Di Aldo A. Mola
Parole magiche e “fatti”: la sovranità….
Non solo in Italia la vita quotidiana delle persone è fondata su Parole che vengono date e accettate quali Realtà, anche se non corrispondono a “fatti”. “Verum et Factum convertuntur” davvero, come insegnò Giambattista Vico? O la reciprocità tra Parola e Realtà è solo una convenzione che esige convinzione e basta l’una per costituire l’altra? Forse lo storicismo assoluto ha trasferito sul piano umano la Rivelazione cristiana: “Verbum caro factum est”. Una Rivelazione, quella cristiana, che fu anche Rivoluzione, con i suoi apostoli e i suoi màrtiri, come quelli registrati negli ultimi due secoli e mezzo per l’avvento del Mondo dei Diritti: dalla guerra per l’indipendenza della Nuova contro la Vecchia Inghilterra sino ai nostri giorni, perennemente inquieti perché ancora alla ricerca dell’“ubi consistam” filosofico di un processo al passato e di un cammino verso un futuro dai tratti sempre meno cartesianamente chiari e distinti.
Una tra le Parole di uso comune è “sovranità”. Come tutte le formule “magiche” essa è apodittica: non ha bisogno di dimostrazione. Dà per scontato l’esistenza dello Stato, una realtà asserita in dottrina ma fluida nella realtà. Secondo la sovranità, lo Stato “c’è”, come usava scrivere Francesco De Sanctis, filosofo prima che autore della storia della letteratura italiana: lunga e meritoria fatica tesa a dimostrare la legittimità dello Stato d’Italia sorto dall’unificazione nazionale, al di là di quanto effettivamente creduto e voluto dai suoi protagonisti, fra i quali solo una esigua minoranza ritenne che esso fosse Rivelazione del nuovo Soggetto della storia, la nazione-popolo, e quindi, in definitiva, una Rivoluzione. Il rovello di De Sanctis era già stato il tormento sintetizzato dal cripto-giansenista Alessandro Manzoni nel più complesso dei suoi Inni: “La Pentecoste”. Vi evocò la Buona Novella di due millenni addietro per riflettere e far riflettere sul Vangelo che da trent’anni sconvolgeva l’età a lui contemporanea: il terremoto della Grande Rivoluzione, la sequenza di onde sismiche e groviglio di ordinamenti segnati da pagine di ferocia belluina.
Walter Veltroni recentemente ha rievocato l’orribile linciaggio di Donato Carretta. Vicedirettore del carcere romano di Regina Coeli, il 18 settembre 1944 si presentò quale teste al processo a carico del vicequestore Pietro Caruso, accusato di aver consegnato ottanta prigionieri politici suppliziati dai nazisti alle Fosse Ardeatine. Mite e comprensivo verso i detenuti politici, Carretta venne individuato e finì nella malabolgia di chi lì non aveva sete di giustizia ma di sangue. Il sedicente conte Carlo Sforza, collare della SS. Annunziata e repubblicano invasato, dichiarò che una “scena di quel genere” era “comprensibile”: “calcolo” prosaico. Nei “Promessi Sposi” Manzoni non esitò invece a proporre la centralità dell’omicidio rituale quale momento risolutivo e catartico del processo storico. Il linciaggio di Francesco Prina (20 aprile 1814), ministro delle Finanze del napoleonico Regno d’Italia (che non era affatto uno Stato sovrano, come poco oltre ricordiamo), da parte di aristocratici (incluso Federico Confalonieri) e alti borghesi di Milano, costituì appunto segnacolo di “svolta” proprio perché consumato da un “collettivo”. Non rappresentò dunque un efferato assassinio, quale in effetti fu (e ne abbiamo visti molti altri, ripresi in diretta, negli ultimi tempi) ma la manifestazione della “giustizia plebea” evocata da Palmiro Togliatti in consiglio dei Ministri quale legittimazione insindacabile della confisca del Potere Supremo da parte del governo e del suo trasferimento dal Re al presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, esitante, con gli occhi bassi, consapevole di assumere una responsabilità storica di portata superiore alla sua persona e alla sua parte politica.
…e lo Stato: un arcano maggiore
Come il Verbo che diviene un Fatto è lo Stato. La sua definizione, però, da millenni è motivo di dispute. Sovranità sta per potere superiore a ogni altro: supremo. Essa sottintende l’esistenza dell’“imperium” illimitato ed esclusivo, dalle profondità della terra alle stelle. A sua volta, però, è un Ente arcano. Nel diritto internazionale (che secondo alcuni giuristi non ha fondamento, perché frutto di convenzioni tra pari mentre il diritto pubblico è, o sarebbe, sovrano assoluto) esso presuppone l’esistenza di un territorio, di un popolo (o nazione”) e di un “Principe”, fonte del diritto.
