La strategia elettorale vincente e le opportunità che anche l’Europa dovrà saper cogliere
Si sprecano in questi giorni i commenti, le previsioni catastrofiche e i tanti luoghi comuni sulla clamorosa vittoria di Donald Trump contro Kamala Harris nelle elezioni presidenziali del 2024.
Vorremo fare un passo indietro e collocarci nella serata del 5 novembre scorso, quando i format di tutto il mondo erano sintonizzati sull’evento. Siamo stati bombardati da messaggi che prevedevano l’esito elettorale sul fil di lana, con non celate simpatie per la ragazza dai gusti fluidi e l’avvertenza che per la complessità delle procedure elettorali e il ruolo preminente dei grandi elettori, anche il candidato che avrebbe totalizzato più voti, non sarebbe risultato automaticamente il vincitore e, appunto si prevedevano tempi biblici.
Mentre con una sfacciataggine da regime a poche ore dall’esito, i nostri imbonitori recitavano questa filastrocca blasfema, già da qualche settimana le agenzie di stampa non allineate, avevano previsto la vittoria di Trump con ampio margine di voti. Questo fatto inconfutabile ci dimostra la conclamata manipolazione dell’informazione e il tentativo di ricacciare ogni istanza di libertà e di espressione che possa emergere, dietro la cortina di ferro del pensiero unico. Prassi che non dovrebbero stupire gli italiani che sono stati sommersi da previsioni catastrofiche, mentre si profilava nel 2022, la vittoria di Giorgia Meloni.
Cosa sbandiera questo esito elettorale agli occhi del mondo?
La clamorosa vittoria di Donald Trump che rappresenta una svolta storica per gli Stati Uniti e per tutto l’Occidente sotto vari aspetti. Il responso dei “grandi elettori” degli stati e nel voto popolare, del Partito repubblicano in entrambe le Camere del Congresso – rappresenta emblematicamente la fine di un ciclo nella politica americana e occidentale: quello dell’egemonia del progressismo fondato sul “politicamente corretto” o ideologia woke.
E, simmetricamente, rappresenta la consacrazione e il consolidamento di un conservatorismo molto diverso da quello dominante tra la fine del Novecento e l’inizio del Ventunesimo secolo: non più un astratto e dottrinario liberismo economico dominato da una élite bianca e anglosassone, ma una concreta cultura interclassista e interetnica della libertà e della crescita nel segno della coesione nazionale e la difesa dei valori.
L’esito elettorale è stato in realtà accelerato e accentuato proprio dalla scelta suicida, decisa dalla classe dirigente del Partito democratico statunitense la scorsa estate, di sostituire in corsa come candidato, con una prassi letteralmente senza precedenti, il presidente in carica Joe Biden, vincitore delle primarie di partito, con la sua vice Kamala Harris.
E, parimenti, di impostare pressoché tutta la campagna elettorale di quest’ultima sull’enfatizzazione di temi tipici di quell’ideologia, tenuta insieme dall’assioma dell'”intersezionalismo” (la naturale alleanza tra gruppi diversamente identificanti se stessi come discriminati): il femminismo contrappositivo, e in particolare l’aborto rivendicato come bandiera di libertà ed emancipazione; l’agenda Lgbt/gender, con particolare insistenza sull’esaltazione del transgenderismo e delle identità “fluide”; la difesa ad oltranza dell’immigrazione senza limiti; la pretesa di tutela speciale di ogni minoranza etnica “non bianca”.
Il disco rotto della Harris su questioni identitarie, culturali e simboliche è andato di pari passo con la sua evidente carenza di spessore politico, di leadership, di proposte concrete e credibili sui problemi più sentiti dall’opinione pubblica, come la crisi economica, l’inflazione, l’immigrazione, la sicurezza, le guerre in corso nel mondo.
I risultati elettorali evidenziano impietosamente come la Harris e il suo partito abbiano perso terreno, in varia misura, presso tutte le categorie che ambivano ad egemonizzare: donne, giovani, afroamericani, ispanici, asiatici.
