
Di Alessandro Mella
Nel ventunesimo secolo, il primo del terzo millennio, soffocati da una modernità cinica, invadente e talvolta antipatica, i simboli potrebbero esser considerati superati. Invece la loro forza comunicativa resta salda superando i mutamenti sociali sempre più rapidi e travolgenti.
Del resto le persone hanno bisogno di icone cui aggrapparsi, nelle quali riconoscersi e riconoscere gli altri e questo vale oggi, a maggior ragione, in una fase storica dalla socialità gravemente compromessa dalle reazioni scoordinate e talvolta discutibili dei governi mondiali di fronte alla pandemia di Sars Cov 2.
Tra questi simboli di un glorioso passato, c’è senz’altro l’anello chevalier. Un tempo prerogativa delle famiglie nobili, con il tempo esso è diventato identificatore di classe, cultura e buon gusto sia che porti lo stemma araldico della propria famiglia, sia le proprie iniziali o altre immagini care al cuore di chi l’indossa. Una persona con lo “chevalier” al dito si nota subito. Maggiormente se, da galantuomo, questa sa portarlo con disinvoltura e sobrietà senza noiose ed antipatiche ostentazioni che, diciamocelo, non s’addicono a chi fa del garbo e della buona creanza una bandiera. Del resto, “noblesse oblige”.
L’anello per eccellenza non fu mai “solo e soltanto” un accessorio fine a se stesso poiché questo nacque sia come simbolo di retaggio e potere, sia come strumento dal momento che spesso le sue immagini furono incise in negativo per permetterne l’impiego come sigillo sulla ceralacca. Un tempo, ma ancora oggi per i “buongustai”, garanzia d’autenticità d’una firma o di un documento.
I primi anelli con questo impiego nacquero nell’antico Egitto per i faraoni che vi facevano incidere, in un cartiglio secondo l’uso del tempo, il proprio nome in caratteri geroglifici. Esso rappresentava l’essenza stessa del potere assoluto di un uomo asceso al ruolo di divinità. Diversi di questi anelli sono stati reperiti negli scavi archeologici anche se molti sono andati dispersi per via dei tombaroli del tempo e di quelli che hanno depredato l’Egitto tra il settecento ed il novecento.
Anche i romani non disdegnavano l’uso di anelli di vario genere sebbene la mia impressione sia che l’uso come sigillo o simbolo di potere fosse meno diffusa ed esso avesse una funzione maggiormente decorativa più simile a quella che in generale s’è imposta oggi.
Nel medioevo l’anello “chevalier” ritrovò il suo ruolo con maggiore vigore. Malgrado l’intensa produzione culturale di quel tempo, pochi sapevano leggere e scrivere e le immagini costituivano il più rapido metodo di comunicazione. Ed anche il più efficace. Condizioni che favorirono l’uso dell’anello per apporre la “firma” del sovrano o del potente su documenti la cui validità ed importanza poteva essere compresa da chiunque con un rapido sguardo. Il sigillo, in rossa ceralacca, era garanzia d’autenticità alla quale non era lecito opporre riserve.
Ne musei d’Europa non mancano, infatti, esemplari che vanno dai Longobardi fino agli ultimi sussulti di una stagione che, ingiustamente, è passata alla memoria per stereotipi cupi e in gran parte ingenerosi.
Parte di questa tradizione sopravvive nell’Anello Piscatorio del romano pontefice. Icona inconfondibile che, non a caso, alla morte del papa viene distrutto perché unico, inimitabile e garanzia di documenti che, così, non potranno essere contraffatti dopo la morte del santo padre. Ogni vescovo di Roma, infatti, ha il suo e questo lo segue nel suo pontificato e con lui scompare. Talvolta copie ne vengono realizzate a scopo museale e tali sono dichiarate. Ma l’anello piscatorio del papa è uno per ognuno.
