Di Aldo A. Mola
Marco Albera, un Mecenate
“Grande libro, grande malanno” sentenziò l’ellenistico Callimaco (Cirene, 305 ca-Alessandria, 240 a.C.), maestro di stile e, dopo “Omero”, il poeta più citato nell’antichità. Sfortunatamente, di lui si è salvato pochissimo. Ma quella sua “lezione” continua a fare scuola. Avrà ispirato anche il nuovo libro di Marco Albera, torinese, laureato in Architettura (Restauro dei Monumenti) e in Storia (Facoltà di Lettere dell’Università di Torino), già presidente dell’Accademia Albertina di Belle Arti, collezionista e mecenate insigne, organizzatore di oltre quaranta mostre e autore di un centinaio di saggi e volumi sulla storia della goliardia e su temi di nicchia, come “Il Maggiore Branda dè Lucioni e la Massa Cristiana”, “Gianduja e il Bogo. Cento anni di carnevali a Torino” e “L’altro Risorgimento. Cronache dal Traforo del Fréjus”, in collaborazione con Giorgio Enrico Cavallo (2024), i due ultimi con l’egida del Centro Studi Piemontesi.
“Vir bonus, dicendi peritus”, dall’inizio del suo cammino scientifico Albera ha imboccato una via del tutto personale, libera da pregiudizi ideologici, attenta a cogliere i capisaldi della formazione dell’uomo: l’educazione nella tradizione, innervata sulla religiosità.
Il suo lavoro più recente, “Dal tramonto all’aurora. Una storia per 12 ritratti. La Famiglia Savoia nel 1789 nei ritratti di Carlo Sarmetti” (Torino, Il Pennino di Dino Aloi) è datato “6 ottobre 2024, festa di San Bruno, fondatore dell’ordine Certosino”: una scelta niente affatto casuale. Un richiamo, anzi, allo studio come paziente cura del dettaglio e un invito a resistere alla tentazione delle mode, a non temere i marosi delle malignità, a guardare con ferma serenità al futuro, perché “ciò che era torna e tornerà per sempre”, come insegnavano i goliardi torinesi di fine Ottocento a lui cari e la cui storia ha promosso generosamente fornendo il materiale per il volume “Corda Fratres” (pref. di Fabio Roversi Monaco, Clueb, Bologna, 1998).
La Via Crucis sabauda tra Rivoluzione e Restaurazione
In sole 88 pagine Albera riassume secoli di storia incardinati sul fatale 1789, l’anno nel quale Carlo Sarmetti (Torino, 1740-1801), pittore di corte, completò la serie di ritratti di Vittorio Amedeo III di Savoia, re di Sardegna, e dei suoi figli: quasi una fotografia di famiglia, mentre a Parigi la Grande Rivoluzione apriva un’epoca comunque nuova, sia per quanto ne venne travolto e spesso spazzato via in forme drammatiche (si pensi anche all’orrendo strazio della sabauda Principessa di Lamballe, gran maestra di un’Obbedienza massonica), sia per quanto ne scaturì: l’enunciazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, le “nazioni” e le classi sociali, tre soggetti di rivoluzioni avviate nel 1789-1794, proseguite a segmenti discontinui e oggi finite sotto traccia, malgrado tante rivendicazioni retoriche, dopo la catastrofe della prima metà del Novecento e l’inopinato ritorno della Guerra quale prepotente protagonista della storia mondiale, in sprezzo a ogni rispetto umano.
La “fedeltà sabauda”, che per Albera è canone esistenziale, percorre la prima metà del saggio, densa sintesi dei centocinquant’anni dalla vittoriosa compartecipazione alla guerra di successione sul trono di Spagna alla prima guerra per l’indipendenza dell’Italia. Dal primo conflitto i Savoia uscirono con il rango di Re (di Sicilia prima, di Sardegna poi), ottenuto da Vittorio Amedeo II, la Volpe savoiarda. Dal secondo, rovinoso, nel marzo 1839 Carlo Alberto uscì sconfitto sul campo di Novara e indotto all’esilio. Il suo regno era sotto l’incubo del gravosissimo trattato di pace imposto da Vienna e sembrava condannato per sempre a Stato di terza fila in un’Europa dominata dall’impero d’Austria. Questo dominava direttamente o indirettamente l’Italia intera, tranne, appunto, il regno di Sardegna, sin dalla primavera del 1848 tradito dai sovrani degli Stati preunitari che, malgrado promesse e impegni, lo lasciarono solo nella guerra contro Vienna. Ma Torino sparigliò i giochi: Vittorio Emanuele II conservò lo Statuto, non solo per i “piemontesi”, ma per tutti gli italiani che volevano indipendenza, unità e libertà.
