Di Aldo A. Mola
Quali obiettivi oltre il rombo delle armi?
Roma, 5 giugno 1944. La “Città Eterna” non era solo la capitale del regno d’Italia ma, appunto, il simbolo universale della civiltà, depositaria del pensiero greco-latino, di duemila anni di cristianesimo e del dualismo gnostico. I suoi monumenti avevano ispirato nei nomi e nello stile la Gran Bretagna del Sei-Settecento e gli Stati Uniti. Nel cuore di Washington, la Casa Bianca e il Campidoglio, sede del Congresso, sono in perfetto stile palladiano. Esprimono l’ambizione della Quarta Roma: dopo quella originaria, Costantinopoli e Mosca, la Terza Roma. Chi guarda al presente memore del passato e con l’occhio alla storia futura non si rallegra per l’assenza della Russia alla rievocazione di una battaglia importante come lo sbarco anglo-americano in Normandia iniziato il 6 giugno di ottant’anni addietro. Anche chi ammira in Napoleone I, “genio del mondo” quale parve ad Hegel, sa che senza Alessandro I Romanov e la tenacia di Kutuzov, principe di Smolensk, la Francia avrebbe dominato a tempo indeterminato l’Europa dall’Atlantico agli Urali e che senza il misticismo dello zar il Congresso di Vienna (1815) non avrebbe assicurato un secolo di pace: vasto mare del “concerto delle grandi potenze”, di quando in quando increspato da “guerre di teatro”, frenate dalla diplomazia prima che i sonnambuli precipitassero l’Europa nella nuova guerra dei Trent’anni (1914-1945).
Ma quando, nel volgere di due soli giorni (5-6 giugno 1944), giunsero a Roma e sbarcarono in Normandia quale idea dell’Europa, dell’Italia e della Città Eterna avevano gli statunitensi? Che cosa sapevano della monarchia di Savoia che appena settant’anni prima aveva fuso otto Stati in un regno unitario scomunicato dai papi?
Alle 20.25 del 4 giugno 1944 l’avanguardia dell’8^ armata americana comandata da Marc Clark entrò in Roma da Porta San Paolo, quella l’8-10 settembre 1943 strenuamente difesa contro i tedeschi dai granatieri di Sardegna e da cittadini in armi. Intrapresa l’offensiva da Anzio verso nord, mentre i germanici lasciavano le linee “Hitler” e “Caesar”, il 25 maggio il generale americano si trovò al bivio: puntare a est per intrappolare la 10^ armata tedesca comandata da Vietinghoff costringendo il nemico ad arretrare sulla linea gotica, come previsto dal maresciallo Kesselring sin dall’8 settembre 1943, o dirigersi su Roma. Irrompere nella Città Eterna poche ore prima che gli Alleati iniziassero il gigantesco sbarco in Normandia significava entrare nella storia. Clark optò per Roma. Il 5 la percorse da trionfatore.
La liberazione della Capitale da tedeschi e da fascisti repubblicani non fu importante sotto il profilo militare. Al suo interno essa conteneva uno scrigno: lo Stato della Città del Vaticano, finalmente libero dall’ipoteca hitleriana che da anni ne aveva condizionato il Magistero mettendo tra parentesi l’enciclica “Mit brennender sorge” di Pio XI. Da quando era iniziata la guerra, Roma non era mai stata una piazzaforte. All’opposto, nell’estate del 1943 il governo presieduto da Pietro Badoglio aveva cercato invano di ottenerle lo status di “città aperta”: un riconoscimento mai accordato dagli anglo-americani, che si riservarono il diritto di colpirla secondo le loro esigenze belliche. La sua liberazione fu decisiva per la storia istituzionale e politica. Perciò sorprende che il suo significato emblematico non sia stato evidenziato da parte da parte dei “media”, suggestionati dallo sbarco anglo-americano in Normandia, oggettivamente molto più importante dal punto di vista militare, perché pose le basi dell’assalto finale alla Germania, chiusa dalle Nazioni Unite (USA, Gran Bretagna, Unione sovietica…) nella tenaglia che dopo altri undici mesi di guerra senza quartiere stritolò i regimi di Hitler e del suo alleato residuo, la Repubblica sociale italiana (Rsi) di Benito Mussolini.
