Esperienze lucide di pre morte.
Se il nostro cuore si ferma e tutta l’attività del cervello risulta essere piatta, noi siamo morti oppure ancora no? Uno studio rivela come sia possibile “ritornare alla vita” dopo questa esperienza e avere un ricordo lucido della morte.
La curiosità di cosa può capitare quando si è sul punto di morire è antica quasi come l’uomo. La tecnologia dei tempi moderni e la conoscenza dei funzionamenti fisiologici permette una approfondita analisi del fenomeno.
Da un punto di vista mistico, religioso ed esoterico ha dato nel tempo una interpretazione per molti versi accurata, se la si mette in confronto con ricerche sulle esperienze di pre morte. Tali ricerche tuttavia vedevano il cuore ancora battente e il solo ECG piatto. Ij questa ricerca invece sia il cuore che la funzione cerebrale erano a zero.
Per quanto tempo si può essere ancora “vivi” dopo che il cuore e il cervello si sono fermati nella loro attività? Dopo quanti minuti siamo davvero morti? Su questi argomenti, in molti ambienti accademici, la ricerca sta portando molta attenzione.
Questo articolo si ispira ad una ricerca pubblicata il 14 settembre sulla rivista Resuscitation e, in seguito, rivisto e pubblicato sulla rivista Scientific American.
Cosa emerge dalla ricerca.
La ricerca dimostra come una particolare attività cerebrale continui a essere presente anche quando l’ECG risulta piatto e il cuore ha smesso di battere per più di un’ora. I ricercatori sono riusciti ad individuare una frenetica attività neurale anche in assenza di ossigeno. Da qui, un piccolo gruppo di sopravvissuti, ha descritto la propria esperienza.
Il Dr. Sam Parnia, professore associato di medicina presso la NYU Langone e autore della ricerca, definisce quanto emerso come: “esperienze di morte lucide e ricordate” ed evidenzia un fatto irrefutabile: che tale osservazione del fenomeno “non è mai stata possibile prima”. Lo stesso Dr. Parnia dice: “Siamo stati anche in grado di proporre una spiegazione coerente e meccanicistica del motivo per cui ciò accade.”
La base dello studio è quella di trovare una firma biologica comune a queste esperienze di morte ricordate. Per poter raggiungere lo scopo, sono stati coinvolti 25 ospedali tra gli USA e l’UK. Coadiuvati da dispositivi portatili, i medici dei reparti di emergenza cardiaca di questi ospedali, potevano misurare la carenza o meno dell’ossigeno nel cervello e la sua attività elettrica. In più, ai pazienti venivano posizionate delle cuffie con una registrazione continua nella quale vi era la pronuncia di tre frutti: mela, pera, banana.
La ricerca è durata tre anni. Dal maggio 2017 al marzo 2020. Sono stati coinvolti 567 pazienti. Di questi solo 53 sono sopravvissuti. La cosa imprevista è che nel 40% di questi 53, anche se all’inizio l’encefalo era piatto, ad un certo momento, imprevedibile e non misurabile in termini quantitativi da definire che ogni tot minuti il fenomeno accade, si è vista riprendere l’attività cerebrale con onde coerenti con uno stato di coscienza vigile. In alcuni di questi ciò è accaduto anche dopo un’ora di arresto cardiaco.
Qui le cose si sono fatte difficili. A questo numero esiguo, 28 per l’esattezza, bisognava dare una dimensione rappresentativa. Per questo sono state coinvolte, in un pannel di interviste, altre 126 persone che avevano subìto arresto cardiaco ad alto impatto.
Di questi, (estraggo solo quelli significativi dai dati), il 20% sembrava aver avuto un’esperienza di morte ricordata. Questo ricordo è stato descritto poi come, secondo quanto riportato dallo stesso Dr. Parnia, una “valutazione morale” di “tutta la loro vita e di come si sono comportati”.
Per il team di ricerca il cervello, stato di coscienza normale, adotta dei “freni” operativi, per vivere ed operare al meglio nella società e nel mondo, mentre, in uno stato come quello analizzato, questi freni vengono meno. A loro dire, in circostanze del tutto routinarie e quotidiane: “non potresti funzionare con accesso all’intera attività del tuo cervello se sei nel regno della coscienza”. Ecco perché, a loro dire, tutto ciò che è inattivo in uno stato normale di coscienza, diviene attivo in situazioni vicine alla morte aprendo così la porta alla sua intera coscienza: “tutti i tuoi pensieri, tutti i tuoi ricordi, tutto ciò che è stato immagazzinato prima”, dice Parnia. “Non conosciamo il beneficio evolutivo di questo, ma sembra preparare le persone alla transizione dalla vita alla morte.”
Aldilà di ogni congettura o idea sulla morte, la ricerca ha restituito un dato certo. Ecco quanto dichiara il Dr. Parnia:”Il pensiero tradizionale tra i medici è che il cervello, una volta privato dell’ossigeno per 5-10 minuti, muore. Siamo stati in grado di dimostrare che il cervello è abbastanza robusto in termini di capacità di resistere alla privazione di ossigeno per periodi di tempo prolungati, il che apre nuove strade per trovare trattamenti per i danni cerebrali in futuro.”
In più tale ricerca fa comprendere come sia necessario trattare i pazienti in condizioni di arresto e ECG piatto come persone ancora vive e in grado, anche se raramente, di tornare alla coscienza normale.