Di Aldo A. Mola
Vincitori e vinti
A differenza di quanto dichiarato “a caldo” dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni non è affatto vero che domenica 7 luglio «in Francia non ha vinto nessuno». Oltralpe, nelle elezioni più importanti da decenni, vi sono stati uno sconfitto e due vincitori. È avvenuto, a sorpresa, nel ballottaggio. Come è accaduto? Con quali possibili conseguenze in Francia? Lo stallo, un governo “giacobino” o dell’ampia compagine uscita vittoriosa dalle urne? Quale lezione se ne può trarre al di qua delle Alpi? Come sempre un po’ di storia aiuta a comprendere. Con una premessa: non vedere la realtà effettuale significa camminare tra le nuvole o scommettere che chi ha gli occhi non veda. È possibile provarci, ma narrare una verità diversa dalla realtà è sempre un errore, perché, come insegnano gli inglesi, “i fatti sono ostinati”.
Veniamo al punto. Il Rassemblement National (RN) di Marine Le Pen, con il suo candidato presidente del Consiglio “in pectore” Jordan Bardella, sono usciti sconfitti nettamente. Non hanno raggiunto la maggioranza assoluta preconizzata dai sondaggi, anzi ne sono rimasti lontanissimi e hanno commentato l’esito con dichiarazioni acide e scomposte. Etichettare gli avversari come “alleanza del disonore” significa insultare il rito delle elezioni, quinci anche i propri stessi sostenitori e, in generale, i votanti. Sino a prova contraria “adulti e vaccinati”, i francesi hanno deciso in piena libertà. Gli elettori che hanno scelto Nuveau Front Populaire, Ensemble e République non dimenticheranno facilmente le offese immotivate e sgradevoli lanciate contro di loro dagli sconfitti: un grave “errore di comunicazione”, tanto più in presenza dell’affluenza record ai seggi, invidiabile al di qua delle Alpi.
Alla fine, di “patrioti” ne rimarrà uno solo…
All’Europarlamento il Rassemblement National si è affrettato a intrupparsi nell’alleanza dei “Patrioti” allestita dal presidente màgiaro Orbàn. Non bastasse il suo estremismo nazionalistico, alla sua destra è sorta, esigua ma aggressiva e rumorosa, l’“Europa delle nazioni sovrane”. In vista dell’elezione dei vertici dell’Unione Europea il ventaglio delle “destre” si è schierato, come hanno fatto popolari, socialisti e i cosiddetti liberali. Invece il gruppo di Fratelli d’Italia è ancora in cerca di una posizione che concili la sua linea nel Paese ove ha responsabilità di governo con quelle dei partiti affini di altri Stati dell’Unione, sempre più numerosi e conflittuali. Siamo in presenza di una geometria variabile ad alto rischio, come i giochi di bacchette cinesi.
Inseguire o imitare i lepenisti o lepenioti che dir si voglia, come gli orbanisti od orbanioti e i gruppi similari che si stanno frantumando e moltiplicando per disputarsi il monopolio dell’antieuropeismo, può essere tatticamente comprensibile ma dal punto di vista strategico potrebbe risultare un errore fatale. Dichiararsi patrioti nell’Unione Europea, come in qualsiasi altra Comunità dai poteri sovranazionali, è una contraddizione in termini perché, per definizione, ogni movimento di “patrioti” esclude l’esistenza di partiti analoghi. Come ogni onesto cannibale, ciascuno dei gruppi che rivendicano la sovranità esclusiva nell’ambito del proprio territorio “nazionale” non tollera concorrenti né nella propria “patria” né negli altri Paesi della Comunità. Se, contro ogni realistica previsione, dovessero un giorno prevalere, i diversi gruppi che si denominano e si pretendono depositari dei destini di “nazioni sovrane” e/o di “patrie”, comunque racchiusi all’interno di una “Unione” sovraordinata rispetto agli Stati del tempo che fu, finirebbero fatalmente per combattersi come belve in una gabbia. Alla fine non ne rimarrebbe che uno solo: il più sovranista o patriota di tutti, costretto a divorare ogni suo simile nel timore di rimanerne succubo.
