Di Aldo A. Mola
Quando dilagò la “Quartarella”
Nella canicola del Ferragosto 1924 al bordo del bosco della Quartarella, venti chilometri da Roma, venne rinvenuta la salma di Giacomo Matteotti, rapito e morto il 10 giugno precedente. Per mero caso o perché chi sapeva non poteva rinviare quel macabro appuntamento con la storia? Ne ha scritto ampiamente Enrico Tiozzo in “La giacca di Matteotti e il processo Pallavicini. Una rilettura critica del delitto”. Un secolo dopo, l’interrogativo rimane senza risposta definitiva. Il ritrovamento rilanciò le accuse degli antifascisti contro Mussolini quale mandante del delitto. Il duce visse giorni lancinanti. Molti fascisti si affrettarono a staccare il distintivo del partito (“la cimice”) dal bavero della giacca. Tanti “simpatizzanti” evitarono accuratamente ogni contatto con gli squadristi. Le iscrizioni al partito nazionale fascista (PNF) crollarono di colpo. Mussolini se ne ricordò anni dopo, quando conferì speciali privilegi ai “sansepolcristi”, presenti alla riunione del primo fascio di combattimento il 23 marzo 1919 nella sala procurata da Cesare Goldman (ebreo e massone), ai fascisti “ante marcia” e a quanti chiesero la tessera proprio nel secondo semestre del 1924, quando appunto dilagò l’epidemia di “quartarellismo”.
In quei frangenti tutto parve possibile. Forse Mussolini si sarebbe dimesso, “sua sponte” o per decisione del re. Forse sarebbe morto dilaniato dall’ulcera allo stomaco in aggiunta all’antica malattia venerea e ai troppi eccessi mascolini, compensati da diete rigorose. Suggestioni e fantasie si moltiplicarono senza che nulla accadesse. La compagine nazionalfascista resse. Solo per forza d’inerzia? Nominato ministro dell’Interno all’indomani del “fattaccio Matteotti”, il nazionalista Luigi Federzoni, già titolare delle Colonie, non modificò la linea del governo: reprimere ogni manifestazione non autorizzata (compito facile: per paura, non ne avvenivano più) e garantire severamente l’ordine pubblico, dal quale dipendeva il giudizio degli stranieri. Nell’Europa alle prese con le conseguenze politico-militari della Grande Guerra e della combattuta demarcazione dei confini postbellici, da Parigi e da Londra come da Mosca o da Washington, l’Italia non era giudicata per le risse partitiche, inclusi gli scontri sanguinosi prima e dopo le elezioni (accadeva ovunque), ma sulla base del suo faticoso ritorno alla stabilità finanziaria, alla ripresa industriale e all’interscambio commerciale. A sua volta la Santa Sede, che molto contava a livello planetario anche senza essere Stato sovrano, valutava il governo italiano dalla capacità di contenere le antiche pulsioni anticlericali, divenute esplosive nel “biennio rosso”, quando i ritratti del re erano stati tolti dalle sale consiliari dei municipi amministrati da chi dichiarava di voler “fare come in Russia”. Al di là del Tevere il ritorno del crocifisso nelle aule scolastiche era stato apprezzato ancor più del salvataggio del Banco di Roma. I “metalli” contano, ma i simboli ancora di più.
La strategia fallimentare dell’“Aventino”
A cospetto dell’“affare Matteotti”, le opposizioni erano e rimasero divise. Alla commissione bicamerale che gli recò la risposta del Parlamento al discorso da lui pronunciato il 24 maggio 1924 per l’inaugurazione della XXVII legislatura (come ricorda Tito L. Rizzo in “Parla il Capo dello Stato”, ed. Herald), il 1° luglio Vittorio Emanuele III aveva ripetuto l’appello alla “concordia civium”, scritta sul frontone dell’Altare della Patria: «Oggi che un efferato delitto ha suscitato l’esecrazione mia e del mio Governo, dei due rami del Parlamento e del Paese, è più che mai necessario che le Camere diano alla Nazione esempio di saggezza e di conciliazione.» Il “Corriere della Sera”, diretto dal senatore liberale Luigi Albertini, interpretò quelle parole come esortazione del sovrano non solo alle opposizioni ma anche alla maggioranza. Mussolini parve accogliere almeno in parte il mònito. In una seduta del Gran consiglio del fascismo osservò che l’“illegalismo fascista” era “impedito o represso”, mentre tornava a dilagare quello “politico e morale dei partiti antinazionali”. Rimarcò la differenza fra il primo (aggressioni sanguinose ai danni degli antifascisti e dei fascisti dissidenti) e il secondo (assalti verbali). Non fu il primo né l’ultimo invito/ordine a usare la “violenza intelligente”. Colpire duro, ma scegliendo per bersaglio i nemici veramente pericolosi. Alla vigilia della “marcia” (mai avvenuta, fu solo una “sfilata”) il duce aveva spiegato ai “camerati” che non bisognava “scocciare i romani”.
