Cosa va rinchiuso ( o difeso) tra due parentesi. E perché.
Le parentesi tonde (esistono anche le quadre o le graffe, come in algebra, ma lasciamole perdere) “ospitano una incidentale che potrebbe anche omettersi”, come ci racconta Severgnini, oppure delimitano le parole che si vogliono isolare in un discorso, come dice la grammatica. Un esempio: “Mi rimproverò (e me lo meritavo); poi non mi rivolse più la parola.” La frase tra parentesi non è indispensabile per comprendere il significato della frase, ma lo completa, racconta che mi sono ricordata che meritavo quel rimprovero e voglio dirtelo. Non sarei tenuta a dirtelo, nell’economia del mio discorso, né tu sei obbligato a tenerne conto, ma ci tenevo a chiarirti che me lo meritavo proprio, quel rimprovero. Una precisazione: quando, nel punto in cui si apre la parentesi, la frase richiede un segno di interpunzione, questo va posto appena chiusa la parentesi.
“Lo sapevo bene io (e non solo io); quell’uomo era un manipolatore.”
Fin qui la grammatica e la prosa; ma se passiamo alla poesia le cose cambiano. Eccome se cambiano. Pensiamo, come abbiamo fatto per i puntini di sospensione, a Pascoli e ancora alla sua lirica Il libro: questa volta prendiamo in esame alcuni versi della prima strofa:
e sembra ch’uno (donde mai? non, certo,
dal tremulo uscio, da cui tentenna il vento
delle montagne e il vento del deserto,
sortì d’un tratto…) sia venuto e lento
sfogli- se n’ode il crepitar leggero-
le carte. E l’uomo io non vedo io: lo sento
invisibile, là, come il pensiero…
Nella parte più alta della casa, appoggiato su di un leggio di quercia, appare davanti agli occhi dell’autore un libro, antico come il legno di cui è fatto il leggio, anzi ancora più vecchio, forse è sempre esistito; e sente il rumore delle pagine sfogliate da un uomo che intuisce, senza vederlo, proprio grazie al fruscio delle pagine. E adesso esaminiamo il contenuto della lunga parentesi: da dove arriva l’uomo? Chissà, sembra dirci Pascoli, posso solo dire da dove non viene; certo non è uscito dalla porta scossa dal vento che arriva dalle montagne e dal deserto. Ma da dove arrivi non lo so proprio.
Certo, nell’economia del testo non è un particolare da poco sapere da dove arrivi l’uomo misterioso; o forse non è affatto importante, perché non è dato saperlo. Così come non è dato sapere dove si trovi il leggio con il libro; strano, questo vento che arriva dalle montagne e dal deserto. Dove siamo, in quale strana parte del mondo?
Ecco, sono le notazioni sulla provenienza, sull’origine dell’uomo, che stanno rinchiuse tra le due parentesi; come mai? Ovviamente non esiste un’unica risposta, ma possiamo tentarne una. La lirica, e questo è certo, è permeata da un profondo simbolismo, colmo di misteri e continui trasalimenti; si sente un rumore, si intuisce un uomo, ma non lo si vede. Chi è quest’uomo? È l’uomo in sé, l’umanità che cerca di scoprire il mistero della natura, allegoricamente nascosto nel libro? Ma anche l’uomo, a sua volta, è un mistero. Qual è la sua origine, da dove viene? È questo il significato delle parole tra parentesi: una notazione in più, qualcosa di cui potremmo fare a meno, come dice il buon Beppe? Non credo: la lingua di Pascoli è quella di un autore raffinato e colto che la modella secondo le sue esigenze artistiche. Il mistero sull’origine dell’uomo non è qualcosa di cui possiamo fare a meno, anche se ovviamente a livello sintattico i versi, terzine dantesche, corrono benissimo anche senza il contenuto della parentesi; ma l’autore vuole separarlo anche graficamente dal resto della lirica, lasciargli un posto importante, evidenziato, ma separato dal resto. Sottolinearne, in certo modo, la peculiarità.
E facciamo un altro esempio, sempre pascoliano: versi tratti da L’assiuolo , una lirica in cui l’autore, attraverso il verso dell’assiuolo, un piccolo uccello notturno, descrive l’alba (anche se è quanto mai semplicistico e riduttivo definire i versi una descrizione) non solo attraverso pennellate impressionistiche di colori e suggestioni, ma anche attraverso suoni pieni di echi misteriosi.
Su tutte le lucide vette
tremava un sospiro di vento:
squassavano le cavallette
finissimi sistri d’argento
(tintinni a invisibili porte
che forse non s’aprono più?…);
e c’era quel pianto di morte…
chiù…
Si alza un po’ di vento, si sente il verso delle cavallette e alla fine, come a conclusione di tutte le strofe precedenti, ancora chiù, l’onomatopea per indicare il verso dell’assiuolo, qui definito “pianto di morte”.
Lo zillare ( fa un po’ ridere, lo so, ma è questo il verbo per indicare il verso delle cavallette) delle cavallette è paragonato a quello dei sistri, antichi strumenti usati dai sacerdoti della dea Iside, oggetto di un culto misterico che parla di morte e resurrezione. E nella parentesi cosa si dice ? Che quel suono è paragonabile ad un tintinnio davanti a porte misteriose che forse non si possono più aprire. Potremmo fare a meno del contenuto della parentesi? Sintatticamente sì, certo, ma ci perderemmo qualcosa di bello; quei sistri d’argento che tintinnano sono un capolavoro di raffinata eleganza, e non solo. Anticipano, con una suggestione appena suggerita, l’idea della morte poi esplicitata nel “pianto di morte” che segue. E allora perché tra parentesi? Forse proprio per evidenziarli, per sottolineare che il verso delle cicale assume nella mente dell’autore un valore iniziatico, rituale e misterico, che può portare chi legge ai confini della vita, ma non ancora nell’aldilà, in quella zona d’ombra tra la vita e la morte, dove il mistero della fine e della rinascita si fondono chissà come. Un bel concetto, niente da dire; giusto evidenziarlo e sottolinearlo tra due belle parentesi tonde.
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