alessandro Mella)
A cavallo tra torinese e Canavese sorge la comunità di San Carlo. Paese dalla lunga storia, raccolto in parte attorno alla chiesa parrocchiale ed in parte disperso in numerose frazioni e borgate. Le sue genti operose iniziarono a costruirvi insediamenti importanti nel medioevo quando le provvidenze per l’irrigazione delle vaude, ed il relativo canale, resero maggiormente vivibile la zona. Non che fossero mancate presenze più antiche, anzi, ma il territorio non ne aveva permesso un progressivo ed importante sviluppo. Ne sono testimonianza i ritrovamenti archeologici degli anni ’70 e la magnifica chiesa romanica di Santa Maria di Spinerano. Il paese prese a crescere ed a darsi una fisionomia propria fin da quando, nel XVII secolo, fu eretta la prima parrocchia cui seguì, nell’Ottocento, l’edificazione dell’attuale. Ecco come, il paese veniva descritto al tempo della vicenda che racconteremo:
Il paesello di San Carlo di Ciriè, sorgente sulle prime falda dell’altipiano del campo militare, nella verde spianata che ha per orizzonte la pianura torinese e per anfiteatro l’ampia distesa delle Alpi spiccanti nel firmamento, col suo caratteristico campanile, colla linda e pulita casa comunale, colle bianche casette sparse nella verzura dei prati, è forse il villaggio più ridente e più salubre di questa estrema regione del Basso Canavese. Duecento anni or sono, il grazioso paesello di San Carlo di Ciriè non era che una delle tante borgate dell’Oppidum Ciriae, (…). Ma nel 1691, approfittando di un editto del duca Amedeo (…) riuscì a costituirsi in ente separato e distinto. (1).
Anche in opere di gran pregio come quella celeberrima di Strafforello, se ne diede cenno:
San Carlo di Ciriè (1608 ab.) Noto comunemente sotto il nome di Vauda di Ciriè, da cui dista 6 chilometri; giace in pianura nord ovest di Torino, in territorio bagnato dai torrentelli Fisca e Banna e fertile di frumento, segale e grano turco, gelsi, fieno e vino. Belle case, scuole e filande. (2).
San Carlo, a fasi alterne nella storia, fu spesso collegata, più o meno direttamente, alla città di Ciriè trovandosi talvolta ad essa legata anche amministrativamente. Alternandosi tra l’essere libero ed autonomo comune o l’essere frazione di quella città (3). I sancarlesi, a prescindere da questo, vissero sempre con coraggio ogni avvenimento storico partecipando alle guerre napoleoniche ed a quelle risorgimentali, alle guerre del Novecento ed ai grandi cambiamenti nazionali ed europei e diedero uomini illustri all’Italia. Ma conobbero anche la paura in molti momenti e quello di cui oggi andiamo a parlare fu proprio uno di quelli. Sulla fine dell’Ottocento negli stabili rurali, come nelle città in verità, la presenza del fuoco libero nelle case era ancora la normalità. Per scaldarsi, per cucinare, per lavorare o per disporre d’illuminazione. A quel tempo, quindi, il pericolo di incendi anche gravi era assai superiore ed i materiali che abbondavano nella quotidianità del tempo, unitamente a scarsa prevenzione, talvolta li rendevano davvero devastanti. Si moriva molto anche per via del fuoco e se oggi la morte del fuoco è, più che mai, una morte di povertà e ristrettezze; allora era cronaca quasi quotidiana.

Nel 1895, la sera della domenica 6 ottobre, un gran vento soffiava sulle vaude scompaginando i tetti nella borgata Lotti La Piè ove molti pastori ed allevatori conducevano al pascolo il proprio bestiame. Si trattava, in verità, più di rifugi estivi costruiti alla bisogna:
Talune di tali abitazioni sono semplicemente costituite da capannoni formati di travi, ramaglie e paglia, e servono ad un tempo al ricovero delle persone, del bestiame e delle derrate, cioè granaglie, fìenaglia, paglia, ecc. Il bestiame giace a terreno e le persone e le derrate stanno superiormente su di un soppalco posticcio (4).
