Un istituto che è andato declinando
Giorgio Napolitano ci ha lasciati. Una scomparsa che ha suscitato sentimenti contrastanti: sincero cordoglio in alcuni, nessun rimpianto in altri, indifferenza in molti.
Checché ne dicano e ne scrivano i mezzi di comunicazione e i rappresentanti delle istituzioni -obbligati a esprimere un’ipotetica commozione ufficiale e una doverosa celebrazione del personaggio- Giorgio Napolitano resta una figura altamente controversa in cui le ombre prevalgono sulle luci.
Non staremo a ripercorrere la sua lunga e spesso opportunistica carriera e neppure a ricordare la sua gestione spregiudicata di un potere altezzoso, oligarchico, quasi mai democraticamente fondato e sovente al servizio di altri poteri.
Alessandro Sallusti, ne Il Giornale del 23 settembre, ha tratteggiato perfettamente l’ambigua figura di Napolitano in un articolo magistrale, breve ma assolutamente esaustivo e dal titolo centratissimo: “Il camaleonte”. Un articolo dove il lettore potrà trovare in sintesi tutto ciò che ne giustifica la lapidaria conclusione: “Ci inchiniamo di fronte alla sua morte, non di fronte alla sua vita”.
E comunque, parce sepultis.
Quello che invece vale la pena di considerare è la sua presidenza della Repubblica nel quadro della mutazione che questo istituto ha subito da qualche decennio a questa parte.
Nata come alto punto di equilibrio dei poteri dello stato e come simbolica figurazione dell’unità nazionale, rappresentativa di tutto il popolo italiano -che, nel dettato costituzionale, è il grande detentore della sovranità- la presidenza della Repubblica doveva essere un punto di riferimento etico e politico assolutamente al di sopra delle contingenze, degli schieramenti, delle ideologie, e, soprattutto, della “politica politicante”.
Ne conseguiva che il presidente doveva necessariamente essere una persona di alta levatura culturale e morale, primo cittadino nel senso più vero dell’espressione. Un cittadino in grado di percepire quello che era il sentimento più profondo, diffuso, genuino della gente che egli doveva rappresentare, un sentimento non grezzo però, non populista e non irrazionale ma filtrato e nobilitato da quella cultura e da quella morale di cui egli era portatore.
E’ avvenuto tutto ciò? Quanti presidenti si può dire che abbiano rispettato questo profilo? Lasciamo ai lettori, soprattutto a quelli con più anni sulle spalle, la risposta a questo quesito. Noi ci limitiamo a porre qualche dubbio, facendo notare un fatto inequivocabile: nessun uomo proveniente dal mondo della cultura, dell’imprenditoria, delle arti è mai diventato presidente della Repubblica (forse con un’unica iniziale eccezione) per lasciare il posto invece a politici professionali, di carriera, grigi e spesso logorati dal loro stesso mestiere.
La stessa elezione dei presidenti è sovente stata oggetto di bassa trattativa partitica nei corridoi di Montecitorio, dove si riuniva l’alto collegio elettorale che li doveva designare, e il fatto stesso che molte volte si sia dovuto ricorrere a un numero estenuante di votazioni per individuare il titolare della carica lo dimostra; così come la duplice riconferma di Napolitano prima e di Mattarella poi rappresenta l’impotenza della politica a eleggere figure nuove e rappresentative. La rielezione di un presidente, lungi dal rappresentare un atto di stima e fiducia nel rieletto, non potrebbe essere solo il ripiego di una politica incapace di decidere e di scegliere il nuovo?
Che ci siano stati presidenti che hanno svolto con dignità il loro incarico nessuno lo nega, ma che spesso alla massima carica dello stato siano giunte persone discutibili, instabili, non sempre limpide e di elevato intelletto non si può ugualmente negare. E soprattutto in questi ultimi anni è declinato quel ruolo arbitrale e di alto magistero politico-costituzionale -diciamo pure anche di moralità politica- che dovrebbe essere proprio del presidente lasciando il posto a una funzione di pseudo-governo, di maneggio di decisioni, di ambigui o plateali schieramenti di parte, di ostacolo a chi è stato democraticamente eletto, di ossequio a poteri forti nazionali e internazionali, di prese di posizione ideologiche mascherate da moniti alla nazione, ai partiti, alle coscienze.
Non stiamo a ricordare il malcelato anti-berlusconismo di Scalfaro, le ormai note manovre di Napolitano per abbattere il governo del Cavaliere fino al quasi-colpo di stato del 2011, la perdurante ed evidente antipatia dell’attuale presidenza della Repubblica verso molte decisioni del governo Meloni: tutto un costante declino del ruolo super partes dei presidenti verso una crescente ingerenza nella cosa pubblica che configura sempre più un presidenzialismo occulto o un semi-presidenzialismo conflittuale senza la chiarezza costituzionale americana e senza i correttivi istituzionali francesi.
Questa progressiva invadenza e confusione di ruoli è sottolineata anche da un “potere di esternazione” che i presidenti della Repubblica si sono auto-attribuiti da Cossiga in poi, e che si è tradotto in una crescente logorrea quirinalizia che si sente in dovere di commentare ogni aspetto della vita collettiva, lanciando moniti, avvertimenti, esortazioni, giudizi. Tutto cominciò appunto con Francesco Cossiga, che però si limitò a picconare gli aspetti costituzionali della nostra vita politica ponendo per primo il tema ancora irrisolto di un necessario mutamento istituzionale, e lo fece correttamente con un indimenticabile messaggio alle camere nel 1991 e poi con esternazioni caratterizzate da finezza di giurista e vivace intelligenza comunicativa. Poi il corretto strumento istituzionale del messaggio alle camere, previsto dall’articolo 87 della Costituzione, è stato progressivamente abbandonato per lasciare il posto a retoriche ed estemporanee prese di posizione delle ultime presidenze nelle più svariate occasioni e sui più svariati elementi dello scibile umano, solo apparentemente occasionali ma che spesso sottintendevano, e sottintendono, precisi giudizi e precise indicazioni politiche ai limiti dell’ingerenza.
Di fronte a questa deriva, sorge spontanea una domanda: non sarebbe ora di sciogliere questo nodo di poteri, che tendono a confondersi e sovrapporsi, con una riforma istituzionale chiara e ben costruita? O ridisegnando il nostro sistema parlamentare o sostituendolo con un chiaro sistema presidenziale o semi-presidenziale, o ancora con una qualche forma di premierato?
Il discorso diventa complesso e lo rimandiamo ad altra data. Quello che però appare urgente è rivedere il ruolo del presidente della Repubblica sulla base di quanto detto prima, cosa che può avvenire anche al di fuori di una qualche revisione costituzionale, semplicemente tramite una decisa presa di posizione del governo o del parlamento che ridimensioni l’invadenza del presidente su temi politici o di governo che non gli competono e chiedendogli di rientrare nel suo ruolo di esclusivo garante dell’equilibrio costituzionale e dei rapporti giuridici che lo sostengono; o magari -ma la strada è sicuramente più ripida- sollecitando una presa di posizione della Corte Costituzionale sotto forma di conflitto di attribuzione ai sensi dell’articolo 134 della nostra Carta fondamentale.
Chissà che la scomparsa di Napolitano, oltre alle tante parole di circostanza, non faccia nascere in qualche esponente politico anche qualche riflessione su ciò che la sua figura ha rappresentato sotto il profilo istituzionale e sulla necessità di trarre da essa qualche spunto di cambiamento del nostro modo di concepire la figura del presidente della Repubblica e la politica in generale.