Nuovo Ordine Europeo, potenze planetarie e onda lunga della Storia
È quanto l’Europa visse nell’intervallo tra le due Grandi Guerre nella prima metà del Novecento. Fu l’epoca della competizione tra “partiti” che si dichiaravano internazionali (il nazionalsocialista, i “comunisti”, i “fascismi”…) per ottenere alleati tramite i quali svuotare e debellare la resistenza alla loro avanzata nei diversi Stati e imporsi quali dominatori assoluti del Nuovo Ordine Europeo.
Ma oggi, nell’età delle potenze planetarie politico-economiche (USA, Cina, Russia, India e qualche “bric”, quali Brasile, Repubblica sudafricana e l’Arabia Saudita in libera ascesa), delle alleanze militari pregresse e di quelle in corso di allestimento, il patriottismo di un Paese di seconda fila, quali sono Gran Bretagna, Francia e Germania, a tacere dell’Italia, che nella Carta costituzionale ha deposto le antiche velleità militaristiche, altro non è che nazionalismo residuale, nostalgia del passato remoto. Retorica e propaganda, non politica.
Questo declino vale anche per la Francia, malgrado il suo arsenale atomico e il perdurante possesso di scaglie minime dell’antico impero coloniale. Lo scorso 7 luglio è stato sconfitto il proposito di rilanciare “Marianne” quale aspirante protagonista nell’arena dei rapporti tra le grandi potenze. Che Mosca abbia scrutato a lungo la risposta delle urne francesi sta a confermare che l’eventuale (e mancata) vittoria del Rassemblement National avrebbe comportato il successo non già di una Francia più libera e più padrona di sé, più sovrana e patriottica, ma di un’altra, assai più modesta, condannata a contare un po’ di più solo perché “soumise” alle scorribande della Russia, decisa a scompigliare le file degli Stati inglobati nella NATO, cioè nell’alleanza militare “difensiva” fondata 75 anni addietro contro la minaccia espansionistica dell’URSS di Stalin. All’epoca questa era all’offensiva nell’Europa orientale. Dotata di arma atomica, orchestrava il Kominform, comprensivo dei “partiti fratelli” (o meglio, succubi): nulla a che vedere con gli equilibri attuali. Nel 1949 la Cina di Mao era ancora di là da venire e l’India aveva appena ottenuto l’indipendenza. Gran Bretagna, Francia e persino Olanda e Belgio possedevano ancora imperi coloniali immensi. Insomma, era un mondo inconfrontabile con quello odierno. Perciò la Guerra Fredda non precipitò in conflitto generale e l’“equilibrio del terrore” ebbe la meglio sulla temutissima guerra nucleare. Sotto quell’ombrello alcuni Stati si procacciarono a loro volta un arsenale di bombe atomiche, con metodi rudimentali e altamente inquinanti. Però la loro “force de frappe” (come venne detta da Charles De Gaulle) non giunse mai a modificare i rapporti di forza tre le massime potenze. Semmai spinse a circoscrivere il club dei Paesi ufficialmente autorizzati a dotarsi di armi nucleari e a considerare quelli che clandestinamente se ne sono procurate quali “Stati canaglia”: un marchio morale di discussa valenza politica e (meno ancora) militare. Fino ad ora l’umanità l’ha scampata. Ma il “guerrone” è dietro l’angolo e da incubo sempre più temibile potrebbe divenire realtà da un momento all’altro. Senza dimenticare che dalla pace di Postdam un poi le guerre non si dichiarano: si fanno. A chi tocca tocca. Quando arrivano non sono solo immagini di devastazione e di morte rilanciate dai “media” …: sono l’eclissi della civiltà.
