Quanto incida sulla vita di una donna lo stupro e in generale l’ingiustizia e la violenza del potere, lo dimostra la storia di Teresa Mattei, fautrice e mente organizzatrice dell’assassinio di Giovanni Gentile.
L’abisso di furore e disperazione nel quale era precipitata la giovane donna, mente eccelsa e allieva del filosofo, dà la proporzione della deflagrazione che avviene quando il dolore diventa intollerabile e innesca meccanismi di distruzione: la vendetta sembra essere l’unica soluzione, anche se il sospetto che per lei così non sia stato, nonostante i successi e la carriera politica di tutto rispetto. C.M.
Nel quadro della lotta partigiana, quella di Teresa Mattei fu una figura particolarmente significativa. E appunto per questo fu la più giovane eletta all’assemblea costituente della neonata repubblica italiana; nella stesura della cui Costituzione ebbe particolare rilievo un suo intervento, in sede di dibattito, sulla stesura dell’art 3: la Repubblica tutela l’eguaglianza tra i cittadini, oltre le differenze di sesso…; come sempre alla Mattei si deve se il fiore simbolo della festa delle donne: l’8 marzo, è la mimosa, e non il mughetto, come proponeva il direttivo delle donne dell’UDI.
Teresa Mattei negli anni 950-60 ebbe poi una lunga evoluzione intellettuale, che la condusse tra i dissidenti del PCI, e finì per occuparsi di creatività infantile fino alla morte, nel 2013, abbandonata la politica attiva, dove non si sentiva più a casa, nel quadro dei partiti egemoni.
Di famiglia antifascista, aveva aderito alla resistenza, operando nell’ambito fiorentino, presso il cui ateneo aveva studiato, ed era ormai prossima alla laurea, con il filosofo Giovanni Gentile.
Nell’ambito della cospirazione antifascista, incontrò Bruno Sanguinetti, comproprietario delle industrie alimentari Arrigoni, personaggio di grande preparazione culturale con lauree in fisica e filosofia, e amico del fratello di Teresa.
Arrestato a Roma, e bestialmente torturato, per non confessare si suicidò, impiccandosi in cella.
La morte del fratello indusse Teresa a progettare l’omicidio Gentile, coinvolgendo quello che poi sarà suo marito: Bruno Sanguinetti, e il comandante partigiano Bruno Fanciullacci, che eseguirono materialmente l’omicidio.
Dalle sue memorie, redatte in tarda età, apprendiamo che, presa la decisione, poiché né Sanguinetti né Fanciullacci conoscevano Gentile, li accompagnò presso la villa fuori Firenze, dove il filosofo risiedeva.
Gentile la scorse e la salutò, racconta Teresita: “Ed io arrossii”.
Questa è la verità (a dirla con una grossa parola) sulla morte del filosofo; circa la quale poi si sono costruite molte mitologie di parte, a discendere dalla cosiddetta sentenza di morte del filosofo emessa da Concetto Marchesi su un foglio clandestino del PCI.
La verità è invece quella che abbiamo esposto, e intravide Calamandrei, quando osservò che non capiva come i comunisti avessero potuto uccidere un filosofo il cui pensiero era molto vicino al loro.
Del mondo intellettuale fiorentino chi sapeva della decisione del trio Mattei (promotrice) Sanguinetti e Fanciulacci (esecutori) era Ranuccio Bianchi Bandinelli. Poi lo seppe anche il pittore Ottone Rosai, in gioventù picchiatore fascista e poi diventato accanito antifascista, tra l’altro autore, negli anni ‘930, d’una nota burla al Duce.
Durante una visita ufficiale di Mussolini a Firenze, mentre questi passava tra la folla plaudente, Rosai fece salire in cielo un aquilone manifesto con una scritta beffardamente ingiuriosa, sopra la strada dove transitava il corteo.
Una beffa storica, il cui autore si conobbe solo a regime caduto.
Rosai, quando seppe che i tre gappisti, rifugiatisi a casa sua per sfuggire ai fascisti, avevano ammazzato Gentile, disse loro: “Bella impresa, ammazzare un povero vecchio”.
