Una tendenza da analizzare. Quali rimedi?
Senza troppi clamori e quasi in sordina sta partendo la campagna elettorale. Zero programmi, ma qualche eurodeputato sta allestendo salotti per osannare il nulla fatto nella legislatura che si conclude in questi giorni, noncurante ovviamente di proporre e disquisire sulle scelte epocali che il prossimo parlamento europeo dovrebbe assumere.
Lo stato maggiore del PD piemontese, noncurante di aver indicato una candidata presidente della Regione destinata a perdere, non accenna a programmi, ma si scanna in lotte fratricide sulla composizione delle liste elettorali per evitare che un candidato autorevole come il Professor Salizzoni, possa contendere il seggio al gioco spartitorio correntizio che ovviamente privilegia le mediocrità.
Se si ascoltano i discorsi della gente comune, il livore contro la politica dei nostri politicanti, è palpabile, anche se (beata ignoranza) si addebitano le magagne del disservizio della GTT alla regione e non al lunare sindaco Lo Russo al quale toccano gli epiteti per le liste di attesa nella sanità, che invece sono di competenza regionale.
Ma all’invettiva di dolore segue l’orgoglio liberatorio e crudele a sostegno del ripudio del voto!Ormai le consuete affermazioni trovano poi risconto nei dati elettorali consuntivi, Sardegna docet e non sono solamente il frutto dell’esasperazione.
Infatti abbiamo riscontrato un’iniziativa degna di approfondimento: “Fuga dalla politica, tra disincanto e astensionismo”.E’ il titolo del convegno che si è tenuto recentemente a Segni su iniziativa della Lista Rocca, la lista che porta il nome del presidente della Regione Lazio, anche lui tra i relatori.
In tale contesto si è cercato di proporre un’analisi articolata attraverso contributi e testimonianze della politica, della cultura, del volontariato, con la partecipazione di Alessandra Clemente, consigliere comunale di Napoli, di Alessandro Giuli, presidente del Maxxi, di Maurizio Tarquini, Ad di Unindustria, di Walter Tocci, ex vicesindaco di Roma durante la Giunta Rutelli, di Luciano Crea, consigliere regionale del Lazio, e di Fabrizio Molina, coordinatore della stessa lista civica.
Fuga dalla politica, dunque, e “civismo” nelle sue varie declinazioni. Parlarne, approfondirne gli aspetti, sondare le cause e individuare i rimedi del malessere che da lungo tempo ormai ha colpito la politica non è inutile. Al contrario, è urgente e necessario.
Anche gli studiosi della Politica si stanno muovendo.
Sabino Cassese in un recente articolo sul Corriere della Sera traccia una mappa sconfortante del mondo democratico.” Il numero degli abitanti della Terra retti da governi democratici diminuisce e, in questi, i cittadini che vanno a votare sono sempre meno. I processi di decisione dei governi democratici sono sempre più complicati, lenti, farraginosi. I segni della crisi sono molti ed evidenti” prosegue Cassese. “come molte sono le interpretazioni che se ne traggono. Da un lato, i cittadini se la prendono con lo Stato che non riesce a mantenere gli impegni e finiscono per considerarlo debole. Dall’altro, ci si preoccupa dei pericoli che si corrono con un eccessivo rafforzamento dei poteri dell’esecutivo. Insomma, la democrazia è a rischio perché troppo debole o perché troppo forte?”
A queste domande l’ex ministro della Funzione pubblica e giudice della Corte Costituzionale, propone l’analisi di ben cinque fattori latenti di crisi degli ultimi cinquant’anni. Fattori latenti che possono portare al collasso le democrazie.
Partiamo dal primo fattore. Nelle democrazie mature, quelle che hanno un secolo di vita, alle prese con una pluralità di interessi collettivi spesso contraddittori diventa sempre più difficile metterli in fila e stabilire un ordine di priorità fra gli stessi interessi. Vale per l’occupazione e lo sviluppo, per la protezione sociale, la tutela dell’ambiente e altre mille questioni che riempiono l’agenda e richiedono una effettiva cultura di governo della complessità, spesso più declamata che concretamente realizzata.
In secondo luogo, nelle democrazie contemporanee sono spariti i partiti. Ossia, non esistono più le organizzazioni politiche, la cui natura associativa e la strutturazione interna ne faceva lo strumento principale della democrazia. Con la personalizzazione della politica e la prepotente affermazione del leaderismo, i partiti si sono trasformati in oligarchie e il potere effettivo è concentrato nelle mani di pochi. Nello snaturamento dei partiti trova spiegazione la perdita di peso dei parlamenti.
Il resto ce la mette, almeno in Italia, una legge elettorale abborracciata e pessima, che non lascia spazio all’elettore nella scelta dei propri rappresentanti, affidando unicamente ai capi partito l’individuazione dei candidati, con il risultato di fidelizzarli comprimendo la loro autonomia.
Il terzo fattore riguarda la mancanza delle grandi idealità. Quel fervore di idee che aveva animato il mondo per due secoli, provocando corposi scossoni nelle coscienze, fino a mettere in moto le masse, aggregare elettori. Finite le ideologie, sono venute meno anche le idee. Con conseguenze disastrose in termini di offerta politica, sempre più debole e frammentata.
