
La risposta è in un’urna, nella chiesa di San Vito ai Colli
Le reliquie di San Valentino sono conservate a Torino?
Qual è il rapporto fra la città e il santo degli innamorati? Il più celebre parco cittadino porta il suo nome, così come il Castello, acquistato da Emanuele Filiberto di Savoia nel 1564. Al riguardo, Luigi Cibrario, nella sua Storia di Torino, scrive che «sulla riva del Po eravi qualche casa che aveva preso probabilmente fin dai tempi romani il nome di Valentino; se pure non derivava quel nome da una cappella dedicata a S. Valentino».
Nell’edizione del 1912 dell’elenco degli Edifici Monumentali della Provincia di Torino, alla pagina 123 si legge: «Chiesa parrocchiale dei santi Vito, Modesto e Crescenzia, con transenne in marmo del sec. X° e lapidi romane».
Nel 1930, purtroppo, l’allora parroco don Agostino Basso, con il rifacimento del pavimento della chiesa, cancella ogni traccia delle antiche lapidi poste in terra e dei sepolcri sotterranei.
La vicenda di San Valentino e del suo rapporto con Torino si muove su un terreno fra storia e leggenda; che cosa dicono i documenti di cui disponiamo?
Il primo di essi è datato 6 novembre 1275: il Vescovo di Torino, Goffredo (in carica dal 1264 alla sua morte nel 1300), concede il diritto di pesca, a nome della Chiesa di Torino, in una zona sul fiume chiamata “Valentinum”.
Il 6 marzo 1385 un Ordinato della Città di Torino dispone la riparazione della Strada del Valentino.
Questi due documenti sono sufficienti a sfatare la leggenda secondo cui il nome deriverebbe dalla nobildonna chierese Valentina Balbiano, per amore della quale il consorte Renato Birago avrebbe fatto gettare le fondamenta del primo Castello del Valentino. Milanese di origine, dopo una brillante carriera politica in Francia, durante il controllo francese sul Piemonte, egli divenne Maestro delle Richieste del Parlamento di Torino (1539) e ne fu anche presidente nel 1543.
Torniamo alla relazione che unisce San Valentino a Torino, con l’aiuto di altri documenti.
Il primo è un’istanza non datata, del parroco della chiesa collinare dedicata ai Santi Vito, Modesto e Crescenzia, don Giuseppe Antonio Maffei (sottoscritta anche dal Padre Porro di San Giuseppe, dal Sacerdote don Tempia dei Teologi del Corpus Domini, dal Sacerdote Turinetti “professore della Regia Scuola d’Umanità”, dal Conte G. B. Galperti “della valle di San Vito” e da altri), diretta all’Arcivescovo Francesco Luserna Rorengo di Rorà: con essa si richiede la traslazione in chiesa delle reliquie di San Valentino. Don Maffei era, all’epoca, “curato della parrocchia sotto il titolo dei Santi Vito, Modesto e Crescenzia eretta sovra gli monti di questa città”, richiede “decoro” nella traslazione e dispone un triduo di preghiera, l’esposizione del SS. Sacramento e la concessione dell’indulgenza a chi, “confessato e comunicato”, si recasse a visitare la reliquia del martire, con la dedica nella terza domenica di ottobre alla festività in suo onore. La traslazione “del corpo del glorioso martire San Valentino” avverrà dalla “pubblica cappella del Pilonetto situata al piano, ossia alle falde dei suddetti monti, lateralmente alla strada pubblica che dal borgo oltre il fiume Po tende alla città di Moncalieri” (corso Moncalieri nei pressi dell’attuale piazza Zara, N.d.A.).
Il secondo documento è la risposta, datata 11 settembre 1769: l’Arcivescovo concede il suo beneplacito; non solo, istituisce la celebrazione della festa annuale, l’indulgenza ai visitatori del “Sacro Corpo del Martire di Cristo, Valentino” e ai fedeli partecipanti.
Il terzo, decorato con lo stemma dell’Arcivescovo, risale esattamente ad un mese dopo, 11 ottobre: è la relazione con il resoconto della ricognizione e la conferma della autenticità delle reliquie (quest’ultimo documento è conservato nell’archivio della parrocchia). La descrizione è accurata: nell’urna si trova la reliquia del corpo “Sancti Valentini pueri” e accanto una ampolla di vetro aspersa col sangue del martire, provenienti dal cimitero romano di S. Agata. Il corpo è piccolo e sottile, ricoperto da una veste di seta azzurra trapunta di fiori d’argento; giace su un lettino scarlatto, con una palma fra le mani ed è circondato da una ghirlanda, entrambi simboli classici del martirio. La relazione si conclude con queste parole: «Così per mezzo nostro esse (le reliquie, N.d.A.) sono state autenticate, collocate e consegnate al pubblico culto dei fedeli nella chiesa parrocchiale intitolata ai SS. Vito, Modesto e Crescenzia, situata sui monti di questa città».
Una incisione in rame, conservata nella Biblioteca Reale di Torino, raffigura la processione che, a partire dal Pilonetto, trasporta le reliquie a San Vito, percorrendo la “strada dei morti” (attuale strada Ponte Isabella – San Vito), con il santo in gloria nei cieli fra uno stuolo di angeli e altri santi.
Chi sarebbe, dunque, il San Valentino conservato a Torino?
Negli Acta Sanctorum i santi con questo nome sono molti, due di essi sono riconducibili al “nostro”.
