Di Aldo A. Mola
Coerenza
«Indipendenti sempre, ma isolati mai.» Fu la politica del Regno di Sardegna dal 1814 al 1848, ribadita da Cavour nel 1853. Fatta propria dal Regno d’Italia sino al 1946, a parte la parentesi del Patto d’Acciaio, che la vincolò alla Germania di Hitler, tale linea venne lasciata in eredità alla Repubblica, che se n’è valsa sino a oggi. Con quelle lucide parole, pronunciate alla Camera dei deputati il 26 marzo 1863, Emilio Visconti Venosta chiarì che la politica estera, e quindi militare, non è monopolio di un governo, tanto meno quando i suoi componenti hanno programmi divaricati, bensì dello Stato. è il suo patrimonio storico, sintetizza la sua origine e il suo destino.
Che cos’era l’Italia nel 1863?
Lo Stato italiano nacque dall’unificazione dei suoi popoli ed ebbe dall’origine vocazione europea. Il 14 marzo 1861 il Parlamento proclamò la nascita del Regno d’Italia, sorto in due anni di aggrovigliate vicende diplomatiche e belliche: la guerra sardo/franco-austriaca del 1859, le insorgenze nei ducati padani e nel granducato di Toscana, la spedizione di Garibaldi in Sicilia e nel Mezzogiorno, la vittoria di Vittorio Emanuele II sui papalini e la sua irruzione nel regno del Borbone senza dichiarazione di guerra (1860). Convocati dalle assemblee elette negli Stati pre-unitari, i “popoli” approvarono «l’Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele Re costituzionale e suoi legittimi discendenti». Con quelle premesse il 27 gennaio 1861 gli aventi diritto furono chiamati a eleggere i deputati alla VIII legislatura della Camera del regno di Sardegna: la stessa che si tramutò nella I del regno unitario, ma continuò la serie iniziata nel 1848 con lo Statuto promulgato da Carlo Alberto di Sardegna. La concatenazione tra le Camere del regno sardo e quelle del regno d’Italia fu attestata dal Senato, di nomina regia e vitalizio, vissuto senza soluzione di continuità dal 1848 al suo scioglimento, decretato dalla Costituente nel novembre 1947.
Dopo la proclamazione, il regno d’Italia fu riconosciuto da Inghilterra, Svizzera, Stati Uniti d’America e pochi altri. Nel 1861 Napoleone III lo fece, ma con tardiva riserva (rivendicò di aver voluto l’unione, non l’unificazione) e solo dopo l’improvvisa morte di Camillo Cavour che, accanto al re, era stato pilastro dei rapporti sardo/italo-francesi. Nell’estate del 1862 con la spedizione “Roma o morte” Garibaldi rischiò di screditare il regno quale fattore di pace in Europa. Venne fermato manu militari, a prezzo della spaccatura tra sinistra democratica e costituzionali. Quell’Italia non poteva permettersi avventure né, meno ancora, contrapposizioni con la Francia che garantiva al Papa il poco che gli era rimasto dell’antico Stato pontificio. Dai confini marittimi immensi e con quelli terrestri deboli a occidente e indifendibili a oriente, il nuovo Stato doveva varare una politica militare del tutto nuova, fondata su vie di comunicazioni ferro-stradali pressoché inesistenti e su un assetto produttivo gracile. Per di più doveva fronteggiare l’indebitamento con l’estero al quale Torino aveva fatto ampio ricorso nel cosiddetto “decennio di preparazione”. Aveva dunque bisogno assoluto di “raccoglimento”. Doveva conoscersi (lo fece con il primo censimento nazionale, nello stesso 1861), programmare e fare. Anzitutto “fare lo Stato”: corpo diplomatico, forze armate, istruzione, moneta unica (in un Paese che contava cinque banche di emissione e quella metallica era preferita alla cartacea), tesoro, finanze, camere di commercio, industria e agricoltura. Doveva unificare i codici: quello civile, messo a punto nel 1865, il penale, varato nel 1889, e quello del commercio, con l’abolizione delle vecchie dogane, ma non delle cinte daziarie tra città e contadi. Per di più il re, il governo e la classe dirigente erano scomunicati da Pio IX, che rifiutò la spoliazione.