La condotta dei partiti dichiaratamente antifascisti (comunisti, socialisti, repubblicani, democratici seguaci di Giovanni Amendola, un’esigua parte dei deputati del partito popolare, abbandonato a se stesso dal Vaticano, che non si era mai identificato con don Luigi Sturzo) rimase identica a quella assunta all’indomani del rapimento di Matteotti, classificata vittima di assassinio proditorio sin dall’indomani della sua “scomparsa”. Il cosiddetto “Aventino” si risolse nella diserzione dall’esercizio del mandato parlamentare, come osservarono i pochi liberal-democratici seguaci dell’ottantaduenne Giovanni Giolitti e la molto più numerosa destra liberale di Antonio Salandra. Con l’astensione dall’Aula quell’opposizione si infilò in un tunnel senza uscita. Priva di sponde istituzionali, rimase in attesa degli eventi, senza possibilità di deciderne il corso. La sua fu, insomma, una scelta politica fallimentare. Confermò l’incapacità di mobilitare il Paese contro la coalizione di governo. Le “sinistre” avevano alle spalle l’inerzia del maggio 1915, quando non si erano opposte alla “piazza” interventista (una minoranza, certo, ma aggressiva) e quella dell’ottobre del 1922, quando per contrastare la ventilata “marcia su Roma” tutto avevano fatto tranne che guidare le “masse” di cui si pretendevano interpreti e profeti. “Appelli” tanti, fatti nessuno.
L’Associazione Nazionale dei Combattenti
Però non tutti attesero il rinvenimento delle spoglie di Matteotti per dichiararsi in dissenso col governo. Fu il caso dell’Associazione Nazionale Combattenti (ANC), che a fine luglio si radunò a congresso in Assisi. A conclusione fu approvato a larghissima maggioranza l’ordine del giorno elaborato dai deputati Aldo Rossini (al quale si deve l’istituzione dei Cavalieri di Vittorio Veneto) ed Ettore Viola. Pur frutto di mediazioni e compromessi, volti a ottenere il consenso più ampio possibile, esso fu chiarissimo nelle condizioni poste dai combattenti per continuare a sostenere l’esecutivo, come facevano dal 1923. Rivendicata in premessa la propria indipendenza, «base imprescindibile della sua esistenza e della sua autorità morale», e ponendosi «al di sopra delle fazioni in lotta», l’ANC chiese il ripristino immediato «dell’imperio della legge, base e condizione elementare del libero svolgersi della vita di un popolo». Contrari a riabilitare «i partiti che disconobbero e svalutarono la vittoria» e a tornare «alla vergogna dell’immediato dopoguerra», segnato dall’instabilità e dall’inettitudine, i congressisti dichiararono «al combattente che regge le sorti della Nazione (cioè a Mussolini, nel 1914 passato dal neutralismo all’interventismo) che i suoi commilitoni sorreggeranno la sua opera» se «effettivamente rivolta al fine di assicurare all’Italia un’alta concordia civile sulla base dell’assoluta condanna degli illegalismi superstiti, e della sovranità esclusiva dello Stato, secondo lo spirito e la tradizione del nostro Risorgimento, nella elevazione delle forze del lavoro, nel rinato amore della Patria».