Lasciata Roma senza opporre resistenza, dal 4-5 giugno 1944 la 14^ armata germanica sfilò verso nord, incalzata da reparti della 1^ divisione corazzata statunitense. In due giorni questa avanzò di 40 chilometri, mentre il XIII corpo dell’8^ armata inglese e la 6^ divisione corazzata sudafricana raggiungevano Civita Castellana e l’8^ divisione del X corpo inglese inseguiva i tedeschi verso Subiaco. Al generale Lemelsen, subentrato a von Mackensen al comando dei germanici, non rimase che arretrare, lasciando alle spalle Tarquinia e Viterbo, liberata senza dover sparare un colpo di fucile. Il 9 giugno gli americani giunsero presso Orvieto, mentre gli inglesi, superate Chieti e Pescara sulla costa adriatica, piegavano verso Terni. L’11 giugno la prima 1^ divisione motorizzata del Corpo francese di spedizione entrò in Montefiascone, mentre la famigerata divisione algerina si attestò a Valentano. Il 18 giugno gli inglesi arrivarono a Perugia, i francesi a Radicofani e l’indomani, 19 giugno, occuparono l’isola d’Elba con il proposito, non ancora esplicito, di annetterla secondo l’antico “uti possidetis”. A quel punto l’avanzata degli Alleati rallentò. Iniziò la preparazione di un secondo fronte antigermanico nell’Europa occidentale: la futura operazione “Anvil”. Il piano d’assalto rimase ovviamente segreto per impedire ai tedeschi di premunirsi e di respingerlo, come era accaduto nella piana di Salerno l’8 settembre 1943, quando gli anglo-americani rischiarono di essere ributtati a mare (ne scrissero Massimo Mazzetti e Oreste Bovio), e ad Anzio-Nettuno, ove sbarcarono il 22 gennaio 1944, ma faticarono ad attestarsi. Rimasero al palo per mesi, benché dal settembre 1943 avessero promesso l’immediata liberazione della Capitale.
Moralizzare gli italiani
Per arrivare alle porte di Roma gli Alleati persero 42.000 uomini contro i 25.000 caduti tedeschi. Non combattevano “per gli italiani” ma per un’Europa purificata da rivalse aggressive sia tra i suoi Stati sia nei loro confronti. Anche gli italiani dovevano adeguarsi ai loro principi ideali e morali. Il cosiddetto “armistizio lungo” consegnato il 29 settembre 1943 dal comandante in capo alleato Eisenhower a Badoglio era stato netto. A parte le durissime clausole militari ed economiche, esso previde l’impunità per chi aveva agito contro il regime fascista anche con metodi “non convenzionali”, la consegna di Mussolini e dei gerarchi e la “soppressione della ideologia e dell’insegnamento fascista”. In sintesi gli italiani dovevano fare un “bagno purificatore”. Il governo doveva fornire “tutte le informazioni e i documenti occorrenti alle Nazioni Unite” con proibizione di “distruggere o nascondere archivi, verbali, progetti o qualsiasi altro documento o informazione” e doveva conformarsi alle istruzioni emanate dal Comandante supremo delle forze alleate. La Commissione Alleata di Controllo (ACC, acronimo in inglese) avrebbe operato attraverso uomini di sua nomina. Per “moralizzare” gli italiani fu istituito il PWB (Ufficio per la guerra psicologica), incaricato di passare al setaccio ogni dettaglio della vita pubblica e specialmente l’istruzione in ogni ordine e grado.
Malgrado la dichiarazione di guerra dell’Italia contro la Germania (13 ottobre) molti “uffici” militari e politici anglo-americani rimasero diffidenti e spesso ostili nei confronti della popolazione delle regioni via via liberate: un “mondo” che non conoscevano e che sentivano diverso, lontano. Spesso, come osservò Renato Prunas, si condussero non da liberatori ma da occupanti. Da parte sua il governo chiese invano maggior sostegno allo sforzo bellico che si riprometteva di attuare anche per ottenere lo “sconto di pena” prospettato dalla Dichiarazione di Quebec (18 agosto) e nelle conversazioni svolte a margine degli strumenti di resa.