Perciò è importante il segnale lanciato dalle votazioni del 7 scorso luglio nella “sorella latina”. Malgrado la valutazione espressa quasi “a caldo” dalla presidente Meloni, il 7 luglio in Francia lo sconfitto c’è stato. E, contrariamente a quanto commentatori frettolosi hanno insinuato, il vinto non si riprenderà tanto facilmente, anche perché i tre anni che ci separano dall’elezione del presidente della République (come da quelle politiche in Italia, a meno di deflagrazione dell’attuale coalizione di governo, sempre sull’“orlo di una crisi di nervi”) sono lunghissimi. Nel frattempo, anche a cospetto dell’esito delle votazioni del 5 novembre prossimo negli USA (uno spettro d’oltretomba, man mano che si avvicinano), l’Unione Europea dovrà darsi d’urgenza un assetto nuovo e instaurare rapporti diversi dagli odierni con la Gran Bretagna governata dai laburisti. Le prime scelte di Londra nella questione sensibile del contrasto all’immigrazione illegale fanno presagire cambiamenti netti e profondi dell’Inghilterra su questioni da decenni irrisolte. Chi un tempo fantasticava un “blocco navale” per impedirla o immaginò di dirottarne scampoli in Paesi estranei all’Unione dovrà rassegnarsi a prendere atto delle sue dimensioni epocali, senza escogitare formule magiche, costosissime e dagli effetti pratici assai dubbi. È l’onda di ritorno della colonizzazione. L’imperialismo giunse all’acme appena un secolo addietro. Le sue conseguenze ne chiederanno almeno un altro. E cambieranno il volto dell’Europa come l’Europa mutò quello afro-asiatico.
La Francia eterna dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino
Ciò posto, il 7 luglio 2024 davvero nessuno ha vinto in Francia? Conteggio dei seggi alla mano, proprio perché non sono stati travolti dall’onda del Rassemblement National di Marine Le Pen-Jordan Bardella, i vincitori sono almeno due e mezzo: il Nouveau Front Populaire (NFP), Ensemble, che fa riferimento al presidente della Repubblica, Emmanuel Macron, e i Repubblicani arroccati sulla tradizione gaullista.
Una settimana dopo il ballottaggio la Francia appare sull’orlo di una crisi di ingovernabilità solo agli occhi di chi ritiene che la stabilità dei governi si fondi solo sulla vittoria di un partito forte della maggioranza assoluta dei seggi. Un miraggio. La storia della Francia e dell’Italia, come anche della Spagna e di altre democrazie parlamentari, dice l’opposto. La stabilità può basarsi benissimo sulla convergenza di forze diverse per matrice storica, ideologia e aspirazioni ultime, ma accomunate da valori non negoziabili, come i diritti dell’uomo e del cittadino e la democrazia parlamentare: cardini strategici nel cui ambito si collocano le intese di breve e medio periodo, la cui durata dipende da calcoli interni, anziché dal quadro internazionale entro il quale ogni Paese si colloca in un sistema planetario interconnesso.
Tra il 1947 e il 1994 in Italia resse una coalizione incardinata sulla Democrazia cristiana, il cui gruppo dirigente anche dopo la vittoria elettorale del 18 aprile 1948 chiamò a raccolta partiti piccoli e piccolissimi non per generosità ma perché (contrariamente a quanto si narra) essa non ebbe mai la maggioranza assoluta dei seggi in entrambe alle Camere e quindi non avrebbe potuto governare “da sola”. Proprio nella prima legislatura repubblicana il suo successo alle urne venne ridimensionato dalla provvidenziale immissione in Senato di 105 “senatori di diritto”, in parte prevalente non esponenti dell’antico Partito popolare italiano. Alcuni, anzi, erano socialisti e comunisti e rafforzarono quindi il “fronte popolare” uscito sonoramente sconfitto alle elezioni. Perciò Alcide De Gasperi dopo il breve corso di aggiornamento di “occidentalismo” impartitogli durante il viaggio negli Stati Uniti d’America, realisticamente fece i conti con liberali, repubblicani e socialdemocratici: del tutto diversi dai clericali in auge nella fase conclusiva del pontificato di Pio XII. Un micropartito come quello Repubblicano, guidato prima da Randolfo Pacciardi e poi da Ugo La Malfa e Oronzo Reale, ebbe un rilievo di tutto rispetto per orientare il governo, liberando la Democrazia cristiana dalla tentazione dell’autosufficienza dopo il fallimento della legge elettorale nelle votazioni del 1953, quando la coalizione governativa mancò il successo per appena 250.000 voti. In assenza di un partito di maggioranza assoluta lungo mezzo secolo l’Italia ebbe governi variegati: di tre, quattro, cinque partiti, ma anche di appena due, con appoggio esterno, o di uno solo, basato sull’equilibrismo della “non sfiducia”.
