Di Alessandro Mella
Ci sono storie molto difficili da raccontare perché toccano sensibilità e coscienze diverse e particolarmente complessi sono quelli relativi ai fatti della guerra di liberazione italiana. Ai mesi terribili che andarono all’autunno 1943 alla tarda primavera 1945 quando la contrapposizione tra le forze partigiane e quelle della Repubblica Sociale Italiana procurò terrore e disperazione.
È sempre lunga e difficile la strada verso la libertà. Se è vero che alla repubblica fascista avevano aderito molti fanatici disperati è anche vero che moltissimi giovani presero quella direzione in nome di un idealismo che oggi ci pare illusorio ed ingannevole.
Ma quell’avventura senza speranza trascinò nel baratro, per l’appunto, anche molti in buona fede. Un qualcosa che certo non assolve e non giustifica ma permette di capire e di provare umana pietà anche per i vinti.
Tra queste vicende terribili emerge il caso del giovane Massimo Moratti.
Egli nacque Lavello il 13 ottobre 1925 figlio di Frangiotto e di Teresa Laghi. (1) Giovanissimo, vivente allora presso Serravalle Scrivia, frequentò il Liceo Ginnasio a Novi Ligure. (2)
Massimo era un bravo studente, amante della cultura classica, poeta per diletto. Ma la morte, sul fronte russo, del fratello Fausto lo sconvolse, lo turbò, e dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 decise di seguire, anche nel suo nome, quella che lui ritenne essere la sola via dell’onore.
Fausto, del resto, aveva sacrificato se stesso lasciando uno strazio profondo nella famiglia. Sottotenente del 4° reggimento artiglieria alpina, fu catturato nel gennaio 1943 dai sovietici ed in prigionia si spense il 15 marzo successivo. (3)
La madre, disperata, consapevole di come quel figlio avesse imboccato una strada senza possibilità di salvezza, decise di recarsi dal parroco per pregarlo di convincere il suo “Mimmo” a non arruolarsi. Ma il sacerdote fu irremovibile: «Né lei, né altri metta dubbi nel cuore di quel ragazzo. È una di quelle anime elette che chiama anche sugli altri la benedizione di Dio. Egli vede la sua vita così e la identifica col suo dovere, col volere di Dio. Si consacra alla sua Patria, ad uno scopo grande. Non pianga, mamma; Dio lo benedirà». (4)
Massimo, quindi, raggiunse la scuola allievi ufficiali della Guardia Nazionale Repubblicana a Rivoli e qui ottenne il grado di sottotenente. (5)
Al termine del corso il nostro Moratti fu assegnato alla Divisione Alpina “Monterosa”, distaccato al battaglione Morbegno e con questo mandato nel cuore delle Valli di Lanzo ove la lotta partigiana veniva condotta con vigore ed energia.
Fu dislocato a Col San Giovanni, lungo la via che da Viù conduce al Colle del Lys e da qui verso Rubiana, con un drappello di alpini repubblicani chiamati a presidiare quel passo prezioso per la comunicazione tra le valli di Viù e Susa.
La situazione era difficile, da mesi i rastrellamenti, le violenze, la ferocia, le fucilazioni avevano esasperato gli animi oltre ogni misura e la contrapposizione tra i partigiani alla ricerca della libertà ed i crepuscolari soldati repubblicani di Mussolini andava ormai assumendo i contorni di una terribile guerra civile.
Quando Massimo Moratti ed i suoi si trovarono isolati, nella tarda primavera del 1945, non restò loro che arrendersi ai partigiani. Circondati, cedettero le armi il 26 aprile 1945. Lui, un ufficiale e quindi già spacciato, fu condotto a Lanzo il 3 maggio 1945 e qui collocato nel collegio vescovile. Poi venne riportato a Viù per essere fucilato, il giorno dopo, nei pressi del cimitero ove oggi riposa. (6)
Michele Tosca, nella sua monumentale opera sul tema, indicò la dinamica dei fatti:
Il giorno successivo, Vittorio Rampone detto “il sanguinario” insieme a “Pierino”, dopo aver selvaggiamente picchiato il sottotenente Massimo Moratti lo riconduce a Viù e lo fa fucilare nei pressi del cimitero, alle ore 11.30, otto ore più tardi nello stesso posto viene fucilato il sottotenente Pietro Campaner, che ordina personalmente il fuoco al plotone. (7)
Furono molti i militari della RSI che nelle Valli di Lanzo, come nel resto dell’Alta Italia, furono fucilati ed uccisi a guerra finita.
Lo spirito di rivalsa, il desiderio di vendetta per i torti subiti, l’assuefazione alla violenza, condussero ad eccessi purtroppo impossibili da fermare ed evitare.
