
“La pace è l’intervallo fra due guerre”
Jean Giraudoux
“Sono le azioni che contano. I nostri pensieri, per quanto buoni possano essere, sono perle false fin tanto che non vengono trasformati in azioni”
Mahatma Gandhi
Era da molto che le persone dotate di un minimo di buon senso aspettavano questo momento. Il conflitto tra Israele e Palestina, seguito al cruento attacco di Hamas contro Israele del 7 ottobre 2023 (il quale, a sua volta, affonda le radici in decenni di tensioni e di criticità economiche e sociali), si è concretato in una scia di distruzione e morte che ha visto coinvolto non soltanto il territorio palestinese, bensì anche quello libanese, oltre alla caduta del regime di Bashar al-Assad in Siria, a qualche scaramuccia tra Israele e il gruppo yemenita degli Houthi.
Infatti, oltre a essere stata quasi completamente distrutta la città di Gaza – che contava circa 750.000 abitanti (dunque grande quasi come Torino) – i deceduti palestinesi, sebbene le stime varino a seconda delle fonti prese a riferimento, oltrepassano le 46.000 persone (molte delle quali donne e bambini), oltre a 110.000 feriti, di contro a 1.600 morti e 8.000 feriti tra i soldati e civili israeliani.
Inoltre, gli stessi equilibri regionali sono cambiati. Israele ha dato indubbio sfoggio di forza militare e anche la Turchia di Erdogan ha più di una ragione per essere soddisfatta, avendo incrementato la sua influenza, specie in Siria. All’opposto, l’Iran – che pure ha resistito al rischio di un conflitto diretto con Israele –, ne esce ridimensionato, se non altro per non essere riuscito a sostenere con la necessaria efficacia l’alleato Hezbollah che ha faticato a resistere a Israele.
Raggiunti in larga misura gli obiettivi politici e militari che Israele si era prefissato, la tregua (frutto soprattutto della mediazione di Stati Uniti, Egitto e Qatar) ha dunque potuto avere avvio tramite la riconsegna – avvenuta domenica 19 gennaio – dei primi 3 ostaggi israeliani contestuale a quella di 90 detenuti palestinesi, a cui si è affiancata una temporanea pausa nel conflitto, accompagnata dalla previsione di un parziale ritiro delle truppe israeliane dal territorio palestinese.
Ulteriori tappe e condizioni sono poi previste per le settimane successive, nel complessivo intento di liberare 33 ostaggi israeliani e 737 prigionieri palestinesi entro i primi 42 giorni e ottenere il completo ripiegamento delle forze israeliane dal territorio palestinese, oltreché la successiva ricostruzione delle zone colpite dal conflitto.
Nonostante le buone notizie, non si tratta di un accordo di pace, bensì di un semplice cessate il fuoco temporaneo che non affronta le cause di 70 anni di reciproca ostilità né offre una prospettiva di una stabile soluzione. Tanto meno – almeno per ciò è a nostra conoscenza – si è concordata la concreta (e a breve) nascita uno stato palestinese, al pari di quanto auspicato da numerose nazioni del mondo.
Tuttavia, ciò che preoccupa non è solo che manchi un’intesa di ampio respiro, ma che difettino le premesse per una pace duratura. Se infatti la storia insegna che gli accordi che pongono fine a un conflitto rispecchino spesso e semplicemente i diktat di chi in quel momento ha prevalso attraverso le armi, è pur vero che per le parti sconfitte si siano verificate “paci” più umilianti e altre meno. Tra le prime, è facile richiamare il Trattato di Versailles del 1919 che umiliò pesantemente il popolo tedesco e che ebbe tra gli esiti l’ascesa del nazismo, con le sue nefaste conseguente; tra le seconde si può annoverare il “Piano Marshall” che, pur utile agli stessi U.S.A., giovò alle economie che ne beneficiarono.
Dunque molto dipenderà da come Israele – che indubbiamente ha prevalso da un punto di vista prettamente militare (per convincersene è sufficiente paragonare il numero dei morti palestinesi rispetto a quelli israeliani) – vorrà impostare la “pace”: ricorrendo al pugno di ferro o, pur fermi i propri interessi, adottando una prospettiva maggiormente collaborativa nei confronti della Palestina.
In secondo luogo, una pace non è fatta solo di condizioni economiche e cavilli normativi, ma soprattutto, se non di fratellanza, perlomeno di civile e reciproca tolleranza, come bene intuì Gandhi che, in quel complicato groviglio multietnico che era (ed è) la nazione indiana, cercò di far coesistere indù, islamici, ebrei e cattolici.
Nondimeno, la tolleranza è un percorso irto e faticoso perché, terminate le atrocità di una guerra, l’istinto più immediato e primitivo è la vendetta verso chi tanta sofferenza e dolore ti ha provocato. Ed è per questo che, per essere tolleranti, occorre fare ricorso a una forza d’animo immensa, di cui ben pochi sono capaci, specie se non interviene un terzo (magari uno stato garante o efficaci istituzioni internazionali) a fungere da mediatore.
Eppure, per quanto faticosa, la strada della tolleranza ha almeno tre buone ragioni per essere intrapresa. Il primo motivo è pratico. Al netto di quanto possano pensare i fanatici di ambo le fazioni, i palestinesi non potranno concretamente uccidere, od obbligare a emigrare, 10.000.000 di israeliani, né questi ultimi possono realizzare un genocidio di oltre 5.000.000 di palestinesi. Piaccia o meno, gli uni dovranno convivere con gli altri, meglio se in serenità che in una condizione di perenne timore.
La seconda – invece – discende dalla razionalità umana, epurata dall’emotività dell’odio e del pregiudizio, che porta alla consapevolezza che, pur nelle differenze, si possa vivere e convivere anche tra etnie e tradizioni differenti. La terza è che l’unica altra alternativa sta nel giogo del terrore delle bombe e dei bombardamenti (da un lato) e nello stillicidio della ritorsione terroristica (dall’altra). Ma questa è una via è già stata seguita e non mi pare abbia portato a buoni risultati.