
Che cosa sta succedendo nella magistratura italiana?
Le recenti vicende che hanno visto indagato mezzo governo per la vicenda Almasri pongono degli interrogativi molto seri a tutti gli italiani ancora di buon senso e di sentimenti liberali.
Non andiamo a ripercorrere tutta la storia del comandante della polizia libica arrestato a Torino e poi velocemente rimpatriato, perché i fatti sono ormai noti a tutti, ma qualche considerazione più ampia forse è bene farla, soprattutto in merito al rapporto veramente drammatico che si è venuto a instaurare fra governo e magistratura.
Appare ormai evidente -anche se ossessivamente negato da molti magistrati e dai loro followers di sinistra- che un potere dello stato, come parte della nostra magistratura, si muove in netta contrapposizione a un governo sgradito e non perde occasione di contrastarlo con tutti i mezzi a disposizione.
Nonostante che Il Domani del 29 gennaio raggiunga una vetta di comicità stralunata titolando in prima pagina “Meloni indagata per il caso Almasri: l’assalto finale alla magistratura”, noi riteniamo che l’assalto venga invece proprio dal potere giudiziario, e che non sia per nulla casuale la coincidenza con le manifestazioni di dissenso che esso ha esibito all’inaugurazione dell’anno giudiziario, e con l’ostilità alla riforma della magistratura dimostrata in più occasioni. Siamo di fronte cioè a un conflitto aperto e dichiarato fra poteri dello stato, una situazione in grado di corrompere i fondamenti stessi della nostra comunità civile.
La magistratura, ogni magistratura intesa in senso moderno, si regge su un principio irrinunciabile: l’imparzialità fondata sulla volontà della legge generale ed astratta. Quando dal comportamento del magistrato emerge invece una volontà sua propria e non più quella della norma giuridica, allora l’attività giurisdizionale è deviata e diventa pericolosa. Non dimentichiamo che il magistrato ha virtualmente un potere enorme, sia nei confronti delle persone, sia nei confronti delle imprese, sia nei confronti delle istituzioni, ed è per questo che la sua soggezione “soltanto alla legge”, come recita l’articolo 101 della Costituzione, deve essere intesa in senso assoluto e nella misura più ampia possibile. Il fatto che molto spesso i magistrati esprimano palesemente le loro opinioni politiche è già un implicito disconoscimento di questo principio; e quando poi essi addirittura entrano in aperto conflitto con il governo o il parlamento, esprimendo pubblicamente contrarietà alle scelte politiche del primo o legislative del secondo, allora si distrugge non solo il fondamentale principio di separazione dei poteri ma anche la natura stessa -e la dignità- della funzione giurisdizionale che non potrà più, come fa ogni volta, rivendicare rispetto e fiducia.
Ora, che il giudice non possa essere solo la “bocca della legge”, come sosteneva Montesquieu, è indiscutibile: un essere umano non può essere del tutto indipendente dalle proprie convinzioni e passioni, né dalla tentazione di dare ad esse una forma apparentemente razionale e dialetticamente ben argomentata attraverso quel processo psicologico che Pareto chiamava “derivazione”. Ma da questa evidenza non discende l’autorizzazione a esibire platealmente la propria personale ideologia, sia che lo faccia un singolo magistrato sia che venga fatto coralmente da un gruppo di magistrati.
Oggi invece sembra che questo atteggiamento sia ampiamente tollerato, anche alla luce dell’articolo 21 della Costituzione che tutela la libertà di espressione e che i magistrati rivendicano espressamente per la loro categoria. Così come appare quantomeno disallineata rispetto alla Costituzione e ai principi di uno stato liberale la loro aggregazione in sindacati di categoria politicizzati e ideologizzati; e anche il fatto che il Consiglio superiore della magistratura sia costituito, in buona parte, da magistrati eletti secondo logiche politiche e di schieramento non costituisce certo garanzia di una funzione giurisdizionale autonoma, imparziale e superiore alle logiche del potere.
Non sappiamo ancora se l’imminente riforma della giustizia avviata dal governo Meloni potrà porre rimedio a queste storture; la separazione delle carriere ma, soprattutto il sorteggio dei membri togati del Consiglio superiore della magistratura, sono senz’altro prospettive apprezzabili, ma c’è ancora un aspetto molto problematico che varrebbe la pena di esaminare: la cosiddetta obbligatorietà dell’azione penale.