Tre mesi convulsi: dal riconoscimento italo-sovietico…
Il 13 marzo 1944, previ contatti segreti, il governo dell’Urss e quello d’Italia si scambiarono il reciproco riconoscimento: non era certo la “pace” ma era la fine delle ostilità e l’inizio della collaborazione dei sovietici e del partito comunista italiano per potenziare la guerra contro la Germania e i suoi alleati, a cominciare dalla RSI. Tre giorni dopo Vittorio Emanuele III comunicò al governo il suo progetto: alla liberazione di Roma avrebbe trasferito le prerogative regie al figlio, Umberto di Piemonte, in veste di Luogotenente. Sarebbe nato un governo politico, come da lui auspicato sin dal settembre 1943, e gli italiani avrebbero eletto la nuova Camera. Irritati dalle iniziative del sovrano e del governo in politica estera, gli Alleati imposero l’accelerazione del “cambio”. Sotto loro scomposta pressione, il 12 aprile il Re annunciò l’istituzione della Luogotenenza, ma in tempi e termini di sua volontà. L’Italia entrò in una sorta di limbo. La Luogotenenza era annunciata ma ancora non esisteva. Nondimeno Badoglio si dimise e formò un nuovo governo con i rappresentanti dei partiti del Comitato di liberazione nazionale, compreso quello comunista capitanato da Palmiro Togliatti, molto più pragmatico di socialisti e azionisti. Il 19 aprile Christopher Lumby, un giornalista del “Times” di Londra, pubblicò un “ritratto” molto benevolo del Luogotenente “in pectore”, Umberto. Alla domanda sul perché della guerra contro l’Inghilterra e la Francia il principe rispose quello che pensavano tutti ed è nei fatti: nessuno si era opposto a Mussolini. Nella seduta del 4 maggio Benedetto Croce e altri ministri del nuovo governo Badoglio criticarono aspramente Umberto: “Se vi fosse stata una responsabilità del popolo italiano, il che è assolutamente da escludere, il Principe avrebbe dovuto tacerne”. Ma chi aveva riempito le piazze il 10 giugno 1940, “giorno della follia” come ha scritto Ugoberto Alfassio Grimaldi? Il governo si premurò di cambiare il “seguito” del principe ereditario per evitargli ulteriori errori di comunicazione e decise che tutte le interviste dei ministri dovevano essere previamente visionate e autorizzate dal Consiglio (che operava su dettato della ACC).
…alla Luogotenenza
Nei propositi enunciati da Vittorio Emanuele III la liberazione di Roma doveva coincidere con il trasferimento delle prerogative della corona al figlio. Il re era stato chiaro: intendeva emettere il decreto in Roma. Ma sin dal 25 maggio, inizio della loro tardiva offensiva, gli Alleati avevano ordinato al maresciallo Badoglio che il re, “per adesso”, non doveva recarsi a Roma “per evitare, con la sua presenza, di provocare la reazione del popolo romano”. Dopo giorni di schermaglie, alle 10 del 5 giugno il governo si riunì d’urgenza per deliberare sulla richiesta del sovrano di effettuare in Roma il passaggio dei poteri. I Verbali sono pubblicati in edizione critica da Aldo Giovanni Ricci (Poligrafico dello Stato, 1994). Badoglio lesse la lettera approntata il giorno precedente per il generale Mason MacFarlane su sollecitazione del re. Vittorio Emanuele III intendeva datare da Roma il decreto “a salvaguardia della Monarchia”. Chiedeva pertanto “di poter giungere a Roma in aereo, scendere all’aeroporto di via Salaria, recarsi a Villa Savoia, senza entrare in città, per la firma del decreto, fare ritorno immediatamente a Ravello”. In alternativa avrebbe firmato anche solo nell’aeroporto, purché “sul suolo della capitale”. L’eventuale diniego doveva essergli comunicato per scritto in modo che risultasse “ufficialmente che la sua mancata presenza a Roma non era stata volontaria”. Badoglio sottopose al governo l’invio della lettera, non ancora inoltrata, e fece notare che “la questione nasce quindi da un motivo che si può umanamente comprendere”. In verità, la richiesta del re non era dettata da motivi “sentimentali” ma istituzionali. Vittorio Emanuele III credeva fermamente nell’Italia e nell’immortalità del proprio nome. Intendeva difendere l’una e l’altra a cospetto della Storia, l’unica Tribuna dinnanzi alla quale si sentiva chiamato a rispondere, con l’orgoglio di chi, asceso al trono all’assassinio del padre, Umberto I aveva regnato senza essere mai adeguatamente assecondato dai “politici”, corrivi a insediarsi al potere e a rimanervi. L’invio della lettera fu approvato dai ministri Giulio Rodinò, democristiano, Carlo Sforza e Benedetto Croce, a giudizio del quale “dopo tutte le rozzezze e le violenze compiute dal fascismo, si vuole restaurare la tradizionale cortesia degli italiani: essere italiani prima di essere ministri o uomini di partito” e, udite le focose obiezioni del ministro Attilio Di Napoli, aggiunse che “opporsi al desiderio re del avrebbe carattere ingiurioso”.
