A proposito della cittadinanza onoraria a Emanuele Filiberto
Per molte persone il passato non passa, e la memoria diventa una coazione a ripetere anche quando non sarebbe proprio il caso.
Un piccolo, ma non insignificante, episodio dei giorni scorsi lo dimostra.
Il comune di Valdieri, nel cuneese, ha deciso di conferire la cittadinanza onoraria al principe Emanuele Filiberto di Savoia, che il 22 e il 23 settembre sarà nella cittadina e in Val Gesso per ricevere il riconoscimento e visitare i luoghi storicamente legati alla sua Casa reale.
Un atto semplice, spontaneo che va a ricollegare un passato significativo del territorio a un personaggio che ancora oggi lo rappresenta, non solo nel nome che porta ma anche per l’affetto e l’impegno verso la comunità locale.
Che cosa rappresenti la Casa Savoia per la Val Gesso e per Valdieri è noto: una presenza costante e radicata nel tempo che ha testimoniato una devozione, soprattutto popolare, verso quei sovrani che l’avevano eletta a luogo non solo di svago ma anche di partecipazione alla vita della gente locale.
Riconoscere all’ultimo erede di quella dinastia questo rapporto, sentimentale ma anche materiale, a nostro avviso, è semplicemente opportuno e giusto sia dal punto di vista storico sia da quello sociale.
La cosa ha invece scatenato, com’era prevedibile, i riflessi pavloviani della sinistra locale e ha provocato un rumoroso sommovimento gastrico in alcuni suoi esponenti.
Tutti, dal Comitato Vivere la Costituzione al vicepresidente del Consiglio regionale, dal consigliere piddino Calderoni a Marco Revelli, hanno manifestato la loro indignazione con il consueto linguaggio resistenzial-antifascista che conosciamo.
Soprattutto Marco Revelli si è lasciato cadere in un’invettiva iraconda che rivela un odio ideologico ben sedimentato nel tempo: “Si tratta di un insulto, di una bestemmia”, dice il sociologo, “un insulto alla memoria della gente crepata per colpa di quella famiglia” e di “quel re vigliacco e traditore”. E poi continua con tutta la ben nota retorica da festa della Liberazione.
In tutta questa esagitazione, in questa fiammeggiante esaltazione anti-monarchica, in questo voler a tutti i costi imporre e re-imporre continuamente la loro narrazione di fatti risalenti a ottant’anni fa (di cui inevitabilmente va sbiadendo la memoria, loro malgrado), c’è un qualcosa di ossessivo, travestito da missione etica, che impedisce ogni giudizio oggettivo.
Nessuno nega ovviamente il significato morale e politico della lotta partigiana, il sacrificio delle persone che salirono in montagna e la loro volontà di riscatto, ma attribuire tutte le colpe ad un re “vigliacco e traditore” è una semplificazione rozza e decisamente squilibrata, ancor più se proveniente da un accademico e un intellettuale come Revelli e da rappresentanti delle istituzioni; i quali tutti, pur riconoscendo -bontà loro- che le colpe dei padri non possono ricadere sui figli, di fatto vedono in Emanuele Filiberto il portatore di una “colpa dinastica” che sembra quasi estendersi anche ai precedenti sovrani e membri di Casa Savoia che frequentarono Valdieri e la Val Gesso in passato.
E comunque opporsi ad una onorificenza, o addirittura chiedere all’ultimo Savoia di rinunciare ad essa, significa nei fatti estendere responsabilità storiche a figli e nipoti e domani, forse, ai pronipoti, e magari ancora a tutti i “discendenti maschi” della dinastia, come recitava l’abrogata XIII disposizione della Costituzione in una sorta di irredimibile damnatio memoriae.
D’altra parte è radicata abitudine della sinistra moraleggiare con indignazione su tutto e su tutti, da Sangiuliano a Berlusconi, da Meloni a Craxi, dal fascismo al giolittismo, su su fino al Risorgimento e al più remoto passato; e non ci stupiremo se prima o poi arriverà anche nel nostro paese una sorta di cancel culture all’americana che ci chiederà di riscrivere i libri di storia e magari di abbattere le statue dei Savoia nelle nostre piazze e cambiare la toponomastica delle città eliminando i loro nomi da lapidi e targhe. Ci stupisce che un Raimo o un Montanari qualunque non abbiano ancora fatto la proposta.
Le parole di Revelli e degli altri indignati sono appunto il prodotto di quella “storia giustiziera” che tanto piace a chi ne vuol fare monito perenne, ricordo indelebile, polemica continua, sempre estensibile al presente (ricordate certe recenti orazioni da 25 aprile?) e molto spesso per attaccare gli attuali nemici politici.
Un “re vigliacco e traditore”, indegno responsabile di tanti morti?
A parte il fatto che è difficilissimo trovare nel passato un sovrano che non sia in qualche modo responsabile di una o più guerre col relativo carico di morti, forse varrebbe la pena di valutare Vittorio Emanuele III con un po’ più di sangue freddo, senza la sovreccitazione di questi giorni, per capire chi fu veramente quel re, secondo il saggio consiglio di Spinoza: nec lugere, neque detestari sed intelligere.
Appunto, capire che un re come quello detestato da Revelli e compagni, travolto da eventi disastrosi assieme a una intera nazione e, soprattutto, assieme a un’intera classe dirigente, forse può anche non essere l’unico responsabile e forse non essere neppure totalmente responsabile. Presentarlo come un “re discusso”, al posto della sprezzante definizione di Revelli, come fa Aldo Alessandro Mola nel suo recente Vita di Vittorio Emanuele III 1869-1947 (Bompiani 2023) costituisce invece un vero tributo alla verità storica. Un libro ampiamente documentato e argomentato che restituisce al Sovrano una dimensione realistica e, soprattutto, definisce e redistribuisce le vere responsabilità degli eventi che segnarono la nostra storia fra il 1922 e il 1945, un libro cioè che potrebbe insinuare qualche dubbio persino nelle lapidarie convinzioni di Revelli e resistenzialisti vari.
Temiamo però che si tratti di una speranza mal riposta: quando i fatti e le ideologie vengono alle mani è facile prevedere chi finirà al tappeto. Soprattutto in una terra come il cuneese dove, come dicevamo all’inizio, il passato non passa e la leggenda, nel bene e nel male, prende il posto della storia anche nelle parole delle persone più rispettabili.
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