Esiste il diritto di restare analogici?
L’Unione Europea, nei giorni scorsi, ha raggiunto un accordo in sede di “trilogo” -l’organismo informale costituito da Parlamento, Consiglio e Commissione- sul tema dell’Intelligenza Artificiale (EU AI Act, espressione già irritante nella sua cacofonia), accordo che dovrebbe tradursi a breve in una normativa di dettaglio in grado di tutelare i diritti dei cittadini di fronte all’avanzata di questa novità tecnologica.
Non abbiamo le competenze tecniche per discutere di questa invenzione che sembra voler progressivamente sostituire la più nobile ed elevata fra le facoltà umane, e neppure abbiamo il testo del provvedimento europeo che, per quel che sappiamo, dovrebbe porre dei limiti giuridici all’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale nel riconoscimento automatico dei dati individuali, delle caratteristiche fisiche, delle manifestazioni personali degli esseri umani, sia ai fini identificativi sia ai fini del controllo dei loro comportamenti, in particolare di quelli riprovevoli sotto l’aspetto sociale.
In sostanza si cercherà di porre qualche argine alla tremenda invasività dell’Intelligenza Artificiale che, con la sua infinita capacità di calcolo, rischia di dar corpo non solo a un oscuro progetto totalitario di controllo sociale ma anche a un vero e proprio antagonista del genere umano dotato di incontrollabile autonomia rispetto al suo creatore, come raccontato tante volte nella letteratura fantascientifica e in quella distopica.
Nonostante la signora Von der Leyen abbia magnificato questa iniziativa, prima nel mondo, essa ci lascia perplessi. Non solo per la verbosa casistica definitoria e procedurale che sicuramente verrà messa in campo come al solito dall’Unione Europea e per l’inevitabile moltiplicazione di organi di controllo, con tutto il personale burocratico e la pletora di strumenti operativi pagati da noi, ma anche e soprattutto per la prevedibile inutilità di tutto questo apparato.
La tecnologia viaggia molto più veloce di chi vuole circoscriverla e controllarla. Basta fare un giro in internet per scoprire come il mondo trabocchi di hackers, trolls, nerds e altra fauna tecnologica che talvolta lavorano da soli, altre volte in gruppo, altre ancora al servizio di imprese, organizzazioni, enti, cosche, stati canaglia, mafie e gruppi terroristici, e mai -non è neppure il caso di precisarlo- per il nostro bene o per i nostri interessi. Il dark web, il lato oscuro di internet, è sovrappopolato di questi soggetti, un vero e proprio impero del male che, non appena avrà l’occasione di congiungersi con l’Intelligenza Artificiale, lo farà sicuramente e le conseguenze per la nostra civiltà saranno devastanti.
La normativa europea parte dal presupposto assolutamente sbagliato che questa intelligenza lavori solo alla luce del sole, e sia quindi controllabile con un apposito apparato normativo. Ma così non è, e comunque se anche l’Intelligenza Artificiale fosse privilegio solo degli stati, delle strutture pubbliche, delle imprese e degli enti che operano legalmente, non è per nulla detto che essi opererebbero sempre per scopi politicamente leciti e socialmente apprezzabili.
Già molte strutture parallele, come i servizi segreti, gli apparati militari e le agenzie preposte alla sicurezza degli stati, molto spesso agiscono ai limiti della legalità, e spesso ben oltre, e dunque immaginate che cosa potrebbero produrre, in termini di delinquenza statale o para-statale, se fornite di uno strumento infinitamente potente come l’Intelligenza Artificiale.
Lo stesso dicasi per uno stato che, cedendo alla tentazione totalitaria (cosa che accade sempre più spesso anche nelle democrazie e nelle post-democrazie), e mascherandola dietro il paravento della sicurezza, voglia utilizzare quello strumento per imporre il suo potere. La lezione delle violente misure anti-Covid è troppo recente e troppo scolpita nelle nostre memorie per non temere che possa ripetersi, questa volta potenziata e moltiplicata per mille da una tecnologia che non lascerebbe più scampo a nessuno che fosse sprovvisto di un qualche green pass concesso dal volonteroso e cieco burocrate di turno.
