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La dinastia Savoia è stata una delle più longeve della storia europea, iniziata con Umberto I di Biancamano nell’XI secolo e durata quasi mille anni, anche se in particolare in quel primo periodo, le informazioni storiche pervenute sino a noi sono poche e frammentarie, spesso frutto di leggende. “A partire dal XIV secolo, i monaci dell’abbazia cistercense di Hautecombe e poi gli storici di corte di Casa Savoia – in particolare un certo Jean d’Orville, detto Cabaret – hanno costruito una genealogia fantasiosa del conte Umberto, facendolo risalire a un ipotetico duca di Sassonia, Beroldo, che sarebbe appartenuto alla dinastia ottonide, la quale aveva dato alcuni imperatori al Sacro Romano Impero Germanico”, leggiamo nel libro “Savoia esoterici” di Gianluca Giani. Anche all’epoca la promozione pubblicitaria funzionava molto bene! Da allora una moltitudine di uomini e donne si sono avvicendati nella lunga storia della casata, e spesso si trattava di unioni politiche, con donne provenienti da altri luoghi e che inevitabilmente portavano con loro abitudini, culture e miti diversi, che si andavano a sommare alle credenze esistenti, creando nuove venature esotiche.
Un elemento comune è che quasi tutti i Savoia ritenevano di avere poteri pressoché soprannaturali, in virtù dell’investitura divina ricevuta e forse anche per una cultura del magico che nei secoli precedenti era più presente di quanto non lo sia attualmente.
La ricerca di reliquie e di oggetti “strani”, che potevano proteggere dalle malattie, oppure propiziare la sorte non era certo una novità, si potevano trovare portafortuna e protettori anche nell’Antico Egitto o nell’Antica Roma, ma per i Savoia era diventata una vera e propria necessità, vuoi per uso personale, ma soprattutto per attestare il potere della dinastia. Lo dimostra la Sindone, reliquia per eccellenza, di cui si è spesso parlato perché la sua storia oscilla tra religione, realtà storica e fede; in ogni caso la reliquia, un lenzuolo di lino che reca incisa l’immagine di un uomo le cui ferite sono compatibili con quelle inflitte a Gesù sulla croce, è conservata a Torino dal 1578 ed era di proprietà proprio dei Savoia, almeno dal 1353, anno in cui sappiamo che il cavaliere Geoffroy de Charny aveva fatto costruire una chiesetta a Lirey, in Francia, per l’Ostensione del telo, di cui non disse mai la provenienza. Forse era stata trasportata dai cavalieri Templari? Ma questa, seppur affascinante, è un’altra storia.
Il mito dell’unicorno è unico e incredibile, e avvolge quasi tutta l’Europa; si tratta di un cavallo bianco con un corno in mezzo alla fronte, coda leonina e zoccoli biforcati e il suo corno funzionava da antidoto per gli avvelenamenti. Nel Medioevo di riteneva, anche in ambienti scientifici, che il mitico animale esistesse e la Chiesa stessa si era impossessata della sua leggenda, presentandolo come quarto animale simbolico delle virtù della Vergine Maria.
I Savoia si entusiasmarono e inviarono persino degli emissari, che avrebbero dovuto portare a corte l’unicorno, per poi probabilmente ucciderlo, perché il corno doveva essere sbriciolato… In qualche modo il corno arrivò davvero, infatti quando nel 1391 il Conte Rosso, Amedeo VII, cadde da cavallo ferendosi gravemente, Jean de Grandville, il medico di corte, ormai quasi disperato, tentò di fargli bere una pozione composta da vino rosso e polvere di corno, conservato a Corte, ma il Conte Rosso non volle berla, ritenendo che lo stessero avvelenando e facendo nascere un vero pandemonio. Citando ancora Giani: “Sul letto di morte, il conte fece testamento, affidando la reggenza della Savoia a sua madre, Bona di Borbone e non a sua moglie, Bona di Berry. L’erede, Amedeo, aveva infatti soltanto otto anni. Nella corte di Chambery si diffuse, quindi, la voce che il conte rosso fosse stato ucciso con il veleno. Si formarono due gruppi antagonisti: uno intorno alla madre, Bona di Borbone e uno intorno alla moglie, Bona di Berry. Addirittura, il secondo gruppo accusò il primo di aver tramato per avvelenare il povero conte. Fu nominata una commissione di inchiesta. I partigiani di Bona di Berry scovarono persino uno speziale, un certo Pierre de Lompnes, che ammise – ovviamente sotto tortura – di aver fornito il veleno al Grandville per uccidere il Conte Rosso su istigazione della madre. Il Lompnes fu immediatamente decapitato e squartato come si conveniva per un delitto di quel genere. Alcuni anni dopo, però, con la pace tra le due Bona, lo speziale fu riabilitato e i suoi resti riesumati e sepolti cristianamente. Stava per profilarsi una guerra civile con tutti i crismi, ma l’8 maggio 1393 fu firmato un trattato di pace tra le due contesse. Bona di Borbone continuò a gestire gli affari della contea di Savoia, in attesa della maggiore età del nipote, Amedeo VIII, che sarebbe poi diventato il primo duca di Casa Savoia”.