La tradizione vuole che gli uomini portino l’anello “chevalier” secondo la logica medievale per la quale la spada si tiene nella mano destra e lo scudo si sostiene con la sinistra. Per cui, avendo spesso lo stemma della famiglia le cui origini concettualmente richiamano le immagini sugli scudi, lo si indossa sull’anulare sinistro. Gli inglesi, che amano distinguersi, tendono a portarlo sul mignolo come dovrebbero fare le donne. Ma si sa che la trasgressione è tipica dell’umanità per cui non è raro vederlo portato anche diversamente.
Non esiste una regola specifica sulla forma, il materiale, e le dimensioni poiché queste, nei secoli, hanno subito una quantità sterminata di mutamenti ed ibridi dovuti alla funzionalità di quel che era tanto un accessorio quanto un vezzo estetico. E per questo soggetto anche ai gusti di chi doveva portarlo dal momento che l’importante era ed è proprio la personalizzazione di questo prezioso pezzo di se stessi. L’anello “chevalier” è un’estensione del proprio spirito, dei propri pensieri e della propria storia. Quando, sull’argento o l’oro piuttosto che sull’onice, esso porta lo stemma della propria famiglia ecco che questo diventa un tramite tra il passato ed il futuro. Uno scrigno di storia e memoria destinato a passare a figli e nipoti. A sopravvivere alle piccole vite terrene di ognuno di noi per renderci immortali al dito delle nostre discendenze. Vuole una nota leggenda che Winston Churchill fosse così legato al proprio anello che mai se ne separò e che avesse “scavato” un segno preciso nella sua poltrona a forza di batterlo nervosamente sul bracciolo nei momenti difficili (che certo, occorre riconoscerlo, non gli mancarono nella vita!).
Ancora oggi, comunque, non è raro vederne al dito degli avventori che ci circondano. Tramandato dai padri e dai nonni piuttosto che prodotto su desiderio dell’interessato. Borghese con sigle, cifre, fantasiose immagini incise e nobile o nobilitato con lo stemma araldico proprio e della propria famiglia.
L’anello “chevalier” sopravvive al tempo che passa ed appassiona più persone di quanto si possa immaginare. Non a caso il web è pieno di insidie come anelli proposti a cifre ridicole, incisioni a laser (talvolta ritoccate per farle sembrare artigianali) e altre forme di sciacallaggio commerciale al limite dell’imbarazzante. Chi ha ereditato uno “chevalier” di famiglia porta orgogliosamente il dono degli antenati ma il mio consiglio, per chi desidera realizzarne uno, è di rivolgersi ad una gioielleria seria e la cui professionalità sia indiscutibile. Molte ve ne sono e tra queste mi piace ricordare quella dell’amico comm. Giovanni Battista Ballarino il cui negozio si trova a Cavour (TO) e le cui opere hanno affascinato principi, sovrani e grandi attori ed i cui anelli vengono realizzati con cura rara e rigorosamente con strumenti e tecniche artigianali di altissimo livello. Devo alla sua benevolenza anche alcune delle immagini che completano questo breve articolo. Per l’araldica, le regole (quelle si da seguire) sugli stemmi, le caratteristiche degli stessi, resta guida imprescindibile l’Annuario della Nobiltà Italiana diretto da Andrea Borella e la cui nuova edizione è prossima all’uscita.
Nell’era di internet, dei social network, della multimedialità, dell’etereo, sopravvive un piccolo oggetto carico di secoli di storia. Una macchina del tempo minuscola ma piena di dignità. L’anello sigillo, lo “chevalier”, ci ricorda da dove veniamo e ci raccomanda la via verso l’avvenire. Perché senza memoria siamo spoglie piante in balia dell’inverno, senza radici esposte al vento che dalla terra ci strapperà. La memoria rende solidi e fa guardare al futuro con maggiore speranza. Un passato ed un futuro riassunti in uno stemma araldico portato orgogliosamente al dito d’una mano. Lo “chevalier” è anche questo. E scusate se par poco!
Alessandro Mella
© 2024 CIVICO20NEWS – riproduzione riservata
Scarica in PDF