In uno di questi stabili si trovava la famiglia di Francesco Chiara detto “l’American”, con la moglie che rammendava le calze alla luce d’un lume ed i figli, un maschio di 14 anni ed una femmina di 12, che già s’erano coricati, come il padre, per riposare (5). Poco dopo le 20 la buona donna terminò di cucire e raggiunse il resto dei suoi, al pagliericcio, dopo la lunga e faticosa giornata. Tipica di chi vive la dura vita di campagna. Il sonno avvolse tutti velocemente finché, riportano le cronache, urla terribili scossero la notte e svegliarono gli altri abitanti della borgata. Quando questi si affacciarono dalle loro finestre e dai loro casolari per scoprire l’origine di quel grido videro il bagliore rosso che si specchiava nel cielo e la grigia e sinistra colonna di fumo che s’alzava. Lo stabile del Chiara era ormai un inferno di fuoco e fiamme, procurate probabilmente da un lume scordato acceso o da un focolare utilizzato per scaldarsi. Il crepitio della paglia che bruciava s’udiva mescolato al baccano, alla paura, all’orrore di tutti. Nel capannone la sfortunata famiglia s’era svegliata prigioniera del fuoco, divoratore di cose e di vita:
Il loro risveglio in quella bolgia d’inferno nessuno potrà descrivere. Consta che, coperti della semplice camicia, a cui si erano già apprese le fiamme, coi capelli arsi, tutti si gettarono disperati all’uscita.
La madre, che stringeva fra le braccia la bambina, aggrappandosi ai tizzoni accesi delle pertiche della capanna, fece un supremo sforzo per precipitarsi dal soppalco, ma le mancarono le forze e ruzzolò fra le macerie in fiamme, di dove, non si sa come, ma forse aiutata dal marito, si trasse ustionata in tutto il corpo.
Il figlio, come un forsennato, fu visto correre la campagna, col corpo in fiamme, finché cadde sfinito. Il padre, quasi impazzito, cercando di soccorrere la moglie ed i figli, riportava lesioni in varie parti del corpo, che, fortunatamente, non sono per ora gravi (6).
Tutti gli abitanti dei dintorni accorsero per aiutare gli sventurati feriti e moribondi, ma la mancanza d’acqua e di attrezzi utili a domare il fuoco non permisero di spegnere il grave incendio. A quel tempo esistevano già dei Corpi di Pompieri a San Maurizio Canavese e Nole, ma nessuno ebbe probabilmente modo di sollecitarne l’azione e forse, anche fossero accorsi, i tempi di mobilitazione e percorrenza non avrebbero consentito di renderne utile l’intervento.

Giunsero i Reali Carabinieri da Ciriè e fecero quel poco che fu loro possibile mentre il dott. Luigi Figlione, ufficiale sanitario di San Carlo, si prodigò per dare cura ai gravi feriti. Ma la madre e suo figlio, portati a Vauda di Front, morirono poco dopo per la troppa gravità delle ustioni che ne avevano straziato i poveri corpi.
La bambina fu ritrovata, povera piccola, ormai carbonizzata tra le rovine fumanti del casolare distrutto. Il povero padre perse tutto, anche il bestiame che allora era risorsa fondamentale e fonte di vita, e restò solo con il suo immane dolore.
Il terribile evento fece una grande impressione e la notizia corse tanto che il quotidiano della lontana Torino ne diede notizia. Un fatto che avrebbe potuto perdersi nelle pieghe della storia, della memoria, ma che oggi sopravvive per ricordarci quanto fosse dura la quotidianità d’un tempo e come molte comodità e sicurezze d’oggi non debbano sembrarci scontate ma frutto del progresso costruito dalle mani e dalle menti operese dell’umanità. Quello sano e civile che migliora la vita dei popoli anche nelle più piccole e sperdute borgate e contrade.
Alessandro Mella
Note
1) La Stampa, domenica 9 settembre 1894, p. 3.
2) G. Strafforello, La Patria – Geografia dell’Italia, volume II Provincia di Torino, Unione Tipografica Editrice, Torino 1891, p. 146.
3) Per approfondimenti si consiglia: G. Boasso, Cenni Storici sul Comune e la Parrocchia di San Carlo Canavese, Tipografia Giovanni Capella, Ciriè 1960.
4) La Stampa, lunedì 7 ottobre 1895, p. 2.
5) A quel tempo erano in molti a migrare in cerca di lavoro. Forse il Chiara era stato in America per lavorare e vi aveva poi fatto ritorno. Era consuetudine dare questo tipo di soprannome ai migranti indicandoli con l’aggettivo corrispondente al paese in cui erano stati.
6) La Stampa, lunedì 7 ottobre 1895, p 2.