Strategie matrimoniali e Regie patenti sulle nozze dei Principi
Albera evidenzia che lungo il Settecento Casa Savoia strinse legami parentali quasi esclusivamente con principesse tedesche. La svolta venne con le nozze di Vittorio Amedeo III con l’infanta di Spagna (una Borbone) e con altri matrimoni tra principesse sabaude e futuri re di Francia: il conte di Provenza, poi Luigi XVIII, che sposò Maria Giuseppina, e il conte di Artois, che prese in moglie Maria Teresa, mentre Carlo Emanuele, erede al trono, sposò Maria Clotilde di Borbone-Francia. Unica eccezione furono le nozze del futuro Vittorio Emanuele I con Maria Teresa d’Asburgo-Austria, quasi ad allontanare sospetti su scelte unilaterali di future alleanze militari.
Dopo la guerra dei Sette Anni, l’Europa viveva una tra le poche stagioni di pace, avvantaggiata dall’espansionismo coloniale e dalle importazioni di generi di consumo ad alto valore aggiunto, che stavano modificando celermente la vita quotidiana. Nondimeno la “grande politica” rimaneva una variabile dipendente dalle ambizioni delle Case regnanti e quindi dalle loro strategie matrimoniali. A lungo deprecate o persino irrise da certa storiografia che le ha considerate irrilevanti rispetto ai sommovimenti sociali e alle dinamiche economiche, esse meritano di venir comprese alla luce dell’età presente che, piaccia o meno, è dominata dalle “personalità” dei capi di Stato e di governi, a volte elette da organizzazioni complesse (come si è appena veduto negli Stati Uniti d’America) o sono supportate da forze radicate in ideologie (è il caso della Cina) o sorrette da regimi che esse stesse hanno manipolato con decennale esercizio del potere (come la Federazione russa di Vladimir Putin). Vale altresì per quanti siedono al vertice di istituzioni non elette dai cittadini: un esempio per tutti è la presidente della Commissione Europea, doppiamente asimmetrica rispetto al Consiglio e al Parlamento europeo: potentissima e vulnerabile a un sol tempo, costretta a equilibrismi dalla durata improbabile.
Per chi osservi il percorso storico non a sezioni cronologicamente spezzate ma cercandone il “continuum” al di là delle apparenze, le “personalità dominanti” nel mondo odierno sono la versione ammodernata dei sovrani d’un tempo, distinti e spesso distanti dai rispettivi “popoli”. Le sorti del pianeta mondo dipendono dai “sistemi” (partiti, reti di interessi…) di cui sono espressione e dalle alleanze che via via ne sorgono.
Quasi presagisse la fragilità del Regno costruito nel corso dei secoli, come scrupolosamente documenta Andrea Borella nell’“Annuario della Nobiltà Italiana, 2015-2020”, con proprie regie patenti Vittorio Amedeo III nel 1780-1781, quasi alla vigilia dell’uragano rivoluzionario, normò le nozze dei principi reali e dei principi del sangue di Casa Savoia: altrettanti tasselli della politica estera e militare di una dinastia le cui sorti nel quarantennio seguente parvero sul punto di esaurirsi non tanto per assalti dall’esterno ma per le sorti mortali dei titolati alla successione.
È quanto avvenne all’indomani della morte di Vittorio Amedeo III, il cui Stato venne investito per primo dalla guerra scatenata dalla Francia giacobina e proseguita da quella del Direttorio e dal suo generale di spicco, Napoleone Buonaparte, che piegò il Vecchio Piemonte e gli impose l’armistizio di Cherasco, preludio delle sventure successive, culminate con la cacciata del re sabaudo dai domini di terraferma e con la loro annessione alla Repubblica francese e, di seguito, all’Impero napoleonico.
In assenza di discendenti diretti del ramo che lo aveva retto per secoli, l’estrema risorsa della Casa fu il principe Carlo Alberto di Savoia Carignano, parente in dodicesimo grado (ricorda Albera) dei tre ultimi sovrani del ramo precedente: Carlo Emanuele IV, Vittorio Emanuele I e Carlo Felice, tre figli di Vittorio Amedeo III, nessuno dei quali ebbe discendenti maschi ai quali trasmettere la Corona in forza della legge salica, immodificabile e nel 1848 ribadita da Carlo Alberto nello Statuto concesso ai regnicoli per saldarne le sorti con quelle dei Savoia.
