
Di Alessandro Mella
Ci sono storie difficili da raccontare, storia che forse l’opportunità sconsiglierebbe di liberare dal velo d’oblio che le nasconde. Storie complesse, che hanno lasciato cicatrici ancora dolorose nel nostro paese, storia che ancora non riusciamo a raccontare senza sentirci coinvolti. Senza la tentazione di elogiare o condannare, di giudicare, di marchiare quasi fossimo in una posizione di superiorità morale assoluta.
Ciò vale, maggiormente, per le vicende del periodo 1943-1945 quando l’alta Italia fu sfiancata dall’occupazione tedesca e da una guerra di liberazione che, progressivamente, assunse sempre più i contorni violenti e feroci di una guerra civile.
In momenti in cui le persone, quando sceglievano da che parte del mondo stare, spesso lo facevano per idealismo ma a volte per caso, a volte per ingenuità, a volte perché prive dei riferimenti morali ed etici utili a capire quel che stava accadendo. La buona fede, certo, non giustifica scelte che oggi, alla nostra sensibilità, sembrano inaccettabili od almeno deprecabili. Ma è facile giudicare, per noi, seduti sulle nostre poltrone a leggere e commentare con uno smartphone in mano.
Diverso fu per una generazione di ventenni devastata dalla furia, dalla rabbia, dal rancore e dall’odio fratricida. E questa è solo una di quelle storie, di quelle migliaia di storie, che devono essere raccontate per capire quei tempi tormentosi.

Salvatore Di Latte, figlio di Vito, nacque a Carovigno, in provincia di Brindisi, l’11 agosto del 1923, ma presto si traferì a Torino. Forse in cerca di lavoro e fortuna.
Qui venne a trovarsi di fronte al dramma dell’armistizio e forse per via dell’educazione ricevuta compì una scelta che segnò il suo destino. Si arruolò nelle SS Italiane, i reparti che la Germania stava costituendo con quei volontari italiani che non avevano accettato la resa dell’Italia e che desideravano combattere ancora accanto ai tedeschi e per i tedeschi.
Salvatore venne inquadrato nell’82° reggimento I° battaglione della Milizia Armata Volontari SS, le SS italiane appunto.
Fu una decisione pesantissima, Salvo non si limitò a schierarsi con i tedeschi come stavano facendo molti militari della Repubblica Sociale Italiana. Lui si fece inquadrare in un reparto formalmente germanico, portava le rune al bavero della divisa, si fece carico dell’enorme responsabilità morale che quei simboli si portavano dietro dopo aver seviziato mezz’Europa.
Che l’idea gli piacesse o meno, quell’uniforme comportò anche la lotta al banditismo. Cioè le rappresaglie ed i rastrellamenti contro patrioti e partigiani. A Pomaretto, il 16 luglio 1944, il nostro Salvatore fu tra i feriti durante uno scontro a fuoco con i combattenti della Resistenza. Una raffica di mitra lo colpì alla gamba destra. (1)
Sopravvisse, comunque, ai combattimenti dei mesi successivi e si arrese con la 29ª Divisione Granatieri SS (la denominazione frattanto assunta dalle SS Italiane) agli angloamericani alla fine del 1945.
Fu schedato e deportato nel campo di concentramento di Coltano, in provincia di Pisa, ove rimase diversi mesi.
Gli Alleati, tuttavia, non trovarono imputazioni e colpe gravi da attribuirgli per cui finì per essere liberato dalla prigionia. Tornò a Torino convinto che tutto fosse ormai finito, che di nulla dovesse preoccuparsi, che gli stessi nemici avevano riconosciuto la sua posizione regolare.
Cercò lavoro e lo trovò in una panetteria di via Vanchiglia ove maturò la speranza di poter riprendere una vita normale.

Ma c’era chi non si era dimenticato di quel legionario delle SS Italiane in congedo, di quel sodale dei nazisti, di quel criminale di guerra vero o presunto. Una squadra della Polizia del Popolo partigiana lo prelevò e lo soppresse, con due colpi alla nuca, il 22 dicembre 1945. Diversi mesi dopo la fine del conflitto, poco prima del primo Natale di pace dopo tanti Natali di guerra.
La salma fu condotta in ospedale, forse ritrovata per le vie della città, e poco se ne disse anche se il suo nome comparve sullo Stato Civile dei giornali:
Di Latte Salvatore di Vito, a. 22, di Carovigno, pastaio, Mauriziano. (2)
Perché tutto questo? Troppe erano ancora le ferite pulsanti nel paese, troppo viva la memoria delle reciproche sofferenze, delle angherie, delle case bruciate, dei morti esposti al pubblico ludibrio. Troppo male ancora vivo perché la sete di vendetta si placasse. E Salvatore Di Latte ne fu vittima. E fu vittima dell’uniforme che scelse di portare, delle responsabilità che si assunse, di un tragico corso dei tempi e della storia.
Che sa essere feroce e violenta come gli esseri umani che ne determinano, sempre, le troppo spesso infelici vicende.
Alessandro Mella
NOTE
1) Sentire Pensare Volere: Storia Della Legione SS Italiana, Sergio Corbatti e Marco Nava, Edizioni Ritter, 2001, p. 162.
2) Gazzetta d’Italia (temporaneamente ex Gazzetta del Popolo), 133, Anno I, 27 dicembre 1945.
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