In un sussulto di onestà, Badoglio ricordò al Consiglio che il re aveva rimosso Mussolini e dichiarato guerra alla Germania. I titolari dei ministeri militari si schierarono a sostegno di Croce. Dopo lunga e aspra discussione il governo deliberò di non inviare la lettera, di informare verbalmente MacFarlane della richiesta del re e di comunicare al sovrano la risposta del generale inglese. Era una prova di pavidità. Ma accadde altro. A quel punto, infatti, Alberto Tarchiani, esponente del partito d’azione, anche a nome del collega Adolfo Omodeo, lesse una “dichiarazione”. Ricordò l’intervista rilasciata da Umberto a Lumby, a suo avviso lesiva degli interessi del Paese e già severamente giudicata dal governo, e propose che il governo “facesse noto” al re che era disposto ad accettare un Luogotenente “in ogni senso degno dell’alta carica, purché non fosse né il principe Umberto, per le ragioni suddette, né il Duca (Aimone) d’Aosta, per evidenti considerazioni di carattere internazionale”. L’invito di Togliatti a non riaprire la questione istituzionale cadde nel vuoto. La seduta fu sospesa. Riprese alle 18. Nel frattempo gli americani erano entrati in Roma e il generale Roberto Bencivenga, massone illustre, a lungo ospite del Collegio Laterano, aveva assunto il comando civile e militare della Capitale “in nome del Regio governo italiano e degli Alleati”. Non solo. Badoglio e Mac Farlane, in pantaloncini corti e in maniche di camicia, avevano raggiunto Ravello e ottenuto dal re la firma del decreto di trasferimento dei poteri. L’Italia entrò in una fase istituzionale nuova, densa di incognite. Lo si constatò con il Decreto legge luogotenenziale del 25 giugno 1944, n. 151 che annunciò l’elezione a suffragio universale maschile e femminile dell’Assembla titolata a decidere la forma dello Stato. Lo Statuto albertino fu implicitamente messo tra parentesi in una stagione di “costituzione provvisoria” durata sino al 19 giugno 1946. Al nuovo governo, presieduto da Ivanoe Bonomi, rimasto otto giorni in attesa del placet degli Alleati, MacFarlane impose di sottoscrivere la piena accettazione della resa senza condizione e vietò di istituire rapporti con governi di altri Stati senza autorizzazione degli Alleati. La sovranità era nettamente ridotta. Quel 5 giugno 1944 segnò “nigro lapillo” la storia dello Stato d’Italia, da quel momento in “libertà vigilata”.
Aldo A. Mola
LUIGI FEDERZONI TESTIMONE OCCULTO DELLA LIBERAZIONE DI ROMA
Fra i testimoni oculari dell’ingresso degli americani in Roma vi fu Luigi Federzoni (Bologna, 1878 – Roma, 1967). Nazionalista, deputato dal 1913, ministro delle Colonie dall’insediamento di Mussolini al governo e ministro dell’Interno dopo l’“affare Matteotti”, presidente del Senato per un decennio, monarchico intemerato, di formazione carducciana ma massonofago fanatico, con il conterraneo Dino Grandi e Giuseppe Bottai, tandem massone nella loggia “La Forgia” di Roma, aveva redatto l’ordine del giorno con il quale il 25 luglio 1943 il Gran consiglio del fascismo chiese a Mussolini di “pregare Sua Maestà” di assumere il comando delle forze armate dal giugno 1940 preteso da Mussolini. Ignaro, come gli altri gerarchi, che Vittorio Emanuele III aveva deciso di propria iniziativa di revocare il duce, sostituirlo con Badoglio e smantellare il partito fascista e tutti i suoi organi, Gran consiglio compreso, fiutato il vento ostile nell’agosto 1943 Federzoni ottenne ospitalità dall’ambasciatore del Portogallo presso la Santa Sede. Vi abitò in una confortevole soffitta, a contatto con il mondo tramite un apparecchio radio, i giornali e le conversazioni con l’ospite e un suo amico. Il 30 marzo 1944 ebbe in visita la primogenita.
