Riflessioni sulle proteste seguite alla morte di Nahel.
Un articolo apparso sul Corriere del Ticino in data 11 luglio u.s. quantifica, in base alle stime calcolate dalla “Federazione delle assicurazioni francesi”, i danni materiali causati dalle sommesse seguite alla morte del giovane Nahel in 650 milioni di euro.
Si tratta di una somma risarcitoria assolutamente importante che, a suo modo ed in estrema sintesi, fotografa le migliaia di danneggiamenti avvenuti in diverse città della Francia che hanno coinvolto – solo per dirne alcuni – edifici pubblici, automezzi privati, autobus di linea, attività professionali e commerciali.
Offrire un’equilibrata lettura di quanto accaduto non risulta agevole. Da un lato, c’è la morte di un diciassettenne che, pur abusivamente guidando un’autovettura senza la necessaria patente, non doveva rimanere ucciso. Dall’altra, sin da subito, le proteste hanno assunto (non tutte, ma in gran parte) tratti di inaudita violenza, nonché visto episodi di saccheggio e di devastazione che nulla hanno a che fare con la disapprovazione per un torto subito.
Da un punto di vista politologico, indubbio è che si sia trattato di un’insurrezione di una parte minoritaria, tuttavia significativa, della popolazione francese, principalmente residente nelle c.d. “banlieue” e di origine spesso immigrata, peraltro già anticipata nel 2005 da similari rivolte, durate diverse settimane, che avevano visto bruciati quasi 9.000 veicoli e arrestate oltre 2.500 persone.
Conferma ne viene dal significato del termine “insurrezione” – che deriva dal latino “insurgere”, “levarsi contro” – che risulta utilizzato per indicare una “ribellione di massa”, caratterizzata proprio “dall’uso di violenza” (G.M. Bravo, “Insurrezione”, in Bobbio N. – Matteucci N. – Pasquino G., Il Dizionario di Politica, Utet, Torino, 2004, p. 470).
Meno facile è l’interpretazione sociologica del malessere – che, nel caso di specie, ben potrebbe essere definito “rabbia” – che ha animato molti dei rivoltosi. In merito, i commenti sui vari organi d’informazione si sono sprecati: c’è chi ha puntato il dito sulla polizia, rea di utilizzare con troppa arbitrarietà il proprio potere d’imperio, chi ha accusato la Francia di “razzismo strisciante”, chi (viceversa) ha evidenziato il fallimento di un modello d’integrazione che, sino a qualche lustro fa, veniva propagandato ad esempio.
Naturalmente ogni verità è buona per chi intenda credervi. In compenso, quel è certo, è che da alcuni anni la Francia stia vivendo un momento storico di rilevante criticità.
Profondamente lacerata al proprio interno (basti pensare che la raccolta fondi a sostegno alla famiglia del poliziotto incolpato di aver sparato a Nahel abbia oltrepassato il milione e 400 mila euro, contro i neppure 250 mila in sostegno alla madre di Nahel), la Francia è un paese che ha visto sul proprio territorio brutalità che mai avrebbe voluto conoscere, come durante l’assalto alla sede di Charlie Hebdo nel gennaio 2015, o gli attentati terroristi del novembre 2015.
Dall’altra, rimane pur vero che rimanga una Francia che non intende cedere al pessimismo né a un brutale scontro di civiltà, ma che, in compenso, appare sempre più disorientata e spaventata dagli episodi di violenza e che si domanda come e se sia possibile uscire da un vortice di aggressività che, periodicamente, sembra non lasciare tregua alla nazione.
Un ulteriore elemento di discussione va poi considerato. Che nel corso della storia siano avvenute rivolte e sommosse che abbiano fatto ricorso alla violenza, questo appare pacifico. Anzi, a dire il vero, alcuni cambiamenti epocali – che hanno dato vita alla nostra società contemporanea, quali la rivoluzione francese e quella comunista in Russia – sono il frutto di un massiccio utilizzo della violenza e dell’omicidio politico.
Eppure, a differenza di molti eventi insurrezionali del passato, i tumulti seguiti alla morte di Nahel, alla violenza (comprensibilmente mal digerita dalla restante parte della popolazione) non hanno affiancato alcuna strutturata prospettiva di cambiamento.
Spieghiamoci meglio. Affinché una ribellione sfoci in una trasformazione che può essere (congiuntamente o disgiuntamente) economica, politica e sociale a vantaggio chi quella protesta promuove è necessario che la medesima sia supportata da quella che si può genericamente definire una “proposta politica”.
Per portare un esempio, le massicce agitazioni operaie verificatesi durante il “biennio rosso” in Italia erano accompagnate da richieste di maggiori diritti e tutele e, da un punto di vista ideologico, poggiavano in larghissima misura sul socialismo riformista o sul marxismo, quest’ultimo a maggiore trazione contestataria.
All’opposto, da quanto si è giornalisticamente appreso con riguardo alle recenti proteste in Francia, la prospettiva politica è risultata assente. Per di più, la violenza è andata a danno di persone che nulla avevano a che fare con l’asserito torto patito, quali commercianti e comuni cittadini.
Così facendo, la rivolta non solo finirà per rimanere sostanzialmente sterile (in quanto poco aiuterà le “banlieue” a migliorare la propria condizione economica ed esistenziale, se non magari per qualche provvedimento di tipo assistenziale), ma rischia di ritorcersi contro ai manifestanti, alimentando odio e diffidenza razziale.
Da ultimo, occorre sviluppare un ulteriore ragionamento. Se è vero che in Italia i commenti agli scontri non sono mancati, è altrettanto vero che non sia emersa una compiuta riflessione su quanto accaduto e sugli strascichi che questa ferita lascerà. Come mai?
Difficile dare una risposta certa, anche se ritengo che il problema di fondo stia in un celato – ma non per questo meno diffuso – timore di affrontare una tematica tanto complessa e delicata che, facilmente, potrebbe sfociare nell’accusa (fondata o meno) di razzismo. Eppure il problema esiste e far finta di nulla non appare una scelta tanto intelligente.
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