Quando gli Agnelli producevano mine antiuomo
L’irrequieto Zelensky svela al mondo le forniture segrete di armamenti ottenuti dal Governo Draghi e chiede l’autorizzazione all’Italia di poterle impiegare nell’offensiva in corso in territorio russo, mettendo in difficoltà il nostro governo.
Immediata la presa di posizione del vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani, che pur comprendendo le decisioni di Kiev, ha ribadito che “l’Italia non è in guerra con la Russia e ha negato ancora una volta l’impiego di armi italiane contro il territorio russo”.
Matteo Salvini, vicepremier e ministro delle Infrastrutture, ha espresso il timore che un impiego di armi italiane contro il suolo russo possa portarci alla terza guerra mondiale.
Farneticanti le reazioni di Fratoianni e dei suoi compagni di merende, che fingono di non accorgersi di scoprire l’acqua calda. E’ noto da decenni che in un mondo infestato dalle guerre spesso dimenticate e non sotto i riflettori, l’’Italia sia uno dei più grandi produttori ed esportatori di armi.
Lo fa da sempre e dovunque senza alcuno scrupolo. In modi leciti e, soprattutto, illeciti, in violazione dell’articolo 11 della Costituzione e in aperto contrasto con la legge 185/90 che fissa le norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento, inibendone, in particolare, la vendita a paesi caratterizzati da un regime autoritario e/o impegnati in conflitti armati.
Lo fa il governo italiano, col concorso attivo di una parte cospicua dell’opposizione e lo fanno aziende private, lucrando su questo traffico enormi fortune.
Così, a più riprese, stock di armi sono partiti dall’Italia, destinazione Kiev, per sostenere la prosecuzione della guerra in Ucraina facendo dell’Italia un paese nei fatti co-belligerante. Lacircostanza è largamente nota.
Oltretutto le forniture all’Ucraina non alimentano il business nazionale, ma gli ingenti esborsi in materiale bellico sottraggono alla nostra spesa sociale risorse fondamentali che anziché essere destinate all’utilità pubblica servono ad alimentare il conflitto con sempre più sofisticati strumenti di morte. Il bollettino dei morti è ormai caduto in disuso.
Meno conosciuta, ma per più ragioni ancor più gravi, è l’esportazione di “armi e munizioni” verso Tel Aviv; un trasferimento che si è sviluppato anche dopo l’inizio dei bombardamenti israeliani sulla striscia di Gaza.
Secondo gli ultimi dati SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute), l’Italia, nel triennio 2020-2022, ha esportato verso Paesi non liberi ben il 72% del totale delle esportazioni italiane di grandi sistemi d’arma. Si tratta della quota più elevata mai raggiunta negli ultimi 34 anni, nonostante una guerra nel cuore dell’Europa.
Una cifra impressionante, con la quale l’Italia supera addirittura la Russia che esporta il 54% delle proprie armi verso Paesi autocratici e che è sempre stata, tra i grandi esportatori, quello che si caratterizzava per i valori più alti di esportazioni verso Paesi governati da regimi illiberali.
C’è una storia, tutt’altro che lusinghiera, che descrive lo stato delle cose nel nostro paese e che ha la sua radice nella produzione e nella vendita indiscriminata delle armi cosiddette “leggere”. Fu Kofi Annan, l’ex Segretario generale dell’ONU, a definirle “armi di distruzione di massa”.
Nell’ultimo decennio, due milioni di bambini sono stati uccisi in conflitti dove sono state usate armi di piccolo calibro e cinque milioni di loro sono diventati disabili.
Amnesty International fornisce dati secondo i quali l’Italia è il terzo paese esportatore di armi di piccolo calibro (dopo USA e Gran Bretagna), con valori che superano i trecento milioni di dollari.
Ebbene, circa l’80% delle armi leggere prodotte in Italia viene da Brescia.
Si sottraggono a ogni controllo i traffici illegali, che nella maggior parte dei casi hanno all’origine un trasferimento legale e poi, attraverso triangolazioni tra Stati e intermediazioni di organizzazioni e trafficanti sfuggono agli embarghi e fanno perdere ogni traccia di sé.
Noto il caso della ditta Beretta di Gardone V.T. (Brescia) che nel 2009, attraverso la triangolazione con Malta, trasferì alla Libia armi per oltre 79 milioni di euro. L’azienda cercò poi di sottrarsi all’accusa con una debolissima smentita.
Ma il caso più clamoroso rimane quello della Valsella meccanotecnica di Castenedolo (Brescia), specializzata nella produzione di mine antiuomo. Costituita nel 1969, di cui la Fiat nel 1984 divenne proprietaria, al 50% per lasciare il controllo dell’azienda nel 1994 nel momento in cui le attività militari confluivano nel settore Difesa-Spazio.