E che dire dell’alchimia, la pratica secondo la quale i metalli si potevano trasmutare in oro, che si porta appresso la ricerca della pietra filosofale, l’elisir di lunga vita e soprattutto la nascita della chimica moderna? Margherita di Valois, moglie di Emanuele Filiberto ne era affascinata e anche se la leggenda racconta che conducesse esperimenti alchemici nei sotterranei del castello degli Acaia, poi Palazzo Madama, non vi sono documenti che attestino questo particolare, se non che la Duchessa proveniva da Bourghes, nota città dell’alchimia e amava leggere testi scientifici. Sappiamo che intratteneva rapporti epistolari con gli scienziati dell’epoca, come Jacques Gohori, alchimista, autore di un compendium su Paracelso, Antonine Mizault, esperto di comete e di erbe, e altri. Soprattutto, mentre lei teorizzava, il marito cercava di riprodurre oro con una attrezzatura appositamente acquistata e abbiamo anche una sua ricetta “par hacer oro” (scritta in spagnolo, lingua che padroneggiava): secondo la ricetta, bisogna fondere insieme rame, zinco con un’aggiunta di erba celidonia.
Tra i numerosi elementi che fanno capire l’interesse dei Savoia per la magia e l’esoterismo, c’era anche la volontà di svelare il futuro, per questo presso la corte era sempre presente un astrologo, che poteva essere consultato in qualsiasi momento, ma quando c’erano esigenze particolari, si doveva chiedere il parere dei luminari! Per questo pare che nel 1556 (prova ne è una lapide scomparsa e poi forse ritrovata) Emanuele Filiberto avesse invitato a Torino Nostradamus per avere una previsione sulla nascita del figlio maschio, (informazione contradditoria, in quanto Emanuele Filiberto arrivò a Torino solo nel 1562, è più probabile che Emanuele Filiberto avesse incontrato l’astrologo altrove). Nella Biblioteca Reale di Torino è conservato l’oroscopo rilasciato dal noto e amato astrologo, sopra c’è scritto che l’erede si sarebbe chiamato Carlo, che sarebbe stato un grande condottiero e avrebbe avuto una morte non violenta sulla strada per Gerusalemme quando un nove sarebbe stato davanti a un sette. Incredibilmente, o forse no, il 26 luglio 1630 Carlo Emanuele I morì in via Gerusalemme a Savigliano…
Carlo Emanuele I era un personaggio curioso e amante dell’arte e dell’occultismo, tanto che iniziò una collezione di wunderkammer (i musei delle meraviglie del passato, molto in voga tra i nobili) per conservare la quale fece persino costruire una galleria dall’architetto di corte Ascanio Vitozzi.
Non è così strano che il pensiero magico e la volontà di possedere oggetti di potere abbia attraversato le vite di molti esponenti della dinastia, e spesso i racconti che ne derivano sono curiosi, così come le leggende, che hanno creato miti difficili da estirpare, a volte ingigantendo gli eventi, in una danza tra sacro e profano che affascina e che apre la porta alla ricerca di nuovi e ulteriori elementi che supportino la comprensione del passato.