All’approvazione dell’ordine del giorno si accompagnò l’elezione del comitato centrale dell’ANC formato, tra altri, da Ettore Viola (presidente), Luigi Russo (filofascista, vicepresidente), Aldo Rossini, Rodolfo Savelli, Luigi Bruno, Luigi Rizzo e Mario Zino. Secondo alcuni il documento era stato pensato come appello al Re: valutazione non condivisa da Viola né dall’alessandrino Livio Pivano, eletto deputato nella Lista Nazionale egemonizzata dai fascisti e futuro militante del Partito d’azione, che ne scrisse in “La XXVII legislatura e l’opposizione in Aula”. Non ne accennò neppure Rossini, che nel 1926 dall’area liberale transitò nelle file fasciste, nel 1929 fu creato senatore e presiedette l’Ente nazionale risi, strategicamente importante nella battaglia (più retorica che efficace) per l’autarchia alimentare (recentemente riecheggiata nella denominazione del ministero della “sovranità alimentare”: formula improbabile nell’età del commercio mondiale dei prodotti agricoli).
Percepita la pericolosità dell’odg approvato dagli “assisiani”, Mussolini impose a Viola di partecipare alla seduta del Consiglio nazionale del PNF convocata il 2 agosto per chiarire la posizione sua e dell’ANC. A cospetto della sua riluttanza, in una seconda seduta il Consiglio nazionale adottò un ordine del giorno sottoscritto da otto Medaglie d’Oro al Valor Militare (Elia Rossi Passavanti, Amilcare Rossi, Ulisse Igliori…) con adesione di altri duecento decorati, per affermare l’identità genetica di Fanti e Camicie Nere. Fascismo e combattentismo erano tutt’uno e tali dovevano rimanere. “Simul stabunt, simul cadent”. L’8 agosto Mussolini convocò a Palazzo Chigi l’intero comitato centrale dell’ANC per imporgli l’allineamento al partito. Secondo Silvio Pivano il duce minacciò di avere a disposizione “trecentomila moschetti” nella caserma della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, pronti a reprimere il dissenso. Nelle “memorie”, però, Viola non ne fece cenno.
Dinnanzi alla resistenza del comitato, Mussolini passò all’offensiva. Come egli stesso scrisse, in quel momento il trentenne Viola era ancora regolarmente iscritto al PNF e ricopriva il grado di console generale della Milizia, proprio in quei drammatici frangenti “regolarizzata”, con l’obbligo di giurare fedeltà al re, mai introdotto per l’iscrizione al PNF. Il conflitto si concluse con l’espulsione di Viola dalla Milizia (una manovra messa a segno da Costanzo Ciano) e con una campagna di stampa diffamatoria ai suoi danni.
In udienza dal Re
Dopo il congresso di Assisi, Viola chiese udienza al re per presentargli il nuovo Comitato centrale dell’ANC, i cui componenti si tennero pronti a partire in qualsiasi momento per Sant’Anna di Valdieri, una valle cuneese senza sbocco oltralpe, ove, come di consueto, il sovrano estivava con la Regina Elena, il primo aiutante di campo Arturo Cittadini e la “piccola corte”. Lì alternava caccia e pesca al disbrigo delle pratiche quotidiane di Capo dello Stato, come soleva fare a Racconigi e nelle altre residenze abituali. “Ubi rex, ibi lex”.