Concepita dai Padri costituenti come garanzia di imparzialità nel perseguimento dei reati sottraendolo a logiche di parte, essa è però diventata sovente -con una sottile eterogenesi dei fini- un opaco strumento di arbitrarietà giudiziaria, soprattutto quando il processo ha una grande risonanza mediatica o quando investe esponenti politici.
Sono di sicura evidenza il risalto e la popolarità che caratterizzano il magistrato inquirente che conduce l’inchiesta, risalto e popolarità che talvolta ne esaltano i lati peggiori come il narcisismo, l’orgoglio, l’aggressività, la partigianeria, accompagnati spesso dalla concreta e inquietante possibilità di privare l’indagato della sua libertà. La lunga e triste sequela degli errori giudiziari passati e presenti parla da sola.
Chi ha una qualche pratica di uffici giudiziari sa bene come l’azione penale obbligatoria, nei casi meno “interessanti” per il magistrato, dopo l’iniziale iscrizione nel registro degli indagati venga fatta languire fino alla sua estinzione per avvenuta prescrizione, oppure venga decisamente archiviata fin dall’inizio per inconsistenza della notizia di reato. In altri casi invece essa diventa veloce, inesorabile e inarrestabile.
Casi recenti, come a suo tempo l’incriminazione di Matteo Salvini o quello da cui siamo partiti, cioè il caso Almasri con conseguente iscrizione nel registro degli indagati di Meloni, Nordio, Piantedosi e Mantovani, dimostrano abbastanza chiaramente quanto detto sopra. Il primo, come si sa, è finito con una piena assoluzione (da molti esibita come prova dell’imparzialità della magistratura, almeno nella sua componente giudicante), il secondo è destinato a concludersi rapidamente o in sede di Tribunale dei ministri o in sede parlamentare per mancata autorizzazione a procedere. In entrambe le vicende, processi che non avrebbero mai dovuto iniziare per inconsistenza delle notizie di reato, sono diventati o stanno diventando tormento per gli indagati, danno economico per gli stessi e spreco di risorse pubbliche.
E qui emerge l’interrogativo: atto dovuto o atto voluto?
La narrazione dominante dei mezzi di comunicazione, dei magistrati interessati e della tifoseria di sinistra propende naturalmente per l’atto dovuto, come da dettato costituzionale. Ma si tratta, appunto, di una leggenda che esalta l’opera di certi procuratori attribuendo loro un obbligo inesistente, come peraltro sostenuto da molti giuristi.
Fausto Carioti, in un articolo molto ben documentato su Libero del 29 gennaio, a sostegno di questa tesi riporta una circolare del 2017 in cui l’allora procuratore della Repubblica di Roma, Giuseppe Pignatone, riteneva di «escludere che l’iscrizione di un nominativo rappresenti “atto dovuto” con riferimento al soggetto cui il privato o la Polizia Giudiziaria attribuiscono il reato nella denuncia o nella querela». Il pubblico ministero che ignora questa «buona prassi», prosegue la circolare, giunge a una «errata conclusione, frutto di una interpretazione impropria» del Codice di procedura penale.
In effetti, il pubblico ministero che riceva una o più notizie di reato palesemente ridicole come quelle riferite a Giorgia Meloni, Nordio, Piantedosi e Mantovano può sicuramente non dar corso all’azione penale, risparmiando e facendo risparmiare tempo e denaro a privati e organismi pubblici. Oppure si può provare a credere che compiere un atto politico, per sua natura fondato su un interesse pubblico (la vecchia “ragion di stato”), o usare un aereo dei servizi segreti per dar seguito a quell’atto costituiscano davvero favoreggiamento o peculato. Francamente ci chiediamo quale università abbia frequentato l’avvocato che ha dato inizio a tutto questo pandemonio. E permetteteci una domanda fondamentale: che diritto ha il potere giudiziario di valutare, ed eventualmente indagare, un provvedimento politico assunto da un organo politico? Il principio della separazione dei poteri vale ancora?
Domande complesse, rese più complesse dalla scarsa trasparenza di questa vicenda, vero “pasticciaccio brutto” di gaddiana memoria, dove atti dovuti o voluti diventano forse solo atti “involuti” nella loro ingarbugliata approssimazione e opacità.
Sarebbe interessante sentire, in proposito, l’opinione di un autorevole Signore che siede sul colle più alto di Roma e che, per puro caso, è anche il Primo Magistrato d’Italia e il supremo garante del nostro ordine costituzionale.