Il denaro digitale si colloca nella stessa deriva. La sua digitalizzazione ne corrode la stessa essenza: basta il clic di un piccolo impiegato di banca, di un piccolo agente di polizia, di un piccolo funzionario dell’amministrazione finanziaria, del contabile di una grande impresa che fornisce servizi pubblici o privati e il denaro sparisce dai conti correnti, si vaporizza, non esiste più come denaro oppure diventa indisponibile, il che è la stessa cosa.
Fatti che sono già successi e che possono sicuramente ripetersi. La saggezza dei nonni e dei bisnonni che tenevano le banconote nel materasso, pur con tutti i rischi correlati, in fondo non era disprezzabile, anche se forse non avevano in mente l’affermazione di un grande scrittore russo secondo cui la moneta è “libertà coniata”.
Al di là di questi scenari apocalittici ma per nulla improbabili, basta però la nostra esperienza quotidiana per metterci in guardia dai pericoli della digitalizzazione di ogni nostra attività; digitalizzazione che, se funziona, è certamente fattore di crescita economica e di liberazione del nostro tempo.
Peccato che molto spesso non funziona, perché va tenuto conto che essa è potentissima in termini di elaborazione dei dati ma anche estremamente fragile sia sotto l’aspetto dei software sia sotto quello dell’hardware che con grande frequenza subiscono piccoli e grandi collassi rendendo la vita impossibile a chi li utilizza, soprattutto se anziani, se poco addestrati, se scarsamente acculturati, se affetti da problemi cognitivi o anche semplicemente se rimasti fuori dal mondo digitale per cause a loro non imputabili.
Francesco Carraro, avvocato e brillante saggista, nel luglio di quest’anno ha pubblicato su Il fatto quotidiano un mirabile articolo che reca un titolo estremamente attuale: “Esiste il diritto di restare analogici?”
Carraro si chiede se l’ondata di digitalizzazione che ci ha investito e che ci sommergerà ancor di più in futuro possa configurare una violazione di diritti rilevanti non solo dal punto di vista umano e politico ma anche da quello giuridico, portando argomentazioni molto simili a quelle esposte più sopra.
In particolare nota come non tutti siano in grado di entrare nel mondo digitale e quindi possa nascere in capo a loro un vero e proprio diritto di resistenza a quella che egli definisce “digitalizzazione universale coatta ed estensiva” (di cui la moneta digitale rappresenta un elemento non secondario) violando l’articolo 3 della Costituzione nella parte in cui afferma che “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Carraro cita poi la cosiddetta Dichiarazione dei diritti di internet (elaborata dalla Commissione sui diritti e doveri della rete istituita presso la Camera dei Deputati) e presentata il 28 luglio 2015 dall’allora presidente della Camera Laura Boldrini.
Nel citato documento, si legge, all’articolo 7: “Nessun atto, provvedimento giudiziario o amministrativo, decisione comunque destinata ad incidere in maniera significativa nella sfera delle persone possono essere fondati unicamente su un trattamento automatizzato di dati personali volto a definire il profilo o la personalità dell’interessato”.
Si tratta di una proposta assolutamente intelligente e condivisibile (può succedere anche alla Boldrini) e che varrebbe la pena di riprendere e portare a compimento, o magari anche solo per aprire un dibattito serio su questo diritto a restare analogici, che la sinistra -grande inventrice di improbabili nuovi diritti- non potrebbe e dovrebbe rifiutare.
Non tanto per ribadire quel pericolo di un totalitarismo digitale a cui accennavamo all’inizio, ma anche solo e semplicemente per dare alla gente normale, magari a quella più semplice e indifesa, la possibilità di non venire respinta ogni giorno dal muro dei codici, delle password, dei PIN, dei click day, delle noreplay, delle app truffa, degli account e dalle mille altre anglofonie della civiltà digitale.
Per non dover più assistere alla scena di qualche giorno fa, in un grande ospedale torinese, dove un nonno non riusciva a pagare il ticket perché un macchinone infernale, per un qualche guasto, non leggeva più il codice a barre del documento e costringeva gli utenti a digitare una per una le ventisette lettere e i numeri sotto il codice.
L’abbiamo aiutato dettandogli le lettere, ignorando quelli che sbuffavano in coda, e abbiamo scoperto due nuovi e modernissimi sentimenti: la pietà digitale e la solidarietà analogica.
Chissà che non possano diventare i pilastri di una qualche nuova forma di umanità.
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