
Nei giorni successivi alla pubblicazione delle motivazioni di cui alla sentenza n. 192/2024 emessa della Corte costituzionale con riguardo alla Legge n. 86/2024 – concernente disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario – i commenti non sono mancati.
Pletore di giornalisti, più o meno tuttologi, di politici e di asseriti esperti in diritto costituzionale si sono profusi in una serie di commenti dal tenore profondamente discordante. Se da un lato vi è stato chi ha decretato il “de profundis” dell’autonomia differenziata, altri – esattamente al contrario – hanno visto nelle decisioni della Corte Costituzionale una conferma della legittimità della norma, asserendo (per tutti, si vedano le dichiarazioni del presidente della Regione Veneto Luca Zaia) che l’autonomia differenziata rappresenterebbe “un’opportunità per dare voce e valore a ogni singolo territorio, nel rispetto dell’unità della Repubblica”.
Diffidando di verità precostituite, abbiamo pensato di offrire un sunto della pronuncia della Corte, adoperando il più possibile i ragionamenti direttamente sviluppati dalla Consulta, in modo da assicurare massima libertà di giudizio ai lettori.
Avanti con il procedere nel merito, occorre tuttavia formulare una premessa e un necessario richiamo normativo. La prima è che – per motivi di spazio e di complessità della decisione (lunghissima e altamente tecnica per la molteplicità e la delicatezza delle questioni) – saremo costretti a limitare il nostro approfondimento unicamente al giudizio che la Corte ha assegnato al “principio di autonomia differenziata”, riservandoci di sviscerare, in altro passaggio, le censure che hanno coinvolto la legge.
Il secondo invece consiste nel rimando a quello che è il terzo comma dell’art. 116 della Costituzione (così come approvato nel 2001 dall’allora centro-sinistra) che rappresenta il parametro di riferimento che sancisce il diritto all’autonomia differenziata e che testualmente prevede: “Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata”.
Venendo alle argomentazioni addotte dalla Consulta, quest’ultima muove dal presupposto che, in ossequio agli artt. 1 e 5 della Costituzione, il regionalismo rappresenti una “componente fondamentale della forma di Stato delineata dalla Costituzione”, pur laddove inserito in un quadro d’indivisibilità dello Stato e di unità della sovranità popolare che, nel suo complesso, conduce a una “democrazia costituzionale” caratterizzata dalla “compresenza e sulla dialettica di pluralismo e unità”.
Muovendo dalla consapevolezza che la “ricchezza di interessi e di idee di una società altamente pluralistica come quella italiana non [possa] trovare espressione in un’unica sede istituzionale, ma [richieda] una molteplicità di canali e di sedi in cui trovi voce e dalle quali possa ottenere delle politiche pubbliche” e che tale esigenza colga riscontro proprio nel “regionalismo” (che viene definito “un’esigenza insopprimibile della nostra società”), la Corte esprime contestualmente l’opinione che “popolo” e “nazione” rappresentino “unità non frammentabili”, tanto da negare – in un passaggio che gli autonomisti avranno buon gioco a contestare poiché si scosta dai variegati pluralismi storici e culturali che da sempre caratterizzano il contesto sociale italiano – l’esistenza di “popoli regionali” e che questi siano legittimati a detenere ”porzioni di sovranità”.
Benché la Corte ammetta che “l’ineliminabile concorrenza e differenza tra regioni e territori” possa “giovare a innalzare la qualità delle prestazioni pubbliche”, a detta dei giudici, l’attuale assetto costituzionale non consente di parificare il ruolo e l’importanza del Parlamento centrale rispetto alle più circoscritte funzioni di rappresentanza locale, sussistendo poi limiti inderogabili rappresentati dalla “solidarietà tra lo Stato e le regioni e tra regioni”, dall’“unità giuridica ed economica della Repubblica”, dall’“eguaglianza dei cittadini nel godimento dei diritti” e dall’”effettiva garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”.
Pur ricondotto all’interno di tale quadro normativo, secondo la Consulta, l’autonomia differenziata può rappresentare uno “strumento al servizio del bene comune della società e della tutela dei diritti degli individui e delle formazioni sociali”, soprattutto perché la Costituzione italiana (artt. 5, 118 primo comma e 120 secondo comma) e anche lo “spazio costituzionale europeo” (art. 5 TUE, nonché il Protocollo n. 2 annesso al Trattato) si fondano sul centrale principio di “sussidiarietà” che – come statuisce l’art. 5 della Costituzione di cui ne è una delle espressioni – “riconosce e promuove le autonomie locali” e “attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo”, adeguando i “principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”.
Ciò chiarito, i giudici evidenziano come il “principio di sussidiarietà” non possa essere ricondotto a un modello “astratto di attribuzione delle funzioni”, bensì si fondi sull’individuazione del “livello territoriale più adeguato, in relazione alla natura della funzione, al contesto locale e anche a quello più generale in cui avviene la sua allocazione”. In altri termini, la preferenza non può astrattamente assegnarsi al “livello più prossimo ai cittadini e alle loro formazioni sociali” o a quello invece di “governo”, ma dovrà essere ponderata l’opzione che meglio si adegua alle “caratteristiche e [al] contesto in cui la stessa si svolge”.
In sintesi, il principio di sussidiarietà può operare correttamente soltanto se accompagnato dal parametro dell’adeguatezza. Se infatti è giusto e proficuo che alcune funzioni risultino gestite dagli enti locali, è altrettanto opportuno (in ossequio ai principi costituzionali di “efficacia”, “efficienza” e di “equità”) che altre vengano assegnate all’autorità statale.
Riassume così il proprio pensiero la Corte: “Vi sono funzioni pubbliche che, per i loro caratteri, possono essere svolte efficacemente ed efficientemente solamente al livello territoriale di governo più alto (statale o addirittura europeo). Questo è il caso, ad esempio, in cui la centralizzazione determina evidenti economie di scala, oppure è richiesta per realizzare il coordinamento efficace di molteplici attori distribuiti sul territorio, ovvero qualora gli shock (crisi economiche, emergenze ambientali, sanitarie, geoeconomiche ed altro) che investono una comunità locale possono essere superati attraverso l’intervento solidaristico del centro”. Al contrario, vi possono essere “altre funzioni pubbliche” che, opportunamente, andranno allocate al “livello territoriale di governo più basso”, il quale ultimo permette di conoscere le “peculiarità dell’ambiente in cui la funzione è svolta, di potersi meglio adeguare alle preferenze dei cittadini e alle condizioni locali, di monitorare gli effetti concreti dell’attività pubblica e procedere rapidamente a eventuali autocorrezioni”, oltreché di “migliorare la qualità o l’efficienza delle prestazioni pubbliche” e di “rendere più facile la promozione della sussidiarietà cosiddetta orizzontale”.
Aderendo a una visione pragmatica, quindi, per i membri della Corte non esistono dogmi e preconcetti a cui aderire, ma scelte e opportunità da vagliare con la dovuta attenzione. Scrivono i giudici: “Il principio di sussidiarietà richiede che la distribuzione delle funzioni tra i diversi livelli territoriali realizzi la soluzione più «efficiente»”, in una conclusione che, pur curvata sull’impianto primariamente centralista su cui è imperniata la nostra Costituzione (ma del resto è al Parlamento che spetta eventualmente il compito di modificarne gli assetti), né umilia né esalta tout court l’autonomia differenziata.