Mentre Viola e almeno parte del Comitato avevano fretta di illustrare a Vittorio Emanuele III la posizione ideale e morale dell’ANC, l’udienza fu rimandata, forse per non evidenziare la divaricazione tra i combattenti e il presidente del governo nel pieno della “crisi Matteotti”. Secondo Pivano Casa Reale accampò che a Valdieri non vi era neppure una rete fognaria: una motivazione palesemente pretestuosa (ma non è sicuro che sia stata davvero utilizzata). L’incontro infine ebbe luogo nella tenuta di San Rossore, presso Pisa. Zino, repubblicano nel 1943 confluito nel Partito d’azione, lo descrisse in una lettera pubblicata da Silvio Pivano: «Venne il giorno della visita al Re. Ombrelli di pini, spiazzi di grandi fattorie, case basse, sentore di mare. Il generale Cittadini, qualche ufficiale di servizio. Il Re, un signore ben piccolo, con un vestito a quadrettini, uno strano verso tra il fischio ed il gorgheggio del naso, ridendo. Presentazioni. Tutti seduti ora in un salotto al pianterreno, su poltrone a seggili bassi, che parevano tutte costruite per le gambe del Re, perché i piedi toccassero terra. Parlò Viola, presidente del Comitato e parlarono a poco a poco tutti, impegnando il Re in un gioco a rimpiattino, incalzando tutti per mettere a fuoco l’argomento, attorno all’ordine di Assisi, perché il re sapesse e prendesse buona nota di quella che era l’assoluta volontà dei combattenti. Il Re sgusciava di continuo e parlava di tutto con tutti, preoccupato di scivolare sul solo argomento che ci stava a cuore, di non sentire, di non fissare la questione, di non dare grattacapi, sovrano costituzionale, al governo responsabile. Matteotti da qualche giorno, scoperto il cadavere alla Quartarella, era stato seppellito presso la sua casa a Fratta Polesine: e Mussolini doveva pensare di aver superato la curva più pericolosa. Il Re gradì le copie di una nostra rivista, “Problemi d’Italia”. Si parlò dell’Opera Nazionale Combattenti, delle bonifiche di Coltano, dello sviluppo degli impianti idroelettrici in Italia, di economia e di province, della guerra, di San Rossore, della pesca, della caccia, degli uccelletti (erano quaglie?) uccisi quella mattina dalla Regina, gli altri uccelletti (erano fringuelli?) abbattuti da Iolanda. Mia moglie la Regina, mia figlia la Principessa. Quaranta, forse cinquanta minuti di conversazione veloce, cordiale, apparentemente così aperta, in realtà così controllata, e noi sempre dietro col nostro inseguimento mascherato, affannato, che non guadagnava un solo palmo di terreno. In un momento di stanchezza, il commiato. La questione per lui a torto era di pura tecnica costituzionale, e le vie normali dell’opposizione attraverso il Senato e la Camera dei deputati erano storicamente aperte, se pure praticamente, per avversa volontà di Mussolini, non erano in grado di funzionare». Secondo Viola, che ne scrisse in “I combattenti e Mussolini dopo il Congresso di Assisi”, il racconto di Zino è in buona parte inventato e di pessimo gusto.
Al di là delle narrazioni e dei dettagli (la principessa era Iolanda o Mafalda…?), l’incontro del re con il comitato centrale dell’ANC è stato ripetutamente enfatizzato (anche da Emilio Lussu, che ha insistito sulle “quaglie”) ed elevato a prova dell’insensibilità politica di Vittorio Emanuele III nei confronti del sentimento diffuso nel Paese. Però, proprio nel centenario dell’“affare Matteotti” (di cui bene ha scritto Gianpaolo Romanato per Bompiani) in “Il nemico Mussolini” (ed. Solferino, 2024) Marzio Breda e Stefano Caretti, studiosi niente affatto indulgenti nei confronti della monarchia, osservano che l’Aventino fu “una mossa politica azzardata e sterile”. Viene decisa, essi scrivono, «nella speranza che l’esecutivo, screditato in tutt’Europa, imploda. Ma perché ciò possa avvenire sarebbe necessario che a sollecitarne la caduta sia un unico concorso di poteri: i partiti moderati, il mondo economico e imprenditoriale, una borghesia riflessiva, la Chiesa e, soprattutto, casa Savoia. Qui sta l’intrico paralizzante di quei mesi, perché – a causa delle loro divisioni – le forze che si oppongono al fascismo non sono in grado di suggerire al re di sfiduciare il duce e mettere in cantiere una soluzione d’emergenza all’altezza della crisi. Una svolta che non si traduca comunque in un salto nel buio». Al contrario di quanto scrive padre Giovanni Sale in “La Civiltà Cattolica” (1 agosto 2024), a spianare la via ai fascisti non furono solo i liberali ma anche i cattolici, con alla testa Alcide De Gasperi e Giovanni Gronchi.
