un racconto d’amore di Antonella Barina.
Lo sognai bellissimo, di profilo. Che guardava lontano, attento. La curva nobile del naso, il manto lucente e nero. E due enormi orecchie ritte come l’Anubi egizio. Un sogno così vivido che mi misi a cercarlo.
Sperando di incontrarlo setacciai i canili per un anno. Un giorno mi svegliai con la fissa che il meccanico doveva sapere, giacché nelle officine a volte hanno intere cucciolate. Le lupe sono prolifiche, forti i loro figli.
Era venerdì. Poiché non gli risultava, il meccanico Tiberio mi portò in campagna. Sostammo nelle case dei contadini, in aziende agrarie, in aie dove c’erano ancora animali. Ma non ci fu verso. Non ce n’era uno uguale.
Passarono sabato e domenica. Il lunedì Tiberio mi chiamò. La lupa del padrone dell’officina aveva appena figliato. Non sapeva che fosse incinta. Una cucciolata grande, una decina, tutti neri. Passati 40 giorni la lupa perse il latte. C’erano dieci cuccioli da adottare.
Uno più bello dell’altro, giocavano tutti, tranne uno che stava in disparte. Chi mai l’avrebbe preso? A zampe larghe sul fondo della cuccia, spalle in giù col muso abbassato e triste e due orecchie lunghe come le ali di un aeroplano che tiravano in basso. Che mai e poi mai, me ne intendo io di cani, si sarebbero alzate.
Più guardavo i fratelli giocare, più mi struggevo che nessuno lo avrebbe adottato. Solo io avrei potuto adottare un cane così brutto. Ma io dovevo cercare il mio. Mi maledivo per il mio egoismo.
Anzi, sentivo uscirmi dal petto una corda che mi tirava verso di lui. Presi in braccio ogni cucciolo. Lui no, per non deluderlo. E la corda continuava a tirare.
Finché mi dissi: ma io cerco l’anima o la forma? La risposta mi salì dal petto, dal cuore: l’anima! Corsi a prenderlo in braccio, lo strinsi come se già ci conoscessimo. Salì al suo posto in auto come l’avesse sempre fatto. Si addormentò subito. Io ero felice sul lungo ponte sulla laguna che in quel momento era rossa infuocata dal sole che tramontava.
Le orecchie si drizzarono. Divenne un Anubi perfetto. La curva del naso era la stessa del sogno. Il manto, lo sguardo. È diventato il più bello di tutti, diceva il padrone dell’officina. Pensate quel che volete. Io non mi vergogno. Lo avevo sentito arrivare. Passammo undici anni assieme, come madre e figlio, fratello e sorella, come donna e cane.
Ero innamorata di lui. Lui era me e io ero lui. Lo avevamo chiamato Ganesh, come il dio elefante. Gli recitavo il suo inno: Tu dalle grandi orecchie, dal lungo naso e dalla bella coda… Lui ascoltava paziente.
In lui convivevano tre razze. Il pastore belga, da cui aveva preso il pelo nero e lucente, di pantera. Il maremmano, di cui aveva il carattere sobrio e accudente: ci considerava il suo gregge e quando imboccavo i giovani colombi caduti dal nido che i bambini mi portavano li ripuliva con la lingua. Il corpo di pastore, lungo e di grossa stazza, lo ereditò dalla madre: frutto di incroci selettivi, tale da causargli problemi e dolori alla schiena.
Una mattina mi guardò con triste consapevolezza. Io lo consolai con le parole, non volevo credere. Però ci salutammo come fosse l’ultima volta. Lo era. Mi chiamarono a mezzogiorno che lui stava male. Non potevo lasciare subito il lavoro. Poi lo lasciai.
Mi fermai per strada, sulla barena ai lati del ponte. Non avevo la forza di guidare, di tornare a casa. Ad un tratto guardando un gabbiano sentii una pace infinita, che non provavo da tempo. Mi chiamarono, perché aveva perso conoscenza. Finito di soffrire.
A metà ponte impazzii, non vedevo la strada. Urlai. Non te ne andare. Poi gli chiesi scusa. Se dev’essere, sia. Se devi andare, vai. Sentii la corda spezzarsi. Mi chiamarono alla fine del ponte. Lo avevo sentito staccarsi. Credo volare.
Antonella Barina