La resistenza della desistenza
Chi oggi manifesta stupore a cospetto della operazione “desistenza” vittoriosamente messa a segno in due-tre giorni dal Nouveau Front National in Francia dimentica che in passato strategia analoga venne ripetutamente sperimentata con successo anche in Italia. Anzi, fu proprio l’Italia a dare il “buon esempio”. Fra Otto e Novecento “Marianne” era “pilarisée” in tante France diverse e inconciliabili: i cattolici (a loro volta divisi), gli anticlericali tendenzialmente ateisti, i socialisti, gli ugonotti mai dimentichi della Notte di San Bartolomeo e gli ebrei. Era la Francia lacerata dall’“affaire Dreyfus”, di cui molto e bene ha scritto Sergio Romano, che aprì conflitti tra generazioni e persino all’interno di molte famiglie. La spoliazione dei beni ecclesiastici e il divieto di insegnamento pubblico dei congregazionisti esasperò il conflitto, con ripercussioni di lungo periodo, vivide anche durante la Grande Guerra.
All’opposto, l’Italia di primo Novecento imboccò il vialone a doppia carreggiata della conciliazione silenziosa e della altrettanto tacita laicità (che non significa irreligiosità, ma libertà universale di praticare culti non in contrasto con le leggi civili e penali o di non praticarne alcuno). Dopo quasi mezzo secolo di divieto di partecipazione dei cattolici alle elezioni politiche (“non expedit”, poi chiarito in “non licet”, come accenna Roberto de Mattei in “Merry del Val. Il cardinale che servì quattro Papi”, ed. Sugarco, 2024), dal 1904 papa Pio X, come ricorda il suo biografo Gianpaolo Romanato, autorizzò l’elezione di “cattolici deputati”, ma non di “deputati cattolici”, cioè espressione di un partito, neppure della Democrazia cristiana propugnata da Romolo Murri, qui e là infetta da antisemitismo.
La prima grande “operazione desistenza” attuata in Italia fu il cosiddetto “Patto Gentiloni” sperimentato nel 1913 con le prime elezioni a suffragio maschile quasi universale. Esso vide molti cattolici votare per liberali e persino per massoni notori e per di più ebrei (come Dario Cassuto e i tanti altri lasciati ai margini da de Mattei) e i massoni votare per cattolici con l’obiettivo comune di arginare e sconfiggere candidati anti-sistema: repubblicani intransigenti e socialisti massimalisti. Era l’Italia di Vittorio Emanuele III, di Giovanni Giolitti e dell’israelita Ernesto Nathan, sindaco di Roma e già gran maestro del Grande Oriente d’Italia che, a differenza di quello di Francia, conservò la formula iniziatica “Alla Gloria del Grande Architetto Dell’Universo” (ADGADU), lasciando a ciascun “fratello” di interpretarlo a modo proprio. Le logge che imponevano ad affiliati e a visitatori il triplice giuramento antireligioso, antimonarchico e antimilitaristico erano pressoché al bando, tanto più in presenza dell’offensiva antimassonica di clericali, socialisti mussoliniani, nazionalisti e di Benedetto Croce, che impiegò vent’anni a capire l’errore.