La Valsella vendette più di 9 milioni di mine anti-uomo all’Iraq, via Singapore. Queste mine furono utilizzate dagli iracheni durante la guerra con l’Iran, nella Guerra del Golfo e nell’attacco ai Curdi.
Eravamo nei primi anni novanta quando la Valsella Meccanotecnica di Castenedolo (Bs), controllata dalla Fiat, era leader nazionale nella produzione di mine anti-uomo.
Il prodotto principe dell’azienda era la mina Valmara ’69: 105 mm di diametro, 205 mm di altezza, 3300 g di peso, colore verde o sabbia, la mina rientrava fra quelle cosiddette “volanti”; facendo vibrare un filo trasparente collegato ad uno degli spuntoni della mina, si attivava la carica esplosiva.
La detonazione avveniva in due fasi: una prima carica sollevava a 80 cm da terra un cilindro contenente circa 2.000 frammenti metallici, una seconda carica causava poi la vera esplosione che irradiava i frammenti a 360° nella zona circostante provocando la morte nel perimetro di 27 m e il ferimento fino a oltre 200 metri.
Un ordigno micidiale, dunque. Alla Valsella lavoravano una decina di ingegneri progettisti e 40 operaie, addette allo stampaggio. La moratoria nella produzione di quegli ordigni infami, decisa dal parlamento italiano nel 1994, ne bloccò di fatto la produzione.
Una vulgata sindacale che riportiamo per completezza, sostiene che furono principalmente le lavoratrici della Valsella Meccanotecnica a porre fine alla fabbricazione degli strumenti di morte.
La Valsella era in ginocchio. Giovanni Borletti, fondatore dell’azienda, aveva sempre detto al Consiglio di fabbrica che la riconversione era una chimera e che la “vocazione” dell’azienda era quella di fabbricare mine.
Cominciarono gli scioperi, via via più intensi. La prospettiva dalla quale ora le operaie guardavano al loro lavoro era totalmente cambiata: “Noi non saremo complici”. L’azienda cessò l’attività nel 1995.
Fu a quel punto che si fece avanti un’azienda, la Vehicle Engineering&Design, che si candidò a rilevare l’impresa per produrre motori elettrici per automobili: indubbiamente un bel salto, dalle mine a motorizzazioni ecologiche.
Concentriamo la nostra attenzione sull’oggi.
Lo stato Italiano è direttamente coinvolto, in qualità di proprietario, nella produzione di sistemi d’arma, attraverso la Leonardo SpA.
Leonardo è la dodicesima impresa di difesa del mondo ed è la prima nell’Unione Europea per grandezza, con entrate dal settore difesa che rappresentano il 68% del proprio fatturato.
Il suo maggiore azionista è il Ministero dell’economia e delle finanze italiano, che possiede circa il 30% delle azioni, mentre poco più del 50% delle azioni appartiene ad investitori istituzionali. Un’azienda pubblica a tutti gli effetti, dunque, strutturata in cinque divisioni operative: elicotteri, velivoli, aerostrutture, elettronica e cyber security (ex sistemi per la sicurezza e le informazioni).
Un’azienda che fa soldi, su cui investire, che nell’aprile scorso ha presentato ufficialmente una nuova mitragliera da 20 e 2 nuove armi da 30 mm.
Quale conclusione si può trarre?
C’è una conseguenza ancora più perversa di tutto ciò, perché con le esportazioni di armi verso i paesi in via di sviluppo si alimenta e perpetua il loro debito, e quindi la loro dipendenza, nei confronti degli Stati industrializzati, con la conseguente impossibilità di sviluppare economie destinate a soddisfare in primo luogo i bisogni primari dei cittadini, di promuovere e finanziare progetti in materia di salute, alimentazione, istruzione.
Sarà anche per il primato nella produzione bellica che ogni mediazione per addivenire a una tregua dei conflitti in corso, viene immediatamente messa da parte. Forse tra qualche decennio emergeranno responsabilità e prove inconfutabili.
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io lavoravo alla stars villastellone.la produzionein plastica delle mine antiuomo era nostra.
al tempo susanna agnelli era il nostro ministro degli esteri.la produzione mina antiuomo si articolava
in 8 modelli.alla valsella in ufficio vi era il signor treccani…nipote del fondatore dell omonima
enciclopedia ed ex sessantottino amico di capanna.io ero alle spedizioni e il treccani mi sollecitava
spedizioni mine.
la nostra spedizione fini’ perche ‘ nostra azienda d’ accordo personale non voleva produrre cose
assassine.provvedemmo a spedire all’estero stampi e robe varie.
il sd africa di mandela fu destinatario.e nessuno banfo’
grazie per il vostro bell’ articolo
quagia roberto
avrei piacere parlare con il signor francesco rossa