Una storia “cristiana”, di Verità
Faremmo torto all’autore e ai lettori se tacessimo il proposito che Marco Albera ha dichiarato quale cardine del saggio nel quale ha condensato la sua “fede sabauda”. «Perché scrivere questa pagina di storia, dopo tanti anni? In fondo – egli annota– si tratta di argomenti logorati dal tempo e che poco importano alle generazioni dell’oggi. Invece no. L’uomo non può fare a meno di analizzare le proprie radici, scoprirle, valorizzarle. E se l’uomo è un uomo che guarda al Cielo con speranza cristiana, allora gli argomenti del passato non sembrano più così vecchi e inutili. Diventano vivi, perché da essi si impara ciò che è utile al presente. Il bello della storia è che il tempo è una costruzione umana, e ciò che ci separa in termini di mesi, anni o secoli dalle persone che vissero prima di noi può essere colmato, se ci si approccia al passato col desiderio di conoscere: e di conoscere il vero. Lo storico, se cristiano, ha poi un dovere morale, un compito che non può essere dimenticato»: mai dire il falso, né mai tacere verità scomode. Sono parole schiette, che magari si possono non condividere, ma vanno rispettate perché genuine: sono parole di “testimone” (che è sinonimo di “martire”). Esse vanno meditate anche e soprattutto da chi è tacciato, quasi fosse colpa, di neopelagianesimo e neognosticismo e, nel turbine del tempo presente, deve mostrare di non vergognarsene affatto e di saper proseguire sulla propria via.
Un significativo esempio di onestà intellettuale applicata alla verità storiografica è fornito da Albera quando, senza dimenticare il bel libro del suo amico e collaboratore Giorgio Enrico Cavallo su Napoleone ladro d’arte (ed. D’Ettoris), scrive: «è indubbio che fu proprio Napoleone il conquistatore a suscitare nelle genti della penisola il sospetto – soltanto un sospetto? – che la sorte comune venisse prima delle minuscole beghe particolari. Il campanilismo italiano forse poteva essere messo da parte, se prima veniva il bene di tutti. Che è un po’ il principio che avrebbe dovuto reggere anche l’Unione Europea: nata sotto le migliori intenzioni, è poi diventata un golem senza volto perché, essenzialmente, si è trattato di un esperimento senz’anima. Ma l’Italia, invece, la sua anima l’ha preservata. O, almeno ha cercato di farlo. Ed è successo grazie ai Savoia, che hanno preso lo scettro di un paese che nemmeno esisteva: lo hanno creato al momento giusto, quando gli italiani avevano preso coscienza di sé in modo abbastanza consapevole. L’Italia non sarebbe l’Italia senza i Savoia. E i Savoia erano poi gli stessi che, fino a pochi anni prima, sembravano sul punto di sparire, di estinguersi come ingombranti dinosauri della storia, senza discendenza e senza speranza. Ma dopo il tramonto e la notte più tenebrosa, c’è sempre l’aurora.»
Albera lo ribadisce citando una frase dalla “Storia della monarchia in Italia” pubblicata da Bompiani ventidue anni addietro: guardando in viso Carlo Emanuele IV in partenza in sordina da Torino verso la Toscana e la Sardegna, suo ultimo e unico rifugio, «nessuno avrebbe mai ipotizzato che un membro della sua Casa potesse avere il ruolo decisivo poi assunto dai Savoia nel secolo seguente. Come disse Lenin, la storia ha più fantasia degli storici».
Lo si vide anche dall’opera discreta e fattiva per l’Italia ventura svolta dalle logge massoniche nell’età napoleonica e, un secolo dopo, con le nozze alchemiche tra Vittorio Emanuele III e la principessa Elena del Montenegro (nata ortodossa), di cui scrive Maurizio Grandi in “I farmaci e la meccanica quantistica della dottoressa Jelena, la Regina d’Italia” (ed. La Torre). Il suo è un altro libro, come quello di Albera, non grosso ma grande, un’opera giustamente destinataria, il prossimo 23 novembre, di uno dei Premi “Antonio Semeria” conferiti alla saggistica dal Casinò di Sanremo su decisione di una prestigiosa giuria scientifica coordinata dalla dottoressa Marzia Taruffi, scrittrice e poetessa, presidente dell’Associazione “Esprit”. Ne parleremo.
Aldo A. Mola
Quattro Ritratti di Re sabaudi dipinti da Carlo Sarmetti (proprietà Marco Albera): Vittorio Amedeo III (1773-1796) e i suoi tre figli susseguitisi sul trono di Torino: Carlo Emanuele IV (1796-1802, abdicatario), Vittorio Emanuele I (1802-1821, abdicatario) e Carlo Felice (1821-1831). Tutti senza discendenti maschi. La Corona passò al principe Carlo Alberto di Savoia Carignano (1831-1849) e ai suoi discendenti: Vittorio Emanuele II (1849-1878), Umberto I (1878-1900, assassinato), Vittorio Emanuele III (1900-1946, abdicatario) e Umberto II (1946-1983, mai abdicatario).
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