Leggiamo le biografie, secondo le fonti agiografiche dell’antichità. San Valentino di Terni nasce nel 170 dopo Cristo; giovane sacerdote, è vescovo intorno ai trent’anni, subisce il martirio nel 273 (età improbabile, anche in una agiografia…). San Valentino di Roma, presbitero, muore decollato sulla Via Flaminia, sotto l’Imperatore Claudio il Gotico, nel 268, in giovane età (da lui prenderà il nome la Catacomba di San Valentino). La sua figura si avvicina al corpo conservato nell’urna e alla relazione dell’Arcivescovo in occasione della ricognizione della salma.
Rimangono oscuri i motivi e le vicende del suo trasferimento da Roma a Torino. Da più di tre secoli l’urna è collocata in una nicchia dell’altare maggiore della chiesa in collina e mostra la figura di un giovane. Possiamo immaginare un ipotetico triangolo, nel nome di Valentino, che unisca il parco e il Castello omonimi e la chiesa di strada San Vito?
Recenti studi hanno visto la pubblicazione nel 2012 (Edoardo D’Angelo nel volume San Valentino e il suo culto tra Medioevo ed età contemporanea): le conclusioni a cui sono giunti gli storici riferiscono di un unico martire, il Vescovo di Terni, mentre il giovane sacerdote romano sembra passare nell’alone del mistero o della leggenda, la sua stessa figura potrebbe essere frutto di un equivoco. Un altro mistero torinese che rimarrà irrisolto?
Mi piace comunque pensare che, da lassù, il Santo degli innamorati (o chiunque ci sia in quell’urna) osservi con uno sguardo benevolo la nostra città e gli amori che ogni giorno nascono all’ombra della Mole, da questa chiesa in posizione dominante sulla città.
Così ne scrive Giuseppe Isidoro Arneudo in Torino sacra: «Un’amenissima strada, fiancheggiata da graziose ville e leggiadre palazzine, da campi e prati in dolce pendio, e da qualche vigneto, dipartentesi dallo stradone di Moncalieri, poc’oltre il Borgo così detto del Rubatto, e precisamente alla ‘Barriera di Piacenza’ conduce in mezz’ora alla Chiesa parrocchiale dedicata ai Santi Vito, Modesto e Crescenzia, comunemente designata col nome di ‘San Vito’, situata sur un colle non molto alto, al quale dà il nome, ed ove già in tempi assai remoti (cioè anticamente al mille) esisteva una cappella deciata parimente a San Vito e che era in possesso dei Canonici del Salvatore.
In una delle domeniche d’ottobre viene esposto alla pubblica venerazione il corpo di San Valentino, che si conserva in questa Chiesa, che, prima di pregi d’arte, ciò nulla meno è mèta, nella bella stagione, a festive passeggiate dei Torinesi, attratti a San Vito dalla piacevole comodità della strada e dal panorama incantevole che dall’alto del colle si gode sulla vicina Torino».
Qualche anno fa l’ultimo parroco di San Vito (oggi la chiesa è retta da un amministratore parrocchiale), don Valerio Andriano, Canonico Onorario del Capitolo SS. Trinità, mi ha concesso il privilegio di vedere l’urna da vicino. Egli ricordava di aver avuto fra i suoi parrocchiani la scrittrice Margherita Crema Giacomasso, che ha dedicato ben due opere alla collina torinese: La collina ornamento e difesa di Torino e Amore di collina. Anche grazie a lei sappiamo che vi erano ben 49 cappelle su questo versante di collina, che era un territorio agreste, con molti lavoranti a mezzadria, fino a un certo punto del Novecento. La evoluzione sociale ed economica, in pochi decenni, ha trasformato le cascine e le case agricole in dimore signorili, ricercate dalla finanza e dall’alta borghesia. Il Canonico Andriano mi ha anche raccontato che due scivoli dalle cappelle laterali, tramite botole, immettevano al livello sottostante della chiesa, ove si inumavano i corpi dei parrocchiani deceduti, fino al tempo napoleonico. In una relazione al Vescovo di Torino era stato segnalato il cattivo odore che si respirava in permanenza all’interno della chiesa, a causa delle esalazioni che provenivano dal livello sottostante.
La Strada dei Morti era l’antico percorso che, a partire dal ponte Isabella, si inerpicava per la collina fino alla chiesa di San Vito, il cui cimitero è stato attivo fino ai primi Anni Cinquanta del Novecento. Voci popolari narravano che la strada avesse questo nome perché, essendo molto stretta e con continui tornanti, era un luogo ideale dove i malfattori potevano nascondersi e assalire gli ignari passanti. La Strada dei Morti oggi non esiste più nella toponomastica, è un ricordo storico e una accattivante denominazione; l’attuale Strada Comunale di San Vito – Revigliasco è stata ostruita negli anni ‘70, in pieno cambiamento morfologico del territorio circostante.
Nella sua tesi di laurea, discussa nell’anno accademico 2018/2019, Chiara Molaro scrive: «Le relazioni tra Municipalità e la parrocchia di San Vito sono antiche e si riscontrano in documenti del 1100. Come per altre borgate anche questa, col passare degli anni, necessitò di un proprio sito di sepoltura, nuovamente viene convocato l’ingegner Barone che dopo controversie legali nel 1838 vide validare il suo progetto. Partendo dall’antico cimitero collocato appena sotto la parrocchia viene creata una nuova area a forma di ventaglio, su terreni ceduti dalla Municipalità. Il cimitero era diviso in campo per gli infanti e per gli adulti, separati da un viale contenente l’ossario generale. Sul lato opposto al settore dei bambini vi erano le sale a servizio delle sepolture. Soppresso nel 1952, le uniche due sepolture gentilizie furono riassegnate in altri campi santi torinesi».
In qualunque giorno dell’anno, non solo a San Valentino, vale la pena di salire fino a questa chiesa, per ammirare il panorama della città e delle montagne dal piccolo spiazzo adiacente.
© 2025 CIVICO20NEWS – riproduzione riservata
Scarica in PDF