Donald Trump ha invece proseguito con coerenza e determinazione un percorso politico – reso arduo e difficile dalla sconfitta del 2020, da vari procedimenti giudiziari politicamente orientati a suo carico, dal dominio mediatico e culturale pressoché assoluto detenuto dai liberals – verso la trasformazione, già iniziata dal 2016, del Partito repubblicano nel senso della cultura politica “MAGA” incarnata dalla sua leadership.
La sua guida dell’opposizione, la sua nuova pressoché incontrastata vittoria alle primarie, la sua campagna elettorale per la Casa Bianca del 2024 sono state impostate sull’obiettivo di coagulare e cementare una coalizione sociale il più possibile ampia e variegata, concretamente e non ideologicamente inclusiva, fondata sull’idea di una rinascita della nazione portatrice di vantaggi per tutte le sue componenti, e su obiettivi concreti e realistici di miglioramento della qualità della vita individuale e collettiva.
Il programma anti-ideologico trumpiano si è ulteriormente concentrato sull’ambizione di rappresentare i forgotten people, gli strati sociali pesantemente danneggiati dalle dinamiche della globalizzazione, dalla delocalizzazione della produzione, dai conflitti internazionali, dalla tenaglia tra recessione e inflazione, cioè la classe operaia e la varia classe media; sostenendo però nel contempo i settori di punta hi tech dell’imprenditoria nazionale, l’alleanza con i quali è stata simbolicamente rappresentata dall’appoggio fornito a Trump dal poliedrico Elon Musk, che ha infranto fragorosamente il monopolio di sinistra di Silicon Valley e dei media digitali.
Dazi verso la Cina e altri produttori asiatici, detassazione del lavoro e degli investimenti, lotta decisa all’immigrazione illegale e alla sua concorrenza al ribasso sui salari, sono punti programmatici chiari e comprensibili che possono essere visti da eterogenee sezioni di elettorato come funzionali a un disegno di crescita e di sicurezza sociale. Come lo è pure una linea realistica di politica estera imperniata sul tentativo di risolvere i conflitti in corso, e di ripristinare una sicurezza globale fondata su dialogo a 360 gradi e deterrenza.
Una piattaforma, questa, che è l’esatto contrario di ogni astrattezza ideologica, e che significativamente si accoppia al ripristino della moderazione e del senso comune, trasversalmente condiviso negli strati popolari della società, sulle questioni dei diritti e delle identità.
Trump è riuscito ad attrarre i consensi della working class, dei ceti medi impoveriti, dei giovani under 30, delle principali minoranze etniche, dell’elettorato cattolico (che tradizionalmente è molto diffuso nella minoranza latina), senza perdere voti, nonostante gli affondi femministi della Harris, in quello femminile.
Il trumpismo è ormai chiaramente un “blocco popolare” che esprime i nuovi equilibri economici, sociali e culturali degli Stati Uniti maturati negli ultimi decenni in un mondo in cui un ruolo egemonico dell’America e dell’Occidente è diventato molto più arduo. Qual è l’aspettativa prioritaria che richiama l’attenzione del mondo?
Il ristabilimento della pace e del dialogo trai i popoli. Non c’è dubbio che Trump dovrà bruciare le tappe per arrivare a mettere un punto fermo, uno stop all’agenda della morte.
Dopo i fallimenti negoziali dell’era Biden, il quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti non dovrà perdere tempo, ma dimostrare ai suoi interlocutori quale sarà la linea sulla quale si muoverà la sua amministrazione e, attraverso negoziati seri e non di facciata, cercare di imprimere la svolta da tanti attesa.
Poi ci saranno i risvolti dell’America First che tanti temono, senza includere l’Europa last. Tema che merita una prossima trattazione sul ruolo attivo e propositivo che dovrà assumere l’Europa nei rapporti con gli Stai Uniti e le altre potenze emergenti e non a rimorchio delle prefiche del sottosviluppo.
Per il momento il siluro al popolo americano è stato lanciato dall’accoppiata satanica John Elkann – Carlos Tavares che hanno già annunciato il taglio di mille posti di lavoro allo stabilimento di Toledo nell’Ohio.
Auguri Presidente!
Francesco Rossa
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