25 giugno 1969: «La morte del piccolo Antonio grida vendetta»
A Torino, nel quartiere Rebaudengo – nel 1969 indicato come Basse di Stura – nel caseggiato di recente costruzione di via Federico Patetta n. 18, abita la famiglia Castelluccio: i genitori, Salvatore e Natalina, originari di Roccanova di Potenza, hanno due figli, Antonio chiamato Tonino, di sette anni, e Rosanna di due.
Mercoledì 25 giugno 1969, poco dopo le 10:00, Tonino, in vacanza dalla scuola, scende a giocare con gli amici in un prato vicino a casa. A mezzogiorno, la mamma lo chiama, ma non lo vede tornare, scende, inizia a cercarlo invano e poi dà l’allarme. In seguito, viene fatta denuncia di scomparsa al Commissariato Barriera di Milano e così Tonino viene cercato dalla Polizia e da parenti e amici. Di ora in ora, le ricerche si fanno sempre più affannose. Viene anche superficialmente controllata la cantina della casa, ma non si nota niente di anormale.
Alla mezzanotte, due parenti con due loro amici decidono di scendere in cantina, per esaminarla a fondo con l’ausilio di una torcia elettrica, visto che l’impianto di illuminazione condominiale non la illumina completamente e vi sono zone che restano al buio. Notano così che un alto scalino immette al vano della caldaia e, tra questa e la parete, vi è una nicchia piena di vecchi giornali sui quali è posata una larga asse di legno. Uno dei cercatori scorge una gamba, solleva l’asse, fruga e scorge il corpo di Tonino, con una cordicella stretta al collo, i due capi annodati sulla gola. È stato piegato per spingerlo nello stretto vano, ha la maglietta arrotolata sul petto e i calzoncini in parte abbassati. Così, alla luce di una torcia elettrica, viene fatta la macabra scoperta.
Inizialmente si scrive che Tonino è stato strozzato nella cantina, poi gli è stata stretta la cordicella al collo. Non si esclude che sia stato picchiato, l’assassino ha tentato invano di violentarlo. La morte è collocata tra le 10:30 e le 11:30 del mattino.
Inutile sottolineare l’ondata di emozione destata nell’opinione pubblica da questo delitto.
«Tutti i delitti sono orrendi. Ma questo lo è più degli altri. Non bisogna risparmiare sforzi per venirne a capo», scrive La Stampa del 26 giugno. Nella stessa pagina, la didascalia della foto del corpo martoriato – pubblicata senza censure, secondo i criteri deontologici del tempo – afferma «La morte del piccolo Antonio grida vendetta». In questo clima si svolgono le indagini della Squadra Mobile, dal febbraio 1968 diretta dal commissario Giuseppe Montesano. Sono circoscritte agli abitanti della casa, perché la porta della cantina è sempre chiusa a chiave.
I sospetti si sono presto orientati verso un insospettabile inquilino: Alfredo Bosco, pensionato FIAT di 62 anni, pacifico, non bevitore, gentile, riservato, sposato e con un nipotino. È ancora vigoroso, con disarmanti occhi chiari. Sono usciti dalla sua cantina l’asse e i giornali che nascondevano il corpo e la funicella stretta al collo di Tonino. Alfredo Bosco, quando viene invitato in Questura chiede «Ma veramente pensate quello di me?».
Secondo la prassi dell’epoca, Bosco viene a lungo interrogato dalla Squadra Mobile. Nella notte, alle 1:30, fa una prima ammissione, poi ritrattata. Intanto Montesano comunica ai giornalisti la confessione. Dopo mezz’ora Bosco si è arreso: il commissario lo descrive come un uomo a pezzi che chiede l’assistenza di un sacerdote.
Dopo 24 ore, la Squadra Mobile può così annunciare la scoperta dell’assassino di Tonino Castelluccio. Questo crimine ha sconvolto Torino e la notizia della confessione del colpevole appare rassicurante. È però diffusa la sensazione di stupore, destato dal fatto che l’assassino è un anziano fino ad allora irreprensibile. Si comincia a scrivere che Tonino lo chiamava “nonno”, circostanza che Bosco si ostinerà a negare.
Compaiono su La Stampa articoli di specialisti che tentano di trovare una spiegazione al suo comportamento.
Il 29 giugno è celebrato il funerale di Tonino.
Al 1° luglio appare la notizia che Bosco è in cella d’isolamento, dove gioca a dama da solo. Dopo la confessione in Questura, l’ha ripetuta davanti al giudice istruttore, negando però il tentativo di violenza. Poi, parlando con il suo avvocato, ha ritrattato e sostiene di aver confessato per paura, anche se non è stato toccato.
Si parla di sottoporre Bosco a perizia psichiatrica. Al 1° agosto, vengono resi noti i risultati dell’autopsia: Tonino è stato scagliato con forza nel nascondiglio e, nell’urto con la parete, ha riportato una profonda lesione al capo che ne ha provocato la morte, dopo alcune ore di atroce agonia.
Si percepisce ancora l’ansia di trovare una spiegazione al comportamento di Bosco. Stampa Sera del 9 ottobre 1969 pubblica l’autorevole articolo Il parere dello psicologo. L’impulso di uccidere, scritto dal professor Andrea Romero, Primario neurologo dell’Ospedale Mauriziano di Torino.
Alcuni giorni dopo, il 12 ottobre, ai apprende che il giorno precedente è stata depositata la perizia psichiatrica del professor Gamna, perito dell’accusa, che definisce sano di mente Bosco, il quale persiste a negare.
Il 9 luglio 1970 il pensionato è rinviato a giudizio in Corte d’Assise per omicidio volontario, aggravato da motivi abbietti e atti di libidine su un minore. Un reato da ergastolo.
Il processo inizia in Corte d’Assise il 9 dicembre 1970. L’ avvocato difensore già in precedenza ha dichiarato che non ci sono prove contro di lui e che si tratta di un processo indiziario. Da parte sua Bosco, per la prima volta, sostiene di essere stato picchiato durante l’interrogatorio in Questura. Messo a confronto con il padre di Tonino, nega che il bambino lo chiamasse “nonno”.
Testimonia anche il dottor Montesano.
Il Pubblico Ministero chiede 22 anni di carcere, in considerazione della sua lunga vita onesta e laboriosa, anche se meriterebbe l’ergastolo.
Nell’udienza del 14 dicembre 1970, l’avvocato difensore chiede l’assoluzione. Alle ore 19:00, dopo tre ore di Camera di Consiglio, il Presidente legge la sentenza di condanna all’ergastolo. Bosco deve essere sostenuto dai Carabinieri.
Subito si parla di ricorso in Appello, ma con sentenza del 21 ottobre 1971 l’ergastolo viene confermato.
Si concludono così le informazioni della cronaca su questa brutta vicenda, dove non abbiamo la certezza che la verità giudiziaria coincida con la verità. Una vicenda che conferma la profonda distanza tra la rassicurante letteratura poliziesca e il true crime, rievocata perché appartiene comunque alla cronaca della nostra città e può farci meditare sui limiti della giustizia umana.
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