Nei secoli la dottrina ha mirato a conferire veste giuridica ai “fatti”. In molti casi, come in Italia, essa fa riferimento a Costituzioni, ovvero alle cornici che hanno definito la realtà generata dalla storia, cioè da “fatti” che vengono convertiti in “verbum” imposto come “verum”. In alcuni Paesi i costituenti hanno lasciato aperta la via a riforme della Carta fondamentale, ma secondo norme stringenti. È il caso dell’Italia, la cui Costituzione subordina l’approvazione delle leggi di revisione della Carta stessa e le altre leggi costituzionali alla procedura “aggravata” prevista dall’art. 138 (doppia approvazione a maggioranza assoluta di ciascuna Camera e referendum confermativo, salvo nella seconda votazione la legge sia stata approvata con la maggioranza qualificata dei 2/3).
Alcuni lamentano che la “rigidità” della Costituzione costituisca una gabbia le cui sbarre rischiano di finire prima o poi spezzate dalla pressione del “popolo”, stanco di essere relegato a ruolo marginale mentre è il detentore originario della sovranità. Sin che si si manifesta alle urne o nell’astensione dal voto, la “rivolta” è contenuta nella normalità fisiologica della contesa ideologica e partitica, ormai marginale nella vita pubblica. Il rivolgimento, infatti, potrebbe avvenire solo in nome della sovranità popolare che è il soggetto assunto a fondamento dello Stato ed esclude ogni possibile “rivale”, compresa la pretesa (nel caso dell’Italia) di mutarne la forma repubblicana, che non può essere oggetto di revisione costituzionale. Diversamente il rivolgimento cozzerebbe contro la legalità costituita e andrebbe represso “ad modum belli”, in nome della continuità dello Stato, che non consente né fratture né vuoti di potere.
Le lambiccate e cangianti proposte di revisione dei poteri del presidente del Consiglio, oggi in discussione, fanno appello alla volontà del “popolo” e sono quindi destinate alla verifica referendaria, con i rischi che questa comporta ove costituisca motivo di divisione dell’elettorato e quindi dell’unità formale e sostanziale di un Paese profondamente bisognoso di armonia interna per affrontare le prove che gli impongono due malattie maligne: la voragine del debito pubblico e la stagnazione della crescita, unico correttivo per risalire sia pure lentamente verso quel risanamento che ormai è come la fata morgana: sfuggente, remoto e fuori portata del governo, ai danni della sua sempre più labile sovranità. Quest’ultima è un patrimonio (ormai pressoché dissipato) che va ben oltre le fortune di questo o quell’esecutivo, di una o altra coalizione di governo, vuoi di maggioranza vuoi di altra consistenza. La cosiddetta Prima Repubblica (nel diritto e nei fatti l’unica esistita, sopravvissuta a tante sventure e tuttora esistente) non per caso ha sperimentato svariate formule di governo (coalizioni pluripartitiche, bicolori sorretti da appoggio esterno, monocolori “di scopo” o fondati sulla “non sfiducia” anziché sulla fiducia…) senza nocumento apparente per lo Stato.
Genesi e avvento dello Stato d’Italia
“Sic stantibus rebus” giova domandarsi quale sia stata nel tempo la conversione del “verbum” con il “factum” nella genesi dell’Italia.
Lo Stato attuale nacque dalle guerre condotte dal Regno di Sardegna dal 1848 al 1861 e poi da quello d’Italia sino al 1918 per far coincidere i confini politici con quelli geografici dell’Italia qual era configurata sin dall’età di Augusto, ma con l’aggiunta di due delle tre “grandi isole” (Sardegna e Sicilia), estranee all’Italia augustea, ripartita in undici Regioni. Quel settantennio, pari, all’epoca, a una generosa “speranza di vita” e a due generazioni, ebbe alle spalle mezzo secolo di sperimentalismo costituzionale oggi condensato in un paio di antologie ma pressoché del tutto dimenticato. Quasi dieci anni orsono, in una stagione pulsante di riforme costituzionali prospettate da Matteo Renzi e drasticamente chiusa dal suo fallimento in sede referendaria, Enzo Fimiani e Massimo Togna ne proposero una, “Le Costituzioni italiane, 1796-1948”, con sobria prefazione di Giovanni Legnini (ed. Textus, marzo 2015). Nella Presentazione del libro Maria Elena Boschi, Ministro per le Riforme Costituzionali e per i Rapporti con il Parlamento (le maiuscole sono sue), si ritenne in dovere di fugare il sospetto che la pubblicazione volesse “usare le vicende storiche in base alle esigenze del presente”. Malgrado l’“excusatio non petita”, il volume intese documentare il “continuo susseguirsi di tentativi di riforma delle istituzioni, i quali nonostante i ripetuti fallimenti, hanno permesso il sedimentarsi di soluzioni condivise”. Non bastasse, il Ministro Boschi mise in guardia da illusioni: “Non basta procedere con i necessari e doverosi cambiamenti della Carta costituzionale, perché ci sono difetti radicati, nel nostro sistema, che con essa hanno poco o nulla a che fare”. La denuncia dei “difetti radicati” riecheggiava le “tare originarie” reiteratamente lamentate da Giorgio Napolitano nei discorsi pronunciati nel 150° del regno d’Italia (2011), celebrato come “unità nazionale”. Sono formule infrastoriche, di valenza magica. Rinviano a non si sa bene quale destino cinico e baro, reo di aver tarpato dalle origini nascita e avvento dello Stato d’Italia. O forse è chiaro, ma si preferisce avvolgerlo nei drappi della sequela di Carte prodotte per conferire veste giuridica perpetua ai diversi “Stati” sorti da quando, nel 1796, dilagò in Italia l’Armata capitanata dal generale Napoleone Buonaparte (Ajaccio, 1779-Isola di Sant’Elena, 1821).