Dal 19 settembre 1943 affidò le sue riflessioni sui tragici avvenimenti in un “Diario” pubblicato nel 2019 a cura di Erminia Ciccotti con introduzione di Aldo G. Ricci, sovrintendente emerito dell’Archivio centrale dello Stato. Generosamente pubblicati da Pontecorboli per il massonico Istituto “Lino Salvini” di Firenze, presieduto da Paolo Giuntini, i suoi 125 “capitoli” sono un esame di coscienza di chi aveva vissuto dall’interno il regime mussoliniano e costatava il fallimento della sua reincarnazione nelle vesti della Repubblica sociale.
Il 25 maggio Federzoni apprese con amarezza l’iniqua condanna a morte degli ammiragli Campioni, Mascherpa (senatori del regno e quindi coperti da immunità), Leonardi e Pavesi, pronunciata dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato della RSI, e dell’esecuzione capitale dei primi due, vittime di una “obbrobriosa vendetta che non perdona la fedeltà al giuramento prestato”. Non sapeva che Mascherpa era stato iniziato nella Gran Loggia d’Italia. Parimenti elogiò il generale Giuseppe Perotti e il professor Paolo Braccini, esponente del partito d’azione, fucilati al Martinetto di Torino con altri esponenti del comitato di liberazione nazionale del Piemonte per sentenza di una corte speciale della RSI. Il 3 giugno registrò l’allocuzione in cui Pio XII deplorò come antiumana, antigiuridica e antistorica la punizione di interi popoli per i crimini perpetrati da alcuni. “Posto che abbia come nazione una corresponsabilità da scontare – osservò Federzoni –, dovrebbe valere il fatto che l’Italia seppe liberarsi da sé dell’uomo e del sistema che l’avevano gettata nel baratro”. Il nodo della riflessione era la responsabilità del “popolo” nelle decisioni del governo. Ne avevano accennato i plenipotenziari di Stalin nella trattativa conclusa con il reciproco riconoscimento tra URSS e regno d’Italia. Piaccia o meno, i “popoli” sono sempre corresponsabili dei loro governi e dei regimi connessi, perché questi nascono dai rappresentanti eletti dai cittadini, come era avvenuto in Italia nel 1922 e nel 1924 quando anche Croce, Salandra, Orlando, De Nicola e i maggiorenti dei parlamentari cattolici e democratici sociali avevano assecondato il nazional-fascista ed ex socialmassimalista Mussolini.
In una città ancora teatro di esecuzioni sommarie, di mitragliamenti aerei dei ponti e di sparatorie nei rioni periferici, Federzoni registrò la raffica sparata a freddo da un soldato tedesco contro passanti che si erano fermati ad assistere al cambio della ruota dell’automezzo con il quale lasciavano Roma. Colpito al cuore, egli annotò, morì “un nostro giovane e bravo diplomatico, interamente refrattario alla repubblica mussoliniana, sbucato stamane per la prima volta dall’ombra della vita clandestina, Claudio Valagussa”, figlio di un clinico di chiara fama.
Di altro tenore è la descrizione dell’ingresso degli americani nel suo quartiere: “Una grossa macchina grigia con bandiera star-spangled si è fermata di colpo dinanzi al portone del condominio qui accanto. Dal balconcino del primo piano una giovane signora ha salutato con strilli di giubilo tre ufficiali aitanti, rosei, ben vestiti, che avevano l’aspetto, piuttosto che di reduci dalla battaglia, di amici invitati a cena. In un attimo, mentre essi stavano togliendo dalla vettura alcuni misteriosi pacchi, la signora è balzata fuori di corsa sul marciapiede, seguita da un maturo gentiluomo giocondamente gesticolante. E lì abbracci e baci in strada, con uno di quegli ufficiali, e festevoli ed espansive presentazioni degli altri due”. Poco dopo dalle finestre di quell’abitazione echeggiò l’inno americano. “Mussolini – scrisse Federzoni nel “Diario” – non aveva compreso che spingere l’Italia alla guerra con gli Stati Uniti era cosa, oltre che rovinosa, contro natura”. Ma dove erano i gerarchi come lui quando il duce decise l’intervento?
Aldo A. Mola