Dopo l’“affare Matteotti” gli unici a muoversi furono i massoni, sia del Grande Oriente sia della Gran Loggia d’Italia, ignorati da Breda e Caretti. Lo fecero perché alcuni responsabili del rapimento e della morte di Matteotti erano uomini di loggia, ma non è chiaro se ancora attivi e quotizzanti (era il caso di Giovanni Marinelli, mentre erano stati radiati da tempo Amerigo Dùmini e i suoi complici) e perché alcuni “fratelli” gettati alle ortiche da Mussolini, come Cesare Rossi, capo del suo ufficio stampa, si rivolsero proprio a massoni per far circolare “memoriali” che mettevano sotto accusa la cerchia stretta del duce. Mussolini se la legò al dito e decise che prima di azzerare libertà di stampa e di associazione partitica bisognava “distruggere il Tempio”. Le logge erano un partito all’interno del partito, una piovra nello Stato e nei suoi uffici apicali. Erano affiliati anche Arturo Cittadini e forse persino il re? Di sicuro centinaia di ufficiali della Milizia erano massoni, come molti componenti del Gran consiglio.
L’offensiva mussoliniana ebbe il consenso pieno del segretario di Stato vaticano, Pietro Gasparri. Mentre il duce mise nel mirino le logge, il cardinale diffidò i sacerdoti dall’ingerirsi nella vita politica italiana. Invece incitò i cattolici francesi a schierarsi contro l’avanzata delle sinistre Oltralpe. Lo aveva già fatto papa Leone XIII: due pesi, due misure. Divieto ai cattolici di elettorato attivo e passivo al di qua delle Alpi; mobilitazione contro gli anticlericali nella nazione primogenita della Chiesa.
Ma, venendo al punto, su chi poteva contare Vittorio Emanuele III per arginare Mussolini? Dall’estate del 1924 l’Aventino divenne dichiaratamente antimonarchico. Al comitato delle opposizioni radunato a Milano il 1° ottobre il repubblicano Cipriano Facchinetti anche a nome di “Italia Libera” chiamò alla lotta contro la Corona. Solo il 15 novembre Giolitti si schierò nettamente contro il governo Mussolini, che però alla Camera ottenne 347 voti favorevoli contro sei (Giolitti, Soleri, Fazio, Poggi, Massimo Rocca e Rubilli) e 26 astenuti. Anche il Senato continuò ad approvare il governo quasi all’unanimità e col voto favorevole di Benedetto Croce. A chi si poteva/doveva rivolgere il re per contrastare la deriva verso il partito unico? Non era una questione di quaglie o di fringuelli ma di capipartito del tutto al di sotto del compito di rappresentare la democrazia parlamentare ormai vicina all’eclissi.
Aldo A. Mola
Ettore Viola (Fornoli, Lucca, 21 aprile 1894 – Roma, 25 febbraio 1986). Meritò due Medaglie d’Argento al Valor Militare e “la più bella Medaglia d’Oro della Grande Guerra” a giudizio di Umberto II, che nel 1969 lo creò conte di Ca’ Tasson, teatro di una delle sue imprese di ardito. Volontario con Gabriele d’Annunzio nel 1920, fondatore dell’Istituto del Nastro Azzurro (1923), eletto deputato il 6 aprile 1924 nella Lista Nazionale, si oppose alla deriva verso il regime di partito unico. Intervenne alla Camera sino al dicembre 1926. Nel mirino dell’estremismo mussoliniano, migrò in Cile. Ne rientrò nel 1944. Membro della Consulta Nazionale (1945), presidente dell’Associazione nazionale combattenti e reduci, fu eletto nel 1948 nelle file della Democrazia cristiana e nel 1954 in quelle monarchiche. Nel 1972 optò per i liberali e denunciò le ruberie della Coldiretti. Scrisse varie opere memoriali (Vita di Guerra; Il segno che parla; Ritratti quotidiani…). Il suo miglior profilo è scritto da Andrea Borella nell’“Annuario della Nobiltà Italiana” (2010). Sua moglie, Palma De Luca, morta il 1° agosto 2023, è sepolta al suo fianco a Cima Grappa, come la moglie del generale Gaetano Giardino. (Fonte immagine: dati.camera.it)