Il giudizio di Rosai è l’inizio d’un lungo dipanarsi di scritture polemiche sull’omicidio Gentile, culminate in un acuto e del tutto irrealistico libro di quel grande antichista e bella intelligenza politica che è Luciano Canfora; mentre una ponzio-pilitesca conclusione è la riflessione di Norberto Bobbio: “Allora lo approvai. Oggi, dopo l’esperienza del brigatismo rosso non lo penso più”; la qual riflessione è ben bizzarra, almeno alla luce del materialismo dialettico, al quale il filosofo Bobbio aderiva, e del quale l’attualismo gentiliano è più che una parva eco: il tempo e il luogo determinano spiegano l’azione.
Le circostanze particolari scatenanti il delitto Gentile, sono il suicidio in cella a Roma del fratello di Teresa Mattei, concatenato con il fatto che il filosofo avesse aderito alla repubblica di Salò: l’istituzione che per Teresa aveva determinato il tragico destino del fratello. E la cui morte scatenò in Teresa il più antico istinto che agisce in una coscienza umana offesa ingiustamente: il bisogno della vendetta riparatrice.
Ma una vendetta che, accaduta, trascese gli orizzonti che l’avevano determinata, l’omicidio del filosofo assumendo un suo tratto di esemplarità civile problematica intorno alla capitale domanda: “Il pensiero speculativo umano può diventare un crimine?”
La nostra tradizione metafisica tende a respingere l’ipotesi, ma il fascismo, del quale Gentile era stato il massimo teorico, aveva conquistato il potere attraverso un percorso di crimini addirittura ostentati, tra le uccisioni degli oppositori e gli incendi delle camere del lavoro prima della presa del potere.
Poi delitti proseguiti preso il potere, come documentano, tra gli altri, i delitti Matteotti e Rosselli e la condanna a morte di Gramsci per editto del Duce: “Questo cervello deve smettere di funzionare”.
Contro la tradizione metafisica occidentale, che sostiene l’impossibilità del reato intellettuale, sta però una coeva e consustanziale tradizione che condanna nella classe dei reati gravi la stessa libertà di pensiero, a partire dalla pietra angolare cristiana: “Sì! Sì! No! No!” tutto il resto viene dal diavolo.
Ma poi spesso è accaduto che per più che pochi alcuni, anche i “Sì! Sì! No! No!” possano venire dal diavolo.
Un esempio è appunto il dibattito sorto in margine al delitto Gentile.
Nello stagno, quando si getta un sasso le rane zittiscono.
Nello stagno del mondo quando si getta un fatto vale l’opposto: cresce il gracidare.
Il sasso omicidio Gentile scatenerà un dibattito sulla sua legittimità/illegittimità, che ancora dura nel pantano dell’intellettualità d’Italia, a discendere da ricostruzioni di fantasia del fatto accaduto.
E nulla lo dice quanto la legittimazione a posteriori dell’omicidio da parte dei vari Marchesi e Togliatti, quanto la condanna dei Montanelli e Fallaci che lo definì un atto sommo di viltà, mentre Fanciullacci fu tutto meno che un vile, come testimoniò con la morte eroica, per non cadere nelle mani delle brigate nere.
Anche la Fallaci, a dirla con Rosai, offende un povero morto, per declamarne un altro: Gentile.
Ma nell’esporre queste posizioni di note personalità, siamo anche passati dal mondo fenomenico naturale, che determinò l’azione di Teresa Mattei, a un carnevalesco baraccone degli specchi deformati, effetto di giochi mentali contingenti.
Una produzione di fantastico mentale che deve ammonire sul significato del giudizio intellettuale, ergo sul giudizio, per cui bisognerebbe sempre astenersi dal giudicare: come insegnano tanto gli evangeli che la tragedia greca, e prima ancora il Buddha.
Ma la vita costringe e incalza, e noi inevitabilmente, per quanto si vive, si deve giudicare davanti ai fatti, a condurci personalmente, per cui l’errore è inevitabile, davanti alla complessità dei problemi e alla mutevolezza meteorologica degli eventi umani.
Eschilo infatti ammonisce ancora anche oggi, per voce del coro delle Coefore: io dico che i morti uccidono chi vive.
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