Quel “patto di desistenza” tornò attuale nel 1926 dopo la catastrofe della democrazia parlamentare. La politica è alchimia. I partiti schiettamente democratici ne avevano appreso le formule dopo il disastro dell’Aventino che nel 1925 spianò la strada all’avvento del regime di partito unico, confermato dalle elezioni del 24 marzo 1929, che certificarono il consenso plebiscitario a favore del Partito nazionale fascista: 100% dei seggi alla Camera.
Su impulso di Alceste De Ambris (iniziato alla parigina loggia “Italia”) gli antifascisti in esilio in Francia, alla luce della tragica esperienza vissuta in patria, dettero vita alla Concentrazione di Azione Antifascista prospettata a Nérac nel 1926 e poi perfezionata, con socialisti (rappresentati da Filippo Turati), repubblicani (con Giuseppe Leti, sovrano gran commendatore del Rito scozzese antico e accettato), lega italiana dei diritti dell’uomo (Ferdinando Bosso) e confederazione generale del lavoro (Felice Quaglino). Inizialmente la Concentrazione non ebbe la pregiudiziale antimonarchica poi prevalsa con la fondazione di “Giustizia e Libertà” di Carlo Rosselli e Alberto Cianca e su impulso di Gaetano Salvemini ed Emilio Lussu.
All’epoca, va aggiunto, il Partito comunista d’Italia, sezione della Terza internazionale ferreamente comandata da Stalin, liquidava i socialisti come social-fascisti e le altre forze democratiche quali strumento della borghesia reazionaria e dell’imperialismo antiproletario. I comitati promotori di alleanze antifasciste risultarono ad alto tasso massonico proprio perché in Italia le logge erano state a lungo fucina di accordi sovrapartitici e transclassisti in nome dei principi ideali per i quali (ricordò il gran maestro Domizio Torrigiani) i massoni avevano appreso che si deve vivere e, se necessario, si deve saper morire.
La “desistenza” che lo scorso 7 luglio ha assegnato la vittoria del Nuovo Fronte Popolare è tutt’uno con quella della Rivoluzione dell’Ottantanove: il giuramento della Pallacorda, che trasformò la riunione dei tre “Stati” in Assemblea Nazionale e la Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del cittadino che il 26 agosto 1789 elevò l’assalto alla Bastiglia del 14 luglio a cardine e spartiacque della storia universale.
Gli accordi interpartitici in nome di un ideale superiore non sono frutto di complotti, di “forze occulte”, di “poteri forti” o di “élite” intrinsecamente antidemocratiche, come sostengono massonologi come padre Siano, ma la costante del pragmatismo razionale che, quando necessario, percorre la via della convergenza per la salvezza dello Stato di diritto, garante delle libertà universali. Quanto avvenuto al di là delle Alpi ha molto da insegnare al di qua di esse. Non vi è alcun bisogno di un “partito unico” (pessimo precedente nella storia d’Italia) e meno ancora di ammucchiate per la spartizione della torta. Occorre recuperare e praticare la sintassi e la grammatica della democrazia parlamentare enunciata dalla Costituzione vigente sulla traccia dello Statuto albertino, con la separazione e il bilanciamento dei Poteri e, ciò che manca, con una legge elettorale incardinata su collegi uninominali, con la restituzione ai cittadini della scelta tra candidati in libera competizione anziché imposti in liste preconfezionate da parte di direzioni partitiche.
L’alternativa a questo “grande ritorno” verso i fondamenti del rapporto tra Istituzioni e cittadini è una sola: la sempre più vasta astensione dal voto, il declino della democrazia parlamentare e l’eclissi definitiva di una dirigenza competente, conosciuta e voluta dagli elettori.
Aldo A. Mola
Ernesto Nathan, sindaco di Roma, già gran maestro del Grande Oriente d’Italia, intrinseco di Vittorio Emanuele III, emblema di un Paese all’avanguardia nei diritti dell’uomo e del cittadino.
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