In quel clima di furore finirono al muro anche molti che non avevano mai fatto personalmente del male ma che indossavano insegne ed uniformi che alla popolazione richiamavano, ormai, solo ricordi nefasti. Fu questo il caso di Massimo Moratti?
Un’idea su questo ci proviene dalla relazione che il parroco di Bertesseno, frazione a poca distanza da Col San Giovanni, don Mellano, redasse a guerra finita. Vi si legge, tra l’altro, quanto segue:
Poi quegli stessi soldati, che erano venuti in settembre come Bande Nere ritornano alla fine di novembre e prendono residenza al Col S. Giovanni, come parte della Brigata Monte Rosa, con lo stesso ufficiale, tenente Moratti Massimo, che fu poi condannato dal tribunale del popolo di Lanzo e fucilato al Col S. Giovanni, ma che in verità non meritava simile condanna. Qui i giovani erano tutti partigiani, più o meno militanti. Ogni tanto Moratti ne prendeva qualcuno, poiché non potevano vivere sempre nei buchi. Le mamme piangenti venivano da me, ed io andavo da Moratti, che sempre li lasciò andare: “Lei mi dice che è sicuro che non sono partigiani, ebbene io li lascio andare”. Anche renitenti alla leva. Mi diceva: “Capisce, sono renitenti alla leva”. Ed intanto venivo sempre via con il giovanotto che ero andato a prendere (…). Moratti veniva a trovarmi e si fidava; mi diceva sempre quando il giorno dopo vi era un rastrellamento che veniva o dai tedeschi di Almese o dalla Monte Rosa di Viù. Avevo una staffetta che subito correva da don Lavagno, il quale era sempre in contatto con il comando. (8)
Massimo Moratti, dunque, aveva compiuto una scelta che noi, oggi, con la nostra sensibilità e conoscenza dei fatti e del mondo libero, possiamo giudicare sbagliata ma che va capita. Si deve comprendere come non tutti i giovani nati e cresciuti negli anni del regime seppero o riuscirono ad affrancarsi da quell’educazione ricevuta. Come non tutti riuscirono a liberarsi di quella zavorra pesantissima e per questo fecero scelte che noi oggi riteniamo negative ma che ai loro occhi parevano giuste ed inevitabili.
Mentre molti di loro non trattennero ferocia e rancore contribuendo ad alimentare il circolo vizioso della violenza bestiale, altri invece tentarono di limitare quanto più possibile l’orrore perpetuo. Così fece, lo testimoniò don Mellano, l’animo sensibile del sottotenente Moratti. Ma questo non bastò a salvarlo dalla furia che seguì gli ultimi giorni drammatici di guerra. Poco prima di andare davanti al plotone d’esecuzioni il nostro scrisse un’ultima lettera alla famiglia lontana. (9)
Poi cadde sotto il piombo di quei partigiani che per mesi avevano subito le angherie del fascismo morente, che avevano lottato per una sospirata libertà, che ora vedevano in ogni militare repubblicano un frammento del mondo che avevano odiato, un fascista e non un essere umano. Alla sua famiglia fu restituito il portafoglio ove questa trovò unicamente una poesia scritta a mano dal proprio ragazzo. Quel diciannovenne che oggi riposa nel cimitero di un paese di montagna. Tra altri caduti della RSI e qualche partigiano. Nella pace dei defunti che tutto appiana. Anche le storie drammatiche come questa che, faticosamente, si è voluto tentare di raccontare.
Alessandro Mella
NOTE
(1) Torino 1943-1946 Martirologio, Ultima Crociata Editrice, 2005, p. 138. Il padre Frangiotto era direttore dell’Acido Tannico (Il Popolo, 3, Anno XXXI, 18 gennaio 1931, p. 2).
(2) Messaggero di Novi, 28, Anno LXXV, 24 agosto 1940, p. 1.
(3) Fu nominato sottotenente di complemento d’artiglieria con anzianità 16 marzo 1942: Moratti Fausto di Frangiotto, nato il 29 agosto 1921, distretto di residenza Tortona, scuola Bra, destinazione dep. 4. a D. al. (Bollettino Ufficiale, Ministero della Guerra, Dispensa 80a, 27 agosto 1942, p. 5912). Circa la morte si veda: S.Ten. Fausto Moratti di Frangiotto, n. Serravalle S. 29/8/1921, 4° Rgt. Art. Alpina, m. il 15/3/1943 in treno durante il trasferimento verso il lager 74 di Oranki; (Il Novese, 3, Anno XXXII, 27 gennaio 1994, p. 1).
(4) Lettere dei condannati a morte della R.S.I., Saipem, Cassino, 1976, p. 270.
(5) Quattromila studenti alla guerra – Storia delle scuole allievi ufficiali della G.N.R. della Repubblica Sociale Italiana, Ugo Giannuzzi e Mario Vaccaro a cura di, Edizioni Settimo Sigillo, Roma, 1999, p. 169.