Di conseguenza, il quarto fattore latente della crisi della democrazia si specchia nella incapacità di orientamento della politica e dei governanti. Si insegue il consenso purchessia, cogliendo le pulsioni e i sentimenti dei cittadini. Si subisce l’opinione pubblica, non la si orienta e prospera il clientelismo. L’instabilità dell’elettorato, la sua crescente apatia sono in gran parte dovute a queste cause.
Come lo è il quinto fattore, la sottovalutazione di quello che una volta si chiamava l’ordine della ragione. Ossia quel rapporto cognitivo che l’elettorato manteneva con i propri rappresentanti, rendendolo partecipe delle attività di governo e, più ampiamente, delle iniziative politiche che di volta in volta venivano assunte. I partiti politici, su questo piano, svolgevano un ruolo rilevante.Se questa è la diagnosi della crisi della democrazia, e certamente lo è, qual è allora la cura?
Cassese invoca un alto livello di poliarchia, una grande capacità amministrativa, un rigoroso rispetto della legalità e uno sviluppo dell’istruzione della società civile. Difficile non condividere il suo pensiero. Ma è sufficiente tutto questo per rianimare la politica, per arginare la fuga dell’elettorato, per recuperare ormai più della metà degli italiani ad una partecipazione attiva?
Semmai su un sesto fattore che tutti gli altri sembra avvolgere, racchiudere e che riguarda il tramonto di ogni passione, di quel fuoco che arde nelle vene, che è la vera anima della politica. Quell’amore che è dedizione e sacrificio, voglia di mettersi in gioco, di prodigarsi per il bene altrui. Quel sentimento di appartenenza ad una Comunità. Di fierezza per la difesa della propria terra e delle proprie tradizioni. “Senza passione non c’è conoscenza, non c’è esperienza e nemmeno storia”, è stato scritto.
Se sfiorisce la passione vien giù tutto l’armamentario che regge la politica, quella alta e nobile- La politica dei politicanti di casa nostra, si fa merce, convenienza, clientela. Di più: cessa di esistere.
Questione analoga investe i sindacati, la cui crisi di rappresentanza non è meno rilevante rispetto a quella di cui soffre il partitismo.
Un’acuta analisi comparata la sviluppa invece Augusto Grandi che afferma: “Papa, cardinali, vescovi e giù per li rami sino ai rari preti di campagna sopravvissuti: tutti si interrogano sulle ragioni che hanno portato allo svuotamento delle chiese, alla desertificazione dei seminari, all’irrilevanza della Chiesa Cattolica nella società atlantista attuale. Si interrogano ma evitano accuratamente di darsi delle risposte. Che sarebbero persino semplici, ma estremamente scomode”
Per poi prosi il quesito e trarre la condivisibile conclusione: “A che serve, infatti, una Chiesa, una religione, se ha sostituito il sacro con una sociologia banale? Se ha rinunciato ai propri principi per abbracciare l’ideologia woke? Perché mai andare a messa se le sciocchezze politicamente corrette delle prediche possono essere ascoltate tranquillamente nelle risse serali dei più squallidi talk show televisivi?”
L’analisi sulla presenza religiosa si lega intimamente alla desertificazione della partecipazione dei cittadini. Puntualizza ancora Grandi, “le chiese vuote sono l’altra faccia della medaglia delle urne disertate. Perché votare per partiti che litigano sul nulla poiché sono d’accordo su tutto?”
Seguono poi esemplificazioni attualissime che ci potrebbero aiutare a discernere quel che ci viene ogni giorno proposto. “In Israele i cattivi sono i bambini palestinesi che vengono sterminati dal buon Netanyahu e dai buonissimi coloni. È democratico Zelensky che cancella le elezioni ed è antidemocratico Putin che le fa svolgere con un’affluenza molto superiore a quella italiana”. L’ amara ma ovvia conclusione “di fronte a queste infinite idiozie si pretende che gli italiani vadano a votare? Per chi? Per cosa? Per sostenere quale programma falso?
Se non vogliamo recitare il requiem per la democrazia rappresentativa dovremo cercar di coniugare la teoria della rappresentatività con la realtà effettuale.
D’altro canto, per coltivare ragionevoli speranze di rinascita della partecipazione politica, il civismo e i partiti dovrebbero, a nostro avviso, tornare a coniugare i processi di sviluppo e pianificazione locale con i bisogni e le attese dei cittadini. E’ dal territorio che può rimettersi in moto la politica e levarsi un modello vincente.
Un modello che incarni tanto i profili identitari dei luoghi su cui si innesta l’azione di sviluppo quanto l’istanza di partecipazione dei vari soggetti interessati ad essere protagonisti del cambiamento. E’ qui, a questo livello, che può entrare in gioco un nuovo spirito comunitario. E’ qui che i poteri dello Stato possono essere rinegoziati, dal momento che esso esercita le sue funzioni entro confini ben distinti, senza, di contro, che siano ignorati i confini territoriali, né quelli tra pubblico e privato.
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