
Una inoppugnabile legge statistica ci dice che all’aumentare quantitativo dei discorsi aumenta anche in modo proporzionale, e talvolta più che proporzionale, il rischio di dire cose sbagliate nel peggiore dei casi, o cose inesatte nel meno peggiore dei casi, o semplicemente cose inutili nel migliore dei casi.
Per fortuna esiste un rimedio per attenuare in parte questa situazione, e si chiama retorica, cioè quel miscuglio di moralismo, bei concetti, bei toni elevati, tanta enfasi e nessuna concretezza in grado di salvare ogni narrazione trasformandola in ovvietà indiscutibili.
Facevamo queste riflessioni leggendo il discorso del Presidente della Repubblica tenuto qualche giorno fa a Trieste in occasione dell’apertura della cinquantesima edizione della Settimana sociale dei cattolici in Italia.
Intendiamoci, nessuno nega a Mattarella il diritto di esprimere le proprie opinioni, ci mancherebbe, ma non crediamo che esista anche un dovere di farlo sempre.
La Costituzione, all’articolo 87 dice che il Presidente “può inviare messaggi alle Camere”, espressione da cui si desume che si tratti di messaggi di alto profilo e profondamente motivati, necessari per porre al parlamento e all’opinione pubblica nazionale questioni di grande rilevanza costituzionale e politica.
Invece la prassi invalsa in questi ultimi anni di esporre in ogni occasione il pensiero quirinalizio, alto o meno alto che sia, ha sortito tre effetti non proprio positivi: innanzitutto lo svilimento della parola presidenziale, ridotta a una continua e talvolta irritante pedagogia politica non richiesta e spesso banale; secondariamente, lo scadimento nella retorica istituzionale in quanto è assai difficile veicolare sempre, in ogni occasione ufficiale e non ufficiale, contenuti originali, significativi e profondi; in terzo luogo un eccesso di esternazione che può facilmente portare il Presidente a scendere nel campo del confronto politico sostenendo o contrastando le forze in gioco e venendo così meno al suo alto compito di arbitro imparziale e custode della correttezza costituzionale.
Ci pare che Mattarella sia incorso in tutti e tre questi rischi, a cui vanno aggiunti diversi interventi recenti e meno recenti del tutto discutibili e alcune omissioni che, quando si vuole necessariamente intervenire su tutto, diventano particolarmente evidenti e significative.
Partiamo dal discorso di Trieste. In mezzo a molta oratoria, è emersa l’intenzione presidenziale di definire, o ridefinire, addirittura il concetto stesso di democrazia. Vaste programme avrebbe detto De Gaulle, anche per un personaggio sicuramente colto e autorevole come Mattarella, il quale, attraverso numerose digressioni fra Tocqueville e De Gasperi, Bobbio e Popper, Dossetti e Tosato ha tentato di far passare il concetto assai strano di una democrazia “imperfetta” se basata sul decisionismo della maggioranza.
“Una democrazia della maggioranza sarebbe, per definizione, una insanabile contraddizione” dice il Presidente con un’acrobatica argomentazione che tenta di recuperare forse quel concetto di “tirannia della maggioranza” già avanzato da Tocqueville, ma che nel pensatore francese era chiarissimo proprio in virtù di quel termine “tirannia” e che invece, per qualche impreparazione da parte di chi probabilmente gli ha redatto il discorso, diventa semplicemente assurdo, non avendo l’espressione “democrazia della maggioranza”, con annessa pericolosità, alcun significato logico. Proprio a dimostrazione di quel che si diceva all’inizio, e cioè che a voler troppo dire, e in ogni occasione, si cade in sfondoni imperdonabili.
Ma, al di là della mancanza di significato evidente, nella frase mattarelliana si può cogliere un significato secondario, obliquo ma neppure troppo occulto, e che molti notisti politici hanno immediatamente evidenziato: l’avvertimento alla maggioranza di governo che non le conviene strafare.
E’ noto che al Presidente questo esecutivo e il suo supporto parlamentare non piacciono affatto, cosa che naturalmente non appare mai da impossibili prese di posizione dirette, chiare e limpide, ma da tutta una serie di atteggiamenti, parole dette a metà, spifferi quirinalizi che però sono inequivocabili per chi sa decifrarli. Il discorso di Trieste ha evidenziato questo atteggiamento e ha fatto cadere platealmente il Presidente proprio in quel rischio che più sopra paventavamo, quello dell’arbitro che diventa giocatore.
Non sappiamo quanta parte dei discorsi presidenziali provenga dalla penna di Mattarella e quanta dalle fatiche dei suoi ghostwriters, ma in ogni caso la responsabilità di quanto detto non può che imputarsi al Presidente, con tutte le conseguenze politiche che ne discendono.
E comunque l’idea di una pericolosa “democrazia della maggioranza” – che richiama l’approvazione delle leggi “a colpi di maggioranza” lamentata dall’opposizione – appare come una pericolosa (questa sì) confusione culturale e istituzionale. In tutte le democrazie moderne la maggioranza ha il pieno diritto e il pieno dovere di governare tramite gli strumenti che le costituzioni le mettono a disposizione: che si ponga in dubbio questa ovvietà è paradossale, specie se questo dubbio proviene dalla massima carica dello stato.
Quanto poi all’altro pericolo, paventato nel discorso di Trieste, della “confusione tra strumenti di governo e tutela della effettiva condizione di diritti e di libertà” – al di là dell’oscurità concettuale e semantica– possiamo solo dire che forse in nessun paese al mondo, come in Italia, esiste una strumentazione giuridica e politica in grado di tutelare chiunque dagli eventuali soprusi governativi: magistrature ordinarie e amministrative di ogni ordine e grado, Corte costituzionale, Corte europea dei diritti dell’uomo, referendum, interrogazioni parlamentari e commissioni d’inchiesta, stampa “democratica”, scioperi e così via.
Restano poi, come detto più sopra, alcune prese di posizione presidenziali decisamente discutibili su fatti e temi che ci hanno turbato in passato e ci turbano nel presente: il tragico “non si invochi la libertà per non vaccinarsi”, la sorprendente “celebrazione della sovranità europea”, i silenzi ostinati sullo scempio delle libertà individuali (quello sì reale) in epoca covidaria, sulle dichiarazioni di Palamara e sulla politicizzazione della magistratura, sulla incomprensibile detenzione di Toti e su molto altro ancora.
Ma questo è un altro inquietante discorso che ci riserviamo di riprendere in futuro.
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