(6) Secondo altre fonti fu invece fucilato a Col S. Giovanni e portato ed inumato a Viù successivamente.
(7) I ribelli siamo noi, Volume II, Michele Tosca, Roberto Chiaramonte Editore, Collegno, 2019, p. 350.
(8) Clero, guerra e resistenza nella diocesi di Torino (1940-1945) nelle relazioni dei parroci del 1945, Giuseppe Tuninetti, Piemme, Casale Monferrato, 1996, pp. 270-271.
(9) Viù, 4 maggio 1945. Mamma e babbo cari, vi scrivo queste mie ultime parole, che non so quale immenso dolore vi arrecheranno. Tutto è crollato intorno a noi, e anche la mia vita crolla nel marasma di vendette e di sconvolgimenti che pervade la nostra povera Italia. Colpevole di aver lottato per la mia idea fino agli ultimi istanti, colpevole di aver agito con decisione, secondo quello che sapevo essere il mio dovere, oggi sarò fucilato a Col S. Giovanni. Dal 26, giorno in cui la Compagnia si è arresa, la mia vita è stata un inferno. Ora tutto finirà. Rimetto nelle mani di Dio quello che ho sofferto: Dio raccolga l’anima mia. Per voi purtroppo la vita diventerà terribile. Mi stringe il cuore, non per me, ma per voi, nel pensare al momento in cui avrete questa notizia. La vita mi ha afferrato, mi ha trascinato, ed ora mi annienta col suo inesorabile moto, ora che non ho ancora 20 anni. Non so come potrei con le mie parole lenire il dolore che vi pervade; non è nelle forze umane. Ma Dio che, giudice inflessibile, vede nel fondo delle anime quello che gli uomini non possono vedere, vi aiuterà. La belva si scatena, e contro di essa le nostre forze, disunite, sparpagliate dal colpo brutale, non reggono più; gli altri sono caduti, io cado, altri cadranno. E la nostra povera famiglia così smembrata cosa potrà fare? Ora che tutto è finito o sta per finire, speriamo che Fausto ritorni; lui vi consolerà, vi sosterrà, e avrete anche Valerio con voi. Il vostro piccolo, il giovane poeta, purtroppo, non lo avrete più. Pensate a Dio, a Dio nelle cui mani si posa l’anima mia, alla sua infinita bontà. Credevo di essere destinato a qualcosa nella vita; ora Lui mi chiama e io corro a Lui. Asciugate il pianto dei vostri poveri occhi e cercate di poter passare il più serenamente possibile gli anni che ancora rimangono alla vostra povera vita dilaniata. Mi si torce il cuore, pensando a quello che sognavo di rivedere ancora e che non rivedrò più; a voi, ai miei piccoli nipoti che hanno conosciuto per così breve tempo lo zio; il ricordo di me, delle mie parole resterà nelle loro anime come qualcosa di incerto, di nebuloso. Ma fate leggere loro le mie parole, che avrebbero dovuto essere l’inizio di un ben più vasto programma, se Dio me lo avesse permesso. Essi dovranno continuare la vita del mondo, che arriverà alla sua immancabile meta, anche se ora le forze brute dell’oro e del male prevalgono. E forse sarà affidata alle loro mani la riscossa della patria. Io non potrò più lavorare a prepararla; non potrò più riprendere fra le mie dita le fila disperse della libertà nazionale (…). Vorrei sperare che il mutamento della situazione non provochi danni anche a voi, che possiate essere lasciati tranquilli col vostro dolore. Sono le ultime parole che io vi dico. Mamma e babbo cari, voi che avete tanto sofferto e patito per me, addio! Io non vi posso più ricompensare di ciò che per me avete fatto. Addio, Adriana, addio fratelli miei, addio voi, miei piccoli bimbi, che siete il ricordo più luminoso della mia breve vita! Salutatemi Gian e tutte le persone degne del mio paese: dite loro come sanno morire gli italiani, che hanno sangue italiano nelle vene. Essi non possono comprendere per quali motivi io combattessi, non possono capire come potessi avere idee tanto contrarie alle loro. Eppure è così, e nel nome di questa idea, che non è mai stata da nulla contaminata, qualunque cosa vi possano venire a dire, io muoio. Abbiate fede, fede! È l’unica cosa che possa rendervi meno dura la vita. A voi tutti, miei cari, ancora una volta, addio. Ci rivedremo un giorno nelle braccia del Padre di tutti, dove non ci sono più dolori, dove sono lontane le misere questioni della terra. Vi bacio la fronte che ha tanto pensato, il cuore che tanto sofferto, le mani che hanno lavorato per me. Addio! Mimmo (Lettere dei condannati a morte della R.S.I., Saipem, Cassino, 1976, pp. 273-274).
© 2024 CIVICO20NEWS – riproduzione riservata
Scarica in PDF