Dalla Costituzione della Repubblica di Bologna del 1796 a quella del Regno delle Due Sicilie del 1820 il volume presentato dal ministro Boschi raccolse le Carte approvate da altrettante assemblee o promulgate da chi ne aveva il potere: in un quarto di secolo pullularono ventisei Costituzioni o Atti Costituzionali (come son detti i due susseguitisi a Lucca nel 1805) o Statuti costituzionali (come quelli del regno d’Italia del 1805-1810 e del Regno di Napoli e Sicilia del 1808).
Valendosi di ricerche archivistiche proprie e di una sterminata produzione saggistica altrui Luca Addante ha recentemente sintetizzato la fase iniziale di quella produzione giuridica in “Le Colonne della Democrazia. Giacobinismo e società segrete alle radici del Risorgimento” (Laterza, 2024): sei vasti capitoli che procedono dall’aurora di un supposto “movimento politico italiano” alla Società dei Raggi e ai movimenti carbonari sorti dopo il Triennio rivoluzionario, dal quale scaturì il ventaglio di Repubbliche chiuso con la Repubblica Italiana del 1802 (di fatto poco più che “milanese”) del, tre anni dopo volta in Regno d’Italia, a sua volta ristretto alle regioni dell’Italia settentrionale a eccezione niente affatto trascurabile del Piemonte e della Liguria, direttamente incorporati nell’Impero dei Francesi nel cui ambito il celebrato regno d’Italia (niente affatto premessa logico-cronologica di quello proclamato nel 1861) costituì una “marca”, la cui corona fu assunta da Napoleone I e la cui reggenza venne affidata a Eugenio di Beauharnais come viceré.
Addante impernia la costruzione storiografica dei tumultuosi anni rivoluzionari sull’intreccio fra giacobini e società segrete, i cui propositi vennero rivelati da infiltrati, pronti a denunciare la rete “masso-giacobina” attiva nell’Italia settentrionale. Al netto dell’apprezzamento per la dovizia delle informazioni fornite al lettore, vanno avanzate due considerazioni. In primo luogo rimane aleatoria la configurazione dello “Stato” che sarebbe dovuto scaturire da quella “rivoluzione”. Se gli ideali e i principi ispiratori delle “sette” sono enunciati e, come noto, in massima parte desunti dall’esperienza francese, soprattutto dalla Cospirazione degli Eguali di Caio Gracco Babeuf, molto meno sicuro è il loro riferimento alla “Massoneria”, che all’epoca comprendeva un caleidoscopio di “entità”, costituzioni, riti, soggetti e articolazioni associative. Come già osservato da Giuseppe Giarrizzo, su impulso “francese” le (peraltro poche) logge esistenti divennero club rivoluzionari. A quel modo, però, cessarono di essere “massoneria” e si risolsero in organizzazioni propriamente “politiche”, dedite a imprese estranee alle logge che di per sé non si occupano (o non dovrebbero occuparsi) di politica (men che meno “politicienne”), né di religione (altra cosa dalle “chiese”).
Lo aveva avvertito da tempo l’abate François Lefranc, autore di “Le voile levé pour les Curieux” (1792) subito tradotto in Italia con il titolo “Il velo alzato pe’ curiosi o sia il segreto della rivoluzione di Francia manifestato col mezzo della setta de’ Liberi Muratori” (1792, ristampa anastatica, ed. Forni, 1993). Assassinato come molti altri ecclesiastici nella strage di Parigi del 2 settembre 1792, propiziatoria della Convenzione repubblicana, Lefranc precorse le celebri “Memorie per servire alla storia dei giacobini” del gesuita Agostino Barruel (1797). Questi addebitò la terza fase della Rivoluzione (repubblicana e sanguinaria) alle “arrières loges”: logge “coperte”, formate dai “philosophes” che già avevano conquistato l’egemonia culturale e orchestravano a loro piacimento la vasta rete di massoni per i quali le “officine” liberomuratòrie erano associazioni transclassiste di persone benestanti, colte, socievoli e inclini alla convivialità. Nulla di pericoloso per lo Stato vigente, insomma: all’opposto di quanto tramato e attuato dai club rivoluzionari.
Nella caccia e denuncia del protagonista occulto della Rivoluzione i teologi, specialmente cattolici, surclassarono filosofi e storici e, dopo la caduta del Napoleone, assunsero la guida della lotta contro la sua propagazione con l’arma della scomunica, nuovamente lanciata dai papi contro la “setta scellerata e infame”.
Grazia di Dio e popolo
L’ideario propriamente liberomuratorio, altra cosa da quello giacobino, alimentò due Carte ignorate dall’antologia prefata da Elena Boschi: le “Basi fondamentali della futura costituzione del Rinascente Impero Romano” e il “Progetto di Costituzione per l’Italia fatta libera ed indipendente all’anno 1835”. La prima enunciò il territorio dell’Impero Romano: “tutto il continente dell’Italia”. Essa chiamava al trono Napoleone Bonaparte, “attuale sovrano dell’isola d’Elba” e i suoi discendenti maschi in linea retta e legittima col titolo di Imperatore dei Romani e Re d’Italia “pella volontà del popolo e pella grazia di Dio”. A partire dalla Costituzione dell’Impero, per trecento anni nessuno dei principi e delle principesse poteva contrarre nozze con pari grado delle case regnanti d’Austria, Francia e Spagna “e neppure con quelle che hanno regnato a Napoli (Borbone), in Piemonte (Savoia) o in altri stati d’Italia (Asburgo)”. Gli articoli 10 e 11 della Costituzione enunciarono: “La sovranità risiede nella nazione italiana. Il governo, depositario di questa sovranità, si compone dell’Imperatore, d’una camera alta e d’una camera di rappresentanti eletti dal popolo”. Altrettanto interessante è il Progetto del 1835. Esso fissò a Roma la capitale della Repubblica italiana, formata da provincie, municipi, comuni e parrocchie. I diritti del cittadino erano uguaglianza, libertà, sicurezza e proprietà. Aboliti i titoli e i ranghi ereditari, gli italiani erano “uguali innanzi alla legge”, a loro volta “opera della sovranità” degli individui componenti una società politica.
Lo spazio impedisce di esaminare nei dettagli il più misterioso dei progetti costituzionali fioriti mentre Napoleone era all’Elba: il Patto di Ausonia, che doveva collegare l’unità geopolitica dell’Italia ai principi enunciati nella Dichiarazione dell’uomo e del cittadino. Riaffiorò nel 1859 con la costituzione della loggia madre sorta a Torino l’8 ottobre su impulso di antichi cospiratori e di lealisti monarchici come Felice Govean.
Come sopra detto, i teologi compresero che lo Statuto promulgato da Carlo Alberto di Sardegna il 4 marzo 1848 era un “compromesso” che conciliava i diritti del sovrano con quelli della “nazione libera, forte e felice”, chiamata eleggere una Camera componente del potere legislativo. L’articolo 2 tagliava la testa al toro: “Lo Stato è retto da un governo”.
Lo Stato dunque era il presupposto della “monarchia rappresentativa”, che riconosceva quale sua unica religione la cattolica, apostolica e romana, ma tollerava “conformemente alle leggi gli altri culti ora esistenti” e dichiarava che tutti i regnicoli erano uguali dinanzi alla legge, ecclesiastici compresi, pertanto.
Per quanto in forma temperata lo Statuto albertino ruppe dunque col principio in forza del quale ogni potere sovrano dipende da Dio, ovvero dal suo Vicario. Il lungo travaglio dei sempre più tesi rapporti tra Stato e Chiesa scandì i tempi seguenti. Dopo la condanna delle eresie dei tempi moderni (liberalismo, socialismo, comunismo…) ribadita dal Syllabus nel 1864, nell’enciclica “Immortale Dei” del 1° novembre 1885 e nella “Inimica vis” dell’8 dicembre 1892 papa Leone XIII ripeté “non v’è potere se non da Dio” e spiegò che per la Chiesa importa la cristianità delle leggi molto più che la forma dello Stato. Anche perché, va aggiunto, essa sola è uno Stato perfetto: con un sovrano che, a differenza di tutti gli altri capi di Stato, ha nelle mani, consacrate, la pienezza del potere temporale e, ciò che più conta, spirituale. L’unico a convertire il Verbo in Vero e il Verbo in Carne di Cristo.
Aldo A. Mola
Le Chiavi di San Pietro, emblema dell’unico Stato perfetto e della sovranità assoluta.
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