Morto Cavour, Vittorio Emanuele II conferì la presidenza del Consiglio dei ministri al barone Bettino Ricasoli, toscano, che per sé tenne gli Esteri e la Guerra e affidò l’Interno al bolognese Marco Minghetti, con i toscani Pietro Bastogi alle Finanze e Ubaldino Peruzzi ai Lavori pubblici, l’irpino Francesco De Sanctis all’Istruzione e il siciliano Filippo Cordova all’Agricoltura. E il Vecchio Piemonte? Non aveva fatto nulla per l’Italia? Meritava l’emarginazione? Insediato il 12 giugno 1861 Ricasoli durò poco. Il 3 marzo dell’anno successivo gli subentrò l’alessandrino Urbano Rattazzi che tenne per sé Interno, Esteri e Giustizia (ma solo per un mese) e volle il biellese Quintino Sella alle Finanze e ai Lavori Pubblici Agostino Depretis, pavese piemontesizzato. Travolto Rattazzi dalla citata spedizione garibaldina finita ad Aspromonte, l’8 dicembre 1862 fu nominato presidente del Consiglio il ravennate Luigi Carlo Farini, antico cospiratore, patriota integerrimo, che però insanì e il 22 marzo, a governo pressoché immutato, fu sostituito da Minghetti. Il ravennate Giuseppe Pasolini fu sostituito agli Esteri da Emilio Visconti Venosta (Milano, 22 gennaio 1829 – Roma, 28 novembre 1914).
Un futuro statista tra Garibaldi, Mazzini…
Il nuovo ministro aveva appena trentaquattro anni, ma già era circondato da ampia stima. Perduti il padre e due fratelli, crebbe in rapporti strettissimi con Giovanni, di tre anni minore. Di temperamenti del tutto diversi, riflessivo e pacato Emilio, estroso Giovanni, i due salirono insieme sulle barricate nelle Cinque giornate che nel marzo 1848 cacciarono da Milano gli asburgici comandati da Radetzky. I lombardi si trovarono dinanzi a tre opzioni: sostenere il “Piemonte” di Carlo Alberto, che dichiarò guerra all’Austria, il federalismo di Carlo Cattaneo, la repubblica unitaria propugnata da Giuseppe Mazzini. I due Visconti Venosta si schierarono per la terza. Chiamati a scegliere tra unione immediata al Regno di Sardegna e dilazione, l’8 giugno1848 i votanti si schierarono quasi all’unanimità per l’unione. Di seguito Emilio si arruolò a Bergamo tra i volontari capitanati da Garibaldi e guardati con diffidenza dai regolari. Col ritorno degli austriaci a Milano entrambi ripararono in Svizzera, ove Emilio entrò in contatto con Mazzini, di cui condivise fervore ideale e predicazione dell’unità, ma non s’immischiò in trame cospirative.
Rientrati a Milano, entrambi i Visconti Venosta si immersero nella vita culturale della città. Emilio frequentò il famoso “salotto” della contessa Clara Maffei, cenacolo di scrittori, artisti, musicisti e di spiriti politici europei. Fu sconcertato dal “moto” del 6 febbraio 1853, mandato allo sbaraglio da Mazzini e costato molti morti e suppliziati. Dinnanzi a quel fallimento, che spinse l’“Apostolo” stesso a dubitare dei suoi metodi di lotta, Emilio Visconti Venosta prese nettamente e definitivamente le distanze dal mazzinianesimo. Sospettati dal governo austriaco, nel 1855 i due fratelli compirono il classico “viaggio in Italia”, sino alla Sicilia, traendone l’impressione di un mondo arcaico, e visitarono l’Esposizione internazionale di Parigi, voluta da Napoleone III per consolidare il Secondo Impero.
…e Camillo Cavour
Il ritorno del regno di Sardegna alla “grande politica” con la partecipazione all’alleanza anglo-franco-turca contro la Russia richiamò l’attenzione di Emilio sulla politica estera intrapresa da Cavour, al quale fu presentato nel 1858 da Emilio Dandolo, e sulla Società Nazionale promossa da Daniele Manin e Giorgio Pallavicino Trivulzio. Per chi sapeva vedere, era chiaro che, rientrato nei confini dello Stato sardo, anche Garibaldi era una risorsa. Il “Piemonte” aveva bisogno di patrioti pronti a mettere da parte velleità del passato e a collaborare con l’unico governo disposto a riprendere la lotta contro l’Austria. La vittoria su Vienna avrebbe fatto crollare i sovrani degli Stati sotto sua tutela. Passati a Torino, i fratelli furono valorizzati. Nessuno domandò loro da dove arrivassero. Si sapeva. Bastò capire quale meta avessero: l’Italia. Giovanni si dedicò all’organizzazione di volontari. Al trentenne Emilio il Gran Conte affidò incarichi di rilievo: regio commissario presso i Cacciatori delle Alpi di Garibaldi, segretario di Luigi Carlo Farini, dittatore a Modena per organizzarne la dedizione a Vittorio Emanuele II, la difficile “missione” a Napoli (luglio-agosto 1860) per arginare, d’intesa con l’ammiraglio Carlo Persano di Pellion, la probabile avanzata di Garibaldi dalla Sicilia. Ne ha scritto Nico Perrone.
Già eletto deputato il 25 aprile 1860 nel collegio di Tirano, nella sua originaria Valtellina, Emilio Visconti Venosta unì al tirocinio parlamentare numerosi uffici pubblici, soprattutto in diplomazia. La morte di Cavour non ne interruppe l’ascesa. Poco più che trentenne, era apprezzato per competenza, pacatezza e duttile fermezza da Minghetti, Farini e Ricasoli. Segretario generale del ministero degli Affari Esteri dal dicembre 1862, il 24 marzo 1863 fu nominato ministro e due giorni dopo illustrò alla Camera la linea del Regno: «indipendenti sempre, ma isolati mai.» Un successo.
Tra gli scogli dell’Europa inquieta, “navigare necesse”
Visconti Venosta aveva tutti i titoli per svolgere il compito affidatogli e la visione esatta di quanto occorreva: raccoglimento, operosità, prudenza e dedizione. L’Europa era inquieta. La Prussia di Otto von Bismarck si muoveva con lo stile di Federico II il Grande: colpire per primo. Malgrado la dura repressione, la Polonia rimaneva in fermento. L’impero russo viveva i primi segni di modernizzazione, con l’abolizione della servitù della gleba. Il declino dell’impero turco-ottomano apriva scenari nuovi nell’Europa orientale, ove, dopo la Grecia, Bulgaria e Romania si avviavano all’indipendenza. In Spagna la monarchia di Isabella II vacillava sotto l’offensiva dei repubblicani, capitanati da Emilio Castelar. L’Italia era debitrice verso Napoleone III, che però le sbarrava la via di Roma. Aveva quindi interesse a mettere in primo piano l’amicizia dell’Inghilterra. Le sue fortune erano legate al “concerto delle grandi potenze”. In quell’ambito doveva coltivare buoni rapporti, senza vincolarsi con alleanze militari fuori portata.
La linea intrapresa da Visconti Venosta sulla scia del magistero cavouriano non comportava né inerzia né tergiversazioni. Soprattutto escludeva colpi di testa, avventure, rivendicazioni dell’inarrivabile e recriminazioni vane. Per metterla al sicuro nel settembre 1864 Vittorio Emanuele II e Napoleone III stipularono la Convenzione in forza della quale la Francia avrebbe ritirato i suoi militari dallo Stato Pontificio. Oltre a difendere il Papa, essi costituivano un’insidia permanente per un regno dal confine marittimo discontinuo. In cambio l’Italia avrebbe trasferito la Capitale da Torino in altra città e garantito essa stessa l’incolumità del Pontefice. Non venne detto esplicitamente, ma fu chiaro che, scartate Bologna e Napoli, la scelta sarebbe caduta su Firenze: più centrale e di risonanza universale.
Accadde l’imprevedibile. A Torino si levarono proteste popolari, culminate in un’adunata in piazza San Carlo sconsideratamente repressa da “reclute” pessimamente comandate. Non fu “strage di Stato” ma dimostrazione di incapacità di chi doveva tenere i nervi a posto. Il 24 settembre il governo si dimise e con lui Visconti Venosta. Incaricato di formare un nuovo esecutivo, il generale Alfonso La Marmora tenne gli Esteri, affidò l’Interno a Lanza e le Finanze a Sella. Nel 1866 la diplomazia cedette il passo alle armi. Alleata con la Prussia “a tempo determinato”, la Nuova Italia scese in guerra contro l’Austria. La Marmora si dimise. Rimasto ministro senza portafoglio (una novità assoluta), preferì il campo di battaglia, a fianco del re. Di nuovo presidente, Ricasoli volle Visconti Venosta agli Esteri, regista delle trattative che procurarono all’Italia il Veneto malgrado le modeste prove date nella guerra.
Dopo altri quattro governi in soli tre anni, tornò agli Esteri in quello presieduto da Lanza dal 14 dicembre 1869 al 10 luglio 1873 con all’Istruzione Cesare Correnti, suo “Maestro”, e Sella alle Finanze. Nessuno immaginava lo sconquasso imminente: la guerra franco-prussiana (o germanica), la resa di Napoleone III, sbaragliato a Sedan, la necessità (“se non ora quando”?) di correre a Roma prima che, sull’esempio di quanto avveniva in Francia, divenisse laboratorio di repubblicani e internazionalisti. Visconti Venosta frenava. A spingere fu Sella, come documenta Aldo G. Ricci sulla scorta dei Verbali del consiglio dei ministri, stranamente “rimasti in bianco” proprio nei giorni delle decisioni supreme. Agli ordini di Raffaele Cadorna, il 4° corpo dell’Esercito italiano infine irruppe in Roma, previe trattative riservatissime con l’altra riva del Tevere, sia per la protezione del Papa e dei Sacri Palazzi, sia sulla futura destinazione di immense aree edificabili. I “metalli” oliano le intese. Malgrado la leggenda, i massoni non ebbero parte eminente nella Breccia di Porta Pia. Pio IX aveva motivo di temere la scristianizzazione della Città sacra per il martirio di Pietro e Paolo e decine di migliaia di convertiti alla Buona Novella. Lo aveva paventato in decine di encicliche, allocuzioni ed epistole di condanna della “nera setta” che tramava contro il Vicario.
Con ammirata sagacia Visconti Venosta approntò la legge delle Guarentigie (1871), che fa onore alla Terza Italia, a lungo dipinta come anticlericale, laicista e persino ateista. Essa non riconobbe la Santa Sede come Stato sovrano, però assicurò al Papa la libertà nell’esercizio del ministero petrino e le prerogative di capo di Stato: ambasciate, segreto epistolare, benefici d’ogni genere e massima indipendenza del Collegio cardinalizio, come si vide nel 1878 con il conclave che, morto Pio IX, elesse Leone XIII, senza interferenze dell’Italia. Per il governo le adunate anticlericali, come l’Anticoncilio di Napoli (9 dicembre 1869), erano da tenere sotto controllo, ma eran poco più che folklore, come le sortite e i romanzi anticlericali di Garibaldi. Non “convertivano” nessuno; come, all’opposto, facevano i romanzi di Antonio Bresciani e tanti fascicoli di “La Civiltà Cattolica”, sempre spietata contro la Massoneria, dipinta quale strumento del Maligno proprio mentre era in pieno marasma perché il suo gran maestro, l’esagitato Ludovico Frapolli, non sempre “compos sui” per le dolorose cure contro la malattia che lo debilitava da tempo, lasciò il “supremo maglietto” per correre in difesa della Repubblica proclamata a Parigi.
Con l’ascesa della Sinistra, il 18 marzo 1876 Visconti Venosta lasciò il governo. Il suo miglior collaboratore, il cavouriano Isacco Artom, venne rimosso da segretario generale degli Esteri. La sua “regola” a lungo fu messa tra parentesi da due scelte di portata enorme: la politica coloniale, che spinse l’Italia nel Mar Rosso dopo l’imposizione del protettorato francese su Tunisi, e la stipula dell’alleanza difensiva con Vienna, nemico storico, e Berlino.
Dopo i disastri della politica coloniale, che inanellò sventure (l’annientamento della colonna De Cristoforis a Dogali, quella di Pietro Toselli all’Amba Alagi, l’abbandono del fortino di Macallè da parte di Giuseppe Galliano e, infine, “Adua”) e le dolenti conseguenze della guerra doganale con la Francia, Visconti Venosta tornò agli Esteri nel terzo governo presieduto dal siciliano Antonio Starrabba di Rudinì (14 dicembre 1897 – 1° giugno1898). Dette il “colpo di timone” (parole sue) dalla francofobia di Francesco Crispi (non apprezzata dall’Inghilterra) al riavvicinamento italo-francese con le convenzioni sulla Tunisia e accordi commerciali: piccoli passi che non misero in discussione l’alleanza con gli Imperi Centrali ma resero l’Italia più padrona di sé. Era potenza “alla pari” con le altre. Lo ribadì Visconti Venosta, ministro nei governi del generale Luigi Pelloux e dell’ottantenne Giuseppe Saracco, presidente del Senato oltre che del governo.
L’ultimo suo appuntamento con la Grande Storia ebbe luogo nella conferenza di Algeciras (gennaio-aprile 1906) per dirimere il contenzioso franco-germanico sul Marocco. Il quasi ottuagenario decano della diplomazia italiana impresse un secondo “colpo di timone” a favore della Francia, per non aumentare il numero degli Stati in caccia di prede nel Mediterraneo.
Tornato ai margini della politica attiva, morì mentre l’Europa stava precipitando nella fornace della Grande Guerra: l’opposto di quanto aveva sempre sognato. Seguì nelle Valli celeste suo fratello Giovanni, eclettico di prestigio, ricordato anche per la divertente ballata «Passa un giorno, passa l’altro, / mai non torna il prode Anselmo. / Perché egli era molto scaltro / andò in guerra e mise l’elmo /(…). Mise l’elmo sulla testa / per non farsi troppo mal / e partì, la lancia in resta, / a cavallo di un caval.».
Furono cinque milioni e mezzo gli italiani che in quattro anni calcarono l’elmo nella Grande Guerra. Al congresso di pace nel 1919 mancò un erede di Visconti Venosta. Il presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando e il ministro degli Esteri Sonnino non colsero la portata dei cambiamenti prodotti dalla rivoluzione russa e dall’ingresso degli Stati Uniti nella guerra europea, divenuta mondiale. Si inimicarono tutti, tornarono a Roma per protesta, così lasciando che gli altri decidessero in loro assenza, e furono sfiduciati dal Parlamento prima della firma del Trattato di Versailles venisse firmato. Un disastro. L’Italia stava prendendo la brutta piega dell’improvvisazione poi dominante nel quarto di secolo seguente. Questa la portò alla resa senza condizioni del settembre 1943 e al Trattato di pace punitivo del 10 febbraio 1947. Dei Visconti Venosta e dei Cavour, famiglie entrambe imparentate con gli Alfieri, rimangono le “Carte” conservate nel Castello di Santena: monumento dell’Italia che fu e che senza alzare la voce ancora oggi ripete: «Indipendenti sempre, ma isolati mai.» Vale ancor di più oggi, quando essa, lo voglia o meno, fa parte dell’Unione Europea oltre che della Nato e non può permettersi di isolarsi all’interno di quelle Istituzioni: poteri sovraordinati rispetto alla cosiddetta sovranità nazionale, consegnata al passato remoto, come altre viete “nostalgie”.
Aldo A. Mola
Isacco Artom (Asti, 1829-Roma, 1900). Israelita, cavouriano, segretario generale del Ministero degli Esteri, senatore dal 1876. Principale collaboratore di Emilio Visconti Venosta, che fu eletto deputato dal 1860 nei collegi di Tirano, Bozzolo e Vittorio (poi Vittorio Veneto) e poi da Vittorio Emanuele III creato senatore vitalizio e marchese.