I fatti degenerano in stati d’animo.
“Emocrazia” è un neologismo che si sta facendo strada in alcuni circoli intellettuali europei e nord-americani, stando a significare un sistema in cui i discorsi e le decisioni sono dettate dalle emozioni, piuttosto che dalle considerazioni razionali. Con esso s’intende definire un comportamento politico basato sulla propensione a reagire all’emotività popolare, spesso definita e plasmata dai media, piuttosto che sul dibattito democratico antitetico.
E’ un’illusione di democrazia, in cui la fonte dell’opinione generale non è un insieme di valori comuni, ma certe emozioni che spingono a provare un forte sentimento (o ri-sentimento) nei confronti di un evento su cui si può speculare.
Viviamo in un’epoca particolarmente paradossale. Un’epoca in cui non è mai stato così facile avere accesso alla libertà di parola e, allo stesso tempo, un’epoca in cui non è mai stato così facile essere maltrattati, emarginati e “cancellati” per aver espresso la propria opinione, in particolar modo se essa diverge, anche di poco, dalla narrativa dominante.
Mentre in passato l’emozione veniva considerata come qualcosa di separato dalla ragione, che era meglio tenere a bada in forme e formati reciprocamente concordati dalle abitudini di ogni tempo e luogo, oggi gli esseri umani si identificano pubblicamente con le loro emozioni, che hanno conquistato il centro della scena nella nostra vita personale, professionale e pubblica. Tutti ci aspettiamo che i nostri partner, le nostre famiglie, i nostri amici, i nostri colleghi al lavoro, il nostro pubblico, così come i perfetti sconosciuti sui social media, comprendano e rispettino i nostri sentimenti e ci sentiamo autorizzati a infierire su di loro se invece li negligono; esprimiamo continuamente le nostre emozioni con smiley, emoji, luci dell’umore e riflessioni personali (online o offline); pretendiamo di essere felici, scambiando il diritto di perseguire la felicità con il diritto di essere già felici senza limiti a priori.
Tuttavia siamo lontani dall’essere concordi su come questo diritto dovrebbe essere sancito. Ad oggi, l’emocrazia non ha una sua costituzione, né principi, né leggi, né pratiche comuni. Succede e basta.
Nel 2019 lo storico britannico Niall Ferguson ha identificato questo paradosso contemporaneo, diagnosticando l’ascesa dell'”emocrazia” come una cultura in cui i sentimenti contano più della ragione: «Non viviamo più in una democrazia. – scrive Ferguson – Viviamo in un’emocrazia, in cui le emozioni, piuttosto che le maggioranze, governano e i sentimenti contano più della ragione. Più forti sono i sentimenti, più si è bravi a farsi prendere dall’indignazione, più si ha influenza. E non usate mai le parole quando le “emoji” ed i “likes” vanno bene.»
Apparentemente democratica, ma priva di un dialogo, di un discorso e di un dibattito mirati, la sfera pubblica moderna e di riflesso anche sovente quella privata, è stata plasmata principalmente da tre fenomeni che hanno rapidamente eroso le basi delle conversazioni civili, dell’impegno collettivo e del gioco intellettuale delle idee.
Il primo di questi fenomeni è la rapida intrusione del politicamente corretto nei principali forum di discussione, particolarmente nei portali dei social media. Nata per aumentare la sensibilità e creare consapevolezza sui pregiudizi inconsci o per ergersi a sostegno di fasce sociali discriminate, la correttezza politica si è ora trasformata in un marchio tossico di convenienza ideologica, in cui l’offesa e l’indignazione regnano sovrane.
In questo contesto, l’odio ha raggiunto la sua posizione predominante nel nostro discorso (pubblico e privato) a causa dell’abisso incolmabile tra, da un lato, la nostra necessità di esprimere liberamente ciò che sentiamo e, dall’altro, la nostra riluttanza a stare in presenza di ciò che non ci piace.
Il paradosso degli “haters” è il desiderio simultaneo di condividere apertamente ciò che li infastidisce o li fa arrabbiare e allo stesso tempo di non essere esposti a quelle cose.
In sintesi, non è possibile evitare di imbattersi in cose che non piacciono, ma nel caso degli “haters” la tolleranza per queste cose è minima o addirittura nulla, in quanto in generale, non sono disposti a rimanere in presenza di ciò che li disturba.
Si genera pertanto un atteggiamento in cui individui iniziano ad offendersi reciprocamente sulla base di linee stereotipate di pensiero. L’identità ed il rispetto personali vengono subordinati al pensiero di gruppo, scadendo in un comportamento, per così dire, paternalistico, che si basa sulla convinzione che coloro che scelgono di offendersi abbiano raggiunto un apice normativo da cui possono essere arbitri appropriati di ciò che è giusto e sbagliato, di ciò che può essere scusato come maldestro e di ciò che deve essere cancellato come inaccettabile.
Il secondo ingrediente della “emocrazia” è la polarizzazione della società in categorie e compartimenti distinti. Il suo fondamento ruota attorno al principio del “se non sei con noi, allora sei contro di noi”, portando alla scelta fallace di “noi contro loro”, all’idea inattendibile che le persone possano essere categorizzate in “buone” e “cattive” e che non sia necessario invitare o accogliere attivamente le opinioni della presunta parte opposta.
Questo apre la strada a interazioni sociali in cui i pregiudizi e le aspettative di conferma dettano ciò che viene detto o non detto, mentre l’insistenza nell’eliminare le opinioni che differiscono porta all’omicidio silenzioso della libertà di parola. Riconosciamo questa tendenza, per esempio, nel principio delle cosiddette “fake news”, che letteralmente significa semplicemente “notizie false”, ma nella pratica attuale sono diventate sinonimo di: “se la pensi come me, bene, altrimenti stai dicendo falsità”. Non dimentichiamo che in Europa è stata recentemente approvata una legge sulla libertà dei media e da non molto rafforzato il “Codice di condotta sulla disinformazione”, provvedimenti che mirano a determinare centralmente, in misura assai più stringente di quanto non sia avvenuto finora, quando un’informazione sia da ritenersi attendibile o meno.
Tale polarità dimentica che la libertà di parola è una libertà che si sostiene non solo quando si senta l’eco di posizioni condivisibili, ma anche e soprattutto quando si ascolta ciò che riteniamo inaccettabile. Voltaire si sta rivoltando nella tomba.
La repressione dei contenuti “inappropriati” – che si tratti di politica, arte o altre forme di partecipazione civica – garantisce una doppia violazione, come enunciato nell’iconico saggio di John Stuart Mill (20 maggio 1806–08 maggio 1873) sulla libertà (https://radicalmente.myblog.it/list/politica/1974000981.pdf): non solo calpestiamo il diritto, faticosamente conquistato, di chi parla di esprimere ciò che ritiene, ma priviamo anche un potenziale pubblico o interlocutore del suo diritto di essere esposto al contenuto di tale espressione.
Tale esposizione è fondamentale per indurci a chiederci perché sappiamo quello che sappiamo. Ma in una “emocrazia”, qualsiasi sfida alla nostra conoscenza modesta viene accolta con indignazione e vista come una licenza di scatenare insulti “ad hominem”, che fanno appello esclusivamente alle emozioni invece di promuovere l’intelletto, in quanto sul piano principale del giudizio antepongono le valutazioni personali sulla persona che si esprime, piuttosto che l’analisi obiettiva del contenuto di ciò che dice.
La terza e forse più perniciosa, componente della “emocrazia” è l’inesorabile tendenza alla cultura dell’annullamento, in cui individui e istituzioni vengono allontanati e isolati dalla società civile perché dichiarati inescusabili trasgressori dello spirito del tempo contemporaneo.
La cultura della cancellazione imperversa ovunque, come innumerevoli casi sotto gli occhi di tutti stanno a dimostrare, uno fra tutti il bieco oltraggio che sta venendo perpetrato attualmente dal cosiddetto mondo occidentale ai danni del popolo russo, vilipendendo e tentando di cancellare una delle antiche culture più significative dell’intera storia dell’umanità.
Il punto è che cancellando gli altri per cose che hanno fatto anni, decenni e talvolta secoli fa, una “emocrazia” impone retroattivamente standard morali che si sono a loro volta modificati nel tempo. Tale imposizione non tiene conto del contesto, dell’argomentazione o della possibilità di trasformazione.
Il pendio scivoloso della cultura dell’annullamento significa che, una volta imboccato, non ci si può fermare. Chiunque di noi ha sicuramente detto, fatto o pensato, in un dato momento della sua esistenza, qualcosa di problematico. Dovremmo allora cancellarci tutti a vicenda?
È innegabile che ci siano persone che meritano di essere richiamate per aver abusato del loro privilegio o della loro posizione, ma dov’è la soglia che separa la sciatteria dalla malizia e l’ignoranza dal male? Dov’è la sfumatura che individua l’intricato asse dello spettro morale, invece di cadere in un riduzionismo ipocrita e saccente? E soprattutto, chi potrebbe ergersi a giudice?
Trasformare o capovolgere le proprie idee, convinzioni e opinioni nel tempo non rende ipocriti, ma semplicemente umani, alla stessa stregua del provare emozioni.
Tuttavia i sentimenti e le emozioni, per quanto vitali per la nostra identità, non possono essere il tutto e per tutto della nostra sfera esistenziale, pubblica o privata che sia.
Con questo non si vuole negare l’aspetto determinante delle emozioni e dei sentimenti nella nostra vita attiva. Occorre tuttavia raggiungere quel sufficiente grado di maturità che consenta agl’individui di prendere le distanze dalle proprie emozioni abbastanza da accettare che anche altri esprimano le loro. Una sorta di tolleranza emotiva, nel rispetto del fatto che le emozioni degli altri possano essere diverse o addirittura opposte alle nostre.
Questo presuppone che i singoli esseri umani smettano di identificare integralmente il loro presunto sé con l’insieme dei loro stati emotivi.
Che cosa significa questo per il futuro delle comunità, delle conversazioni intercomunitarie e della comprensione che l’umanità ha di se stessa?
Per definizione, questa complessità della doppia attenzione significa che non posso più identificarmi completamente con la mia emozione, perché devo almeno marginalmente ammettere la possibilità che altri provino emozioni diverse dalle mie.
Automaticamente, quindi, non posso più considerare la mia emozione come il vero io col quale mi rivolgo verso l’esterno. Esso si trasforma invece in una manifestazione di qualcosa che potrebbe essere anche qualcos’altro e che quindi può anche non essere vero per me. Con questo presupposto, collettivamente, non è più possibile inquadrare semplicisticamente le differenti posizioni intercomunitarie come “noi contro loro”.
Al contrario, ogni conversazione interpersonale si trasforma in una sorta di complessa danza di espressione, ascolto ed esplorazione reciproca di emozioni diverse, senza perdere di vista le questioni pratiche da risolvere. Alla fine, non importa se la pensiamo diversamente l’uno dall’altro. L’importante è addivenire ad un accordo condiviso sui successivi passi da compiere.
La modernità ci ha portato l’affermazione dell’individualismo come segno distintivo dell’umanità e la fine del XX e l’inizio del XXI secolo hanno portato questa affermazione alla sua massima esperienza. Tra le caratteristiche che definiscono ciò che rende ciascuno di noi un individuo, la realtà soggettiva delle nostre rispettive emozioni interiori rimane uno degli aspetti più importanti. Questo è stato uno dei motori dell’ascesa del regno delle emozioni, dell’emocrazia nella sua forma attuale.
Ora, però, con le emozioni alla luce del sole, esse perdono paradossalmente il loro potere di definire il nostro presunto individualismo. Se i principi e le pratiche emozionali a cui mi attengo possono variare a seconda delle linee dominanti di pensiero da cui sono in un dato momento influenzato, esse non possono più essere definite le mie proprie emozioni individuali, ma le porto con me in un ambiente con un assetto emozionale comune chiaramente definito a priori.
E se il mio diritto di esprimere le mie emozioni non può che coesistere con il diritto di altri di esprimere le loro, sono al contempo testimone della possibilità e dell’esistenza di altre emozioni, riducendo così ulteriormente il mio individualismo generato dall’essere unicamente egocentato sulle mie.
Come esseri umani, convivere con le emozioni “là fuori”, significa accettare che, almeno emotivamente, siamo sempre anche ciò che non siamo: capaci di adottare posizioni emotive, ma non più definiti integralmente da esse.
Resterà da scoprire se sapremo collettivamente trovare un nuovo modo di ridefinirci come individui, più armonicamente integrati gli uni negli altri o se l’emocrazia alla fine ucciderà ogni tolleranza e ogni libero arbitrio e li sostituirà potenzialmente con qualcos’altro.
In ultima istanza la scelta è